Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

NEWS

Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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martedì 5 gennaio 2016

DOPO... NOI PIANTIAMO SEMI - Marina Pedron



Grazie del Suo augurio che mi incoraggia a piantare semi con rinnovata energia!
Augurio che custodirò e che mi aiuterà a far sì…

v  che non venga mai meno l'attenzione necessaria durante la semina,

v  che non si affievoliscano lo stupore e la meraviglia di fronte a nuovi semi e nuovi germogli,

v  che rimanga costante la cura nel coltivare,

v  che non mi scoraggi la consapevolezza che potrei non raccogliere i frutti in un immediato futuro e che il raccolto potrebbe non essere abbondante,

v  che si rafforzi giorno dopo giorno la pazienza di custodire nuovi semi e aspettare i desiderati germogli,

v  che il giardino che abbiamo scelto per la semina si ampli e ci permetta di vivere la ricchezza della vita.

Grazie per condividere un tratto di sentiero in questo grande splendido "orto-giardino".

Marina Pedron, insegnante

martedì 6 gennaio 2015

DONI



Che il fato, nel cui seno tutto è già avvenuto,
ci sorprenda con i suoi saggi doni.

Buon anno, amiche e amici miei.

Francesco


Acquerello di Cristiano Bertoncello

sabato 1 novembre 2014

DISPERAZIONE - Mariapia Veladiano


C'è questo stupore che il tempo continui, continui oltre il nostro dolore. Com'è possibile che le persone abbiano ancora un'intenzione, una meta da raggiungere, un'incombenza da sbrigare, magari di corsa, senza niente pensare. E c’è un governo con un decreto astratto e maldestro da votare, assenti tutti dai banchi, tranne gli interessati. Perché ancora sono convinti che un interesse, il loro interesse, valga la pena. Mentre il mondo è tutta una pena. E tutti fan finta di credere a qualcosa: la cena da preparare, il bollo da incollare.
Bisogna averla conosciuta la disperazione. Toccato la fine del nostro mondo, addossati al confine ultimo, niente più in là. Non il caldo di un desiderio che ci aspetta almeno come promessa, non le mani che ci sfioravano e che abbiamo perduto, nemmeno la fantasia, la più bugiarda delle promesse. Niente.
E niente si può dire perché la disperazione sente solo parole insincere, che dicono la consolazione senza conoscerla, e fanno male come una predica distratta a un funerale.
Che ci trovino accanto. Silenziose presenze senza pretesa. Senza giudizi. Senza soluzioni. Dove trovar pace. Una vastità accogliente. Che non giudica. Che offre riposo. Non siamo soli, non siamo soli.

Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti vita, Einaudi, Torino 2013, p. 17.

sabato 13 luglio 2013

NON CHIEDERE LA STRADA - Rabbi Nachman di Breslav (1772-1810)


Non chiedere mai la strada a qualcuno che la conosce,
non ti sarebbe più possibile perderti.

Rabbi Nachman di Breslav (1772-1810)

venerdì 24 maggio 2013

FA SUSSULTARE E SVUOTA - Erri De Luca



Mi fermai a guardarla. Il vestito bianco, una margheritina all’orecchio, odore diverso da quello delle mandorle, la fissavo, lo sguardo inceppato su di lei. Fu la prima notizia certa della bellezza femminile. Non sta sopra le copertine dei giornali, delle passerelle, sullo schermo, sta invece all’improvviso accanto. Fa sussultare e svuota. Restai così.
“Mi ascolti o mi guardi?”
Non so come mi usci di dire: “Posso scegliere?”

Erri De Luca
, I pesci non chiudono gli occhi

martedì 16 aprile 2013

INCREDIBILE MA VERO: L'ARCOBALENO - Stefano Benni



La signora Judy O'Flannagan di Ballyamosduff (Irlanda), svegliandosi una mattina dell'anno 1964, trovò la casa interamente immersa in una nube purpurea.
Assieme alla sorella Sheena tentò di disperderla con ogni mezzo: sventolando lenzuola, gettando secchi d'acqua e pregando in gaelico. Solo dopo qualche tempo la signora si accorse che sopra la sua abitazione si era posata l'estremità di un arcobaleno di eccezionale grandezza e compattezza. La nube era per l'appunto causata da uno degli anelli iridati.
I pompieri, subito intervenuti, riuscirono a scalare alcuni metri di arcobaleno, ma furono costretti a desistere per via dell’umidità e della scivolosità della parete.
Fortunatamente, dopo breve tempo, l’arcobaleno sparì, così come era venuto. Non ci fu alcuna conseguenza spiacevole per la casa della signora O'Flannagan, se non che tutte le camicie del marito uscirono leggermente tinte in rosa dal bagno iridato.
Un fenomeno analogo venne registrato all’altra estremità dell’arcobaleno, e precisamente a sei miglia di distanza in località Bailieborough, nella fattoria della signora Edna O’Raferty. L’unica differenza fu che lì l’alone era di colore giallo e che il marito, Paddy O’Raferty, dimostrando poca immaginazione e scarsa conoscenza della meteorologia, non credette alla spiegazione della moglie riguardo alle camicie.
«Per me è stato un maledettissimo calzino che ha perso colore nel bucato» dichiarò alla stampa.
Sul posto si recò un’équipe di scienziati dell’Università di Belfast, le cui conclusioni non sono mai state rese note.
Stefano Benni, L’ultima lacrima, p. 124-125. 

giovedì 16 agosto 2012

2. LA STORIA DI ASLAM - Greg Mortenson




Andrai a scuola!
A fine primavera, quando il cattivo tempo era passato, ma lo Shyok continuava a scorrere rapido e gonfio per il disgelo, Mohammed svegliò suo figlio prima dell’alba e gli disse di prepararsi a lasciare il villaggio. Aslam non riusciva a capire che cosa intendesse. Ma quando vide che suo padre gli aveva preparato una valigia, avvolgendo un blocco di churpa, un formaggio di pecora duro, in un fagotto di vestiti, cominciò a piangere.
“Andrai a scuola” disse suo padre.
Aslam camminò due giorni insieme al padre, scendendo dalle montagne. Come ogni ragazzo di Hushe, aveva già percorso gli stretti sentieri di montagna, aggrappati alle pareti come viticci di edera. Ma non era mai stato così lontano da casa. Laggiù la terra era sabbiosa e senza neve. Ma alle sue spalle il Masherbrum aveva perso la rassicurante grandezza che lo collocava al centro dell’universo conosciuto. Era solo una montagna tra le tante.
Greg Mortenson, David Oliver Relin, Tre tazze di tè, Milano 2008, p. 298

giovedì 29 marzo 2012

IL PAESE SENZA PUNTA - Gianni Rodari

Figueres, Spagna - Museo Dalì (2010)


Giovannino Perdigiorno era un grande viaggiatore. Viaggia e viaggia, una volta capitò in un paese dove gli spigoli delle case erano rotondi, e i tetti non finivano a punta ma con una gobba dolcissima. Lungo la strada correva una siepe di rose e a Giovannino venne lì per lì l'idea di infilarsene una all'occhiello. Mentre coglieva la rosa faceva molta attenzione a non pungersi con le spine, ma si accorse subito che le spine non pungevano mica, non avevano punta e parevano di gomma, e facevano il solletico alla mano.
 - Guarda, guarda, - disse Giovannino ad alta voce. Di dietro la siepe si affacciò una guardia municipale, sorridendo.
- Non lo sapeva che è vietato cogliere le rose?
- Mi dispiace, non ci ho pensato.
- Allora pagherà soltanto mezza multa, - disse la guardia, che con quel sorriso avrebbe potuto benissimo essere l’omino di burro che portava Pinocchio al Paese dei Balocchi. Giovannino osservò che la guardia scriveva la multa con una matita senza punta, e gli scappò di dire:- Scusi, mi fa vedere la sua sciabola?
- Volentieri, - disse la guardia. E naturalmente nemmeno la sciabola aveva la punta.
- Ma che paese è questo? - domandò Giovannino.
- Il Paese senza punta, - rispose la guardia, con tanta gentilezza che le sue parole si dovrebbero scrivere tutte con la lettera maiuscola.
- E per i chiodi come fate?
- Li abbiamo aboliti da un pezzo, facciamo tutto con la colla. E adesso, per favore, mi dia due schiaffi. Giovannino spalancò la bocca come se dovesse inghiottire una torta intera.
- Per carità, non voglio mica finire in prigione per oltraggio a pubblico ufficiale. I due schiaffi, semmai, dovrei riceverli, non darli.
- Ma qui usa così, - spiegò gentilmente la guardia, - per una multa intera quattro schiaffi, per mezza multa due soli.
- Alla guardia?
- Alla guardia.
- Ma è ingiusto, è terribile.
- Certo che è ingiusto, certo che è terribile, - disse la guardia. - La cosa è tanto odiosa che la gente, per non essere costretta a schiaffeggiare dei poveretti senza colpa, si guarda bene dal fare niente contro la legge. Su, mi dia quei due schiaffi, e un'altra volta stia più attento.
- Ma io non le voglio dare nemmeno un buffetto sulla guancia: le farò una carezza, invece.
- Quand'è così, - concluse la guardia, - dovrò riaccompagnarla alla frontiera.
E Giovannino, umiliatissimo, fu costretto ad abbandonare il Paese senza punta. Ma ancor oggi sogna di poterci tornare, per viverci nel più gentile dei modi, in una bella casetta col tetto senza punta.

Gianni Rodari, Favole al telefono, 1962, p. 18

martedì 27 marzo 2012

IL SEMAFORO BLU - Gianni Rodari

Place de la Concorde, Parigi (2012)

Una volta il semaforo che sta a Milano, in piazza del Duomo fece una stranezza.
Tutte le sue luci, ad un tratto, si tinsero di blu, e la gente non sapeva più come regolarsi.
"Attraversiamo o non attraversiamo? Stiamo o non stiamo?"
Da tutti i suoi occhi, in tutte le direzioni, il semaforo diffondeva l'insolito segnale blu, di un blu che così blu il cielo di Milano non era stato mai.
In attesa di capirci qualcosa gli automobilisti strepitavano e strombettavano, i motociclisti facevano ruggire lo scappamento e i pedoni più grassi gridavano: "Lei non sa chi sono io!"
Gli spiritosi lanciavano frizzi:
"Il verde se lo sarà mangiato il commendatore, per farci una villetta in campagna.
Il rosso lo hanno adoperato per tingere i pesci ai Giardini.
Col giallo sapete che ci fanno? Allungano l'olio d'oliva."
Finalmente arrivò un vigile e si mise in mezzo all'incrocio a districare il traffico. Un altro vigile cercò la cassetta dei comandi per riparare il guasto, e tolse la corrente.
Prima di spegnersi il semaforo blu fece in tempo a pensare:
"Poveretti! Io avevo dato il segnale di - via libera - per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio."

Gianni Rodari, Favole al telefono, 1962, p. 71

domenica 25 marzo 2012

FUMO, VENTO E BOLLE DI SAPONE - Italo Calvino

Hotel de Ville, Parigi (2012)

In quei giorni, il mondo della produzione di detersivi era in grande agitazione. La campagna pubblicitaria del Blancasol aveva messo in allarme le ditte concorrenti. Per il lancio dei loro prodotti, esse distribuivano in tutte le cassette postali della città questi tagliandi che davano diritto a campioni gratuiti sempre più grossi. […]
Casa Marcovaldo sembrava il magazzino d'una drogheria, piena com'era di prodotti Candofior, Limpialin, Lavolux; ma da tutta questa quantità di mercé non c'era da tirar fuori neanche un soldo; era roba che si regala, come l'acqua delle fontane. […]
Da un momento all'altro il detersivo diventò pericoloso come dinamite. Marcovaldo si spaventò: – Non voglio più neanche un grammo di queste polverine in casa mia! – Ma non si sapeva dove metterlo, in casa non lo voleva nessuno. Fu deciso che i bambini andassero a buttarlo tutto in fiume. […]
E dalle scatole aperte una per una, calava soffice una nuvola bianca, si posava sulla corrente che pareva l'assorbisse, ricompariva in un pullulare di minute bollicine, poi sembrava andare a fondo. –Così va bene! – e i ragazzi continuavano a scaricarne miriagrammi e miriagrammi.
– Attenzione, laggiù! – gridò Michelino, e indicò a valle.
Dopo il ponte c'era la rapida. Dove la corrente imboccava la discesa, le bollicine non si vedevano più; tornavano a saltar fuori più sotto, ma adesso erano diventate grosse bolle che si gonfiavano spingendosi l'un l'altra dal basso, un'onda di saponata che s'alzava, s'ingigantiva, già era alta quanto la rapida, una schiuma biancheggiante come la ciotola d'un barbiere rimestata dal pennello. Pareva che tutte quelle polverine di marche concorrenti si fossero messe di puntiglio a dar prova della loro effervescenza: il fiume traboccava di saponata nelle banchine, e i pescatori, che alle prime luci erano già con gli stivali a mollo, tiravano su le lenze e scappavano.
Per l'aria mattutina corse un filo di vento. Un grappolo di bolle si staccò dalla superficie dell'acqua, e volava volava via leggero. Era l'alba e le bolle si coloravano di rosa. I bambini le vedevano passare alte sopra il loro capo e gridavano: – Oooo...
Le bolle volavano seguendo gli invisibili binari delle correnti d'aria sulla città, imboccavano le vie all'altezza dei tetti, sempre salvandosi dallo sfiorare spigoli e grondaie. Ora la compattezza del grappolo s'era dissolta: le bolle una prima una poi erano volate per conto loro, e tenendo ognuna una rotta diversa per altitudine e speditezza e tracciato, vagavano a mezz'aria. S'erano, si sarebbe detto, moltiplicate; anzi: era così davvero, perché il fiume continuava a traboccare di schiuma come un bricco di latte al fuoco. E il vento, il vento levava in alto bave e gale e cumuli che s'allungavano in ghirlande iridate (i raggi del sole obliquo, scavalcati i tetti, avevano ormai preso possesso della città e del fiume), e invadevano il cielo sopra i fili e le antenne.
Ombre scure d'operai correvano alle fabbriche sui ciclomotori scoppiettanti e lo sciame verderosazzurro librato su di loro li seguiva come se ognuno di loro si tirasse dietro un grappolo di palloncini legati al manubrio con un lungo filo.
Fu da un tram che se ne accorsero: – Che guardino! Ehi, che guardino! Cos'è che c'è là in cima? – II tramviere fermò e scese: scesero tutti i passeggeri e si misero a guardare in cielo, si fermavano le bici e i ciclomotori e le auto e i giornalai e i fornai e tutti i passanti mattinieri e tra loro Marcovaldo che stava andando a lavorare, e tutti si misero a naso in su seguendo il volo delle bolle di sapone.
– Non sarà una roba atomica? – chiese una vecchia, e la paura corse nella gente, e chi vedeva una bolla scendergli addosso scappava gridando: – È radioattiva!
Ma le bolle continuavano il loro sfarfallio, iridate e fragili e leggere, che bastava un soffio, e piff ! non c'eran più; e presto nella gente l'allarme si spense così come s'era acceso. – Macché radioattive! È sapone! Bolle di sapone come quelle dei bambini! – e una frenetica allegria s'impadronì di loro. – Guarda quella! E quella! E quella! – perché ne vedevano volare delle enormi, di dimensioni incredibili, e allo sfiorarsi tra loro queste bolle si fondevano, diventavano doppie e triple, e il cielo i tetti i grattacieli attraverso queste cupole trasparenti apparivano di forme e colori che non s'erano mai visti.
Dalle loro ciminiere, le fabbriche avevano cominciato a buttar fuori fumo nero come ogni mattino. E gli sciami di bolle s'incontravano con le nubi di fumo e il cielo era diviso tra correnti di fumo nero e correnti di schiuma iridata, e in qualche mulinello di vento pareva che lottassero, e per un momento, un momento solo, parve che la cima dei fumaioli fosse conquistata dalle bolle, ma presto ci fu una tale mescolanza – tra il fumo che imprigionava l'arcobaleno della schiuma e le sfere di saponata che imprigionavano un velo di granelli di fuliggine –, da non capirci più niente. Finché a un certo punto Marcovaldo cerca cerca nel cielo non riusciva a vedere più le bolle ma solo fumo fumo fumo.

Italo Calvino, Marcovaldo, Milano 1993

martedì 20 marzo 2012

TITANIO - Primo Levi

Torre Fiat a Marina di Massa (2010)


In cucina c’era un uomo molto alto, vestito in un modo che Maria non aveva mai visto prima. Aveva in testa una barchetta fatta con un giornale, fumava la pipa e dipingeva l’armadio di bianco.
Era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così piccola, e Maria moriva dal desiderio di andare a guardarci dentro. L’uomo ogni tanto posava la pipa sull’armadio stesso, e fischiava; poi smetteva di fischiare e cominciava a cantare; ogni tanto faceva due passi indietro e chiudeva un occhio, e andava anche qualche volta a sputare nella pattumiera e poi si strofinava la bocca col rovescio della mano. Faceva insomma tante cose così strane e nuove che era interessantissimo starlo a guardare: e quando l’armadio fu bianco, raccolse la scatola e molti giornali che erano per terra e portò tutto accanto alla credenza e incominciò a dipingere anche quella.
L’armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo. Maria si avvicinò all’armadio, ma l’uomo se ne accorse e disse: - Non toccare. Non devi toccare. Maria si arrestò interdetta e chiese: - Perché? - al che l’uomo rispose: - Perché non bisogna -. Maria ci pensò sopra, poi chiese ancora: - Perché è così bianco? - Anche l’uomo pensò un poco, come se la domanda gli sembrasse difficile, e poi disse con voce profonda: - Perché è titanio.
Maria si sentì percorrere da un delizioso brivido di paura, come quando nelle fiabe arriva l’orco, guardò con attenzione, e constatò che l’uomo non aveva coltelli, né in mano né intorno a sé: poteva però averne uno nascosto. Allora domandò: - Mi tagli che cosa? - e a questo punto avrebbe dovuto rispondere: “Ti taglio la lingua”. Invece disse soltanto: - Non ti taglio, titanio.
In conclusione, doveva essere un uomo molto potente: tuttavia non pareva in collera, anzi piuttosto buono e amichevole, Maria gli chiese: - Signore, come ti chiami? - Lui rispose: - Mi chiamo Felice -; non si era tolto la pipa di bocca, e quando parlava la pipa ballava su e giù eppure non cadeva. Maria stette un po’ di tempo in silenzio, guardando alternativamente l’uomo e l’armadio. Non era per nulla soddisfatta di quella risposta ed avrebbe voluto domandare perché si chiamava Felice, ma poi non osò, perché si ricordava che i bambini non devono mai chiedere perché. La sua amica Alice si chiamava Alice ed era una bambina, ed era veramente strano che si potesse chiamare Felice un uomo grande come quello. Ma a poco a poco incominciò invece a sembrarle naturale che quell’uomo si chiamasse Felice, e le parve anzi che non avrebbe potuto chiamarsi in nessun altro modo.
L’armadio dipinto era talmente bianco che in confronto tutto il resto della cucina sembrava giallo e sporco. Maria giudicò che non ci fosse nulla di male nell’andarlo a vedere da vicino: solo vedere senza toccare. Ma mentre si avvicinava in punta di piedi avvenne un fatto imprevisto e terribile: l’uomo si voltò, con due passi le fu vicino; trasse di tasca un gesso bianco, e disegnò sul pavimento un cerchio intorno a Maria. Poi disse: - Non devi uscire di lì dentro. - Dopo di che strofinò un fiammifero accese la pipa facendo colla bocca molte smorfie strane, e si rimise a verniciare la credenza.
Maria sedette sui calcagni e considerò a lungo il cerchio con attenzione: ma dovette convincersi che non c’era nessuna uscita. Provò a fregarlo in un punto con un dito, e constatò che realmente la traccia di gesso spariva; ma si rendeva benissimo conto che l’uomo non avrebbe ritenuto valido quel sistema.
Il cerchio era palesemente magico. Maria sedette per terra zitta e tranquilla; ogni tanto provava a spingersi fino a toccare il cerchio con la punta dei piedi e si sporgeva in avanti fino quasi a perdere l’equilibrio, ma vide ben presto che mancava ancora un buon palmo a che potesse raggiungere l’armadio o la parete con le dita. Allora stette a contemplare come a poco a poco anche la credenza, le sedie e il tavolo diventavano belli e bianchi.
Dopo moltissimo tempo l’uomo ripose il pennello e lo scatolino e si tolse la barchetta di giornale dal capo, ed allora si vide che aveva i capelli come tutti gli altri uomini. Poi uscì dalla parte del balcone, e Maria lo udì tramestare e camminare su e giù nella stanza accanto. Maria cominciò a chiamare: - Signore! - dapprima sottovoce, poi più forte, ma non troppo, perché in fondo aveva paura che l’uomo sentisse.
Finalmente l’ uomo ritornò in cucina. Maria chiese: - Signore, adesso posso uscire? - L’uomo guardò in giù a Maria e al cerchio, rise forte e disse molte cose che non si capivano, ma non pareva che fosse arrabbiato. Infine disse: - Sì, si capisce, adesso puoi uscire -. Maria lo guardava perplessa e non si muoveva: allora l’uomo prese uno straccio e cancellò il cerchio ben bene, per disfare l’incantesimo. Quando il cerchio fu sparito Maria si alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta e soddisfatta.
Primo Levi, Il sistema periodico, p. 169-171

giovedì 1 marzo 2012

I PASCOLI DEL CIELO - John Steinbeck



LA TRAMA
Venti famiglie. Un piccolo villaggio, all'inizio del '900, in una fertile vallata della California centrale. È lo scenario del primo libro importante di John Steinbeck, "I pascoli del cielo", che fu pubblicato nel 1932 e tradotto da Elio Vittorini nel 1940. Si compone di dodici capitoli ma non è propriamente un romanzo perché a tenere insieme le diverse vicende, ciascuna conchiusa in sé, di questo piccolo capolavoro non sono i personaggi ma l'ambientazione - il rapporto dei contadini con la natura circostante - e, soprattutto, il tema del misterioso insinuarsi del male in un luogo che all'occhio umano appare come l'ingannevole replica del Giardino dell'Eden.

DAL LIBRO
Anno 1776, Alta California.
Nel pomeriggio del secondo giorno un giovane cervo passò di volata dinanzi al caporale e scomparve dietro a un ciglione. Il caporale si staccò dalla colonna per inseguirlo. Quando, sullo stremato cavallo, raggiunse la vetta del ciglione, si fermò stupito per lo spettacolo che gli si aprì sotto gli occhi. Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi.
Al cospetto di tanta bellezza, il caporale si sentì commosso. Lui che aveva frustato tante schiene di indiani, lui che, maschio rapace, si adoperava a forgiare una nuova razza per la California, lui, il selvaggio barbuto apportatore di civiltà, scese di sella e si tolse il casco d’acciaio.
“Madre di Dio!”, mormorò. “Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!”
John Steinbeck, I pascoli del cielo, 1932, trad. Elio Vittorini, ed. Bompiani 2011, p. 7-8.


L'AUTORE
John Steinbeck (Salinas, 27 febbraio 1902 – New York, 20 dicembre 1968) è stato uno scrittore statunitense tra i più noti del XX secolo, autore di numerosi romanzi, racconti brevi e novelle. Fu per un breve periodo giornalista e cronista di guerra nella seconda guerra mondiale. Nel 1962 gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l'umore sensibile e la percezione sociale acuta".


venerdì 30 dicembre 2011

LA PACE - Anthony De Mello


C'erano una volta due monaci, che per quarant'anni avevano vissuto insieme e non avevano mai litigato. Neppure una volta. Un giorno uno disse all'altro: “Non ti pare che sia venuto il momento di litigare almeno una volta?”.
Il secondo monaco rispose: “Va bene, iniziamo! Su cosa ci mettiamo a litigare?”.
Cosa ne dici di questo pane?”, propose il primo monaco.
Va bene, litighiamo per il pane. Come facciamo?”, chiese il secondo.
Disse il primo: “Questo pane è mio, mi appartiene”.
E il secondo replicò: “Tienitelo”.

La pace non è necessariamente distrutta da una lite o da una discussione.
Chi distrugge la pace è l'io. Questo appartiene a me e non lo condivido con nessuno. Quando prende piede questo atteggiamento di attaccamento e di egoismo, il cuore si indurisce ogni giorno sempre di più.
Questo è il grande nemico della pace: un cuore attaccato, indurito, egoista.
Osservate il vostro cuore. Potrete dire: “Ci sono tante discussioni e liti nella nostra vita!”. Ma non c'è rancore, né amarezza, né odio. 
C'è tanto dolore e tanta sofferenza nella nostra vita!”. E io dico: “Ma non c'è alcun disordine nella vostra coscienza”. 
C'è un grande dinamismo e molta attività nella nostra vita”. "Ma non c'è squilibrio nervoso né tensione". 
Potete affermare questo di voi? Se lo potete dire, sarete costruttori di pace nel vasto mondo.
Come si ottiene questo? Vogliamo provare qui? Vogliamo provare adesso?
Facciamo un esercizio spirituale molto semplice che non dura più di uno o due minuti. Chiudete gli occhi e prendete contatto con il vostro corpo. Fate attenzione al contatto dei vestiti con le spalle, al contatto dei vestiti con la schiena. La mano. Sentite la vostra mano che si appoggia a qualcosa oppure che tocca l'altra. Sentite il peso del vostro corpo che preme i vostri glutei sulla sedia. I piedi toccano le scarpe o il suolo. Ancora una volta: le spalle, la schiena, la mano, i glutei, i piedi. Un'altra volta lentamente: spalle, schiena, mani, glutei e piedi. Adesso, lentamente aprite gli occhi. L'esercizio è finito.
Cosa è avvenuto mentre facevate l'esercizio che vi ho proposto? Vi siete sentiti rilassati o tesi? La maggior parte delle persone si sente rilassata, solo alcuni si irrigidiscono. In quest'ultimo caso vi suggerirei di entrare in contatto con la tensione. In quale parte del corpo avvertite la tensione? Mantenetevi il più possibile attenti alla tensione. Vi rilasserete gradualmente.
Se ripeterete questo esercizio per cinque o dieci minuti, molti cominceranno ad avvertire sonnolenza, e potranno anche addormentarsi, tanto sono rilassati.
Questo esercizio di rilassamento procura la pace di cui sto parlando?
Questo non è un esercizio di rilassamento, ma un esercizio di attenzione.
D'accordo! Ma dà pace?”. “Si!, dà pace”, anche se vi sembra difficile crederci. 
È come entrare in voi stessi. È come sentire ogni genere di cosa, sperimentare, vedere realtà sorprendenti.

Anthony De Mello, Istruzioni di volo per aquile e polli, p. 17-19

domenica 25 dicembre 2011

LA STORIA RICOMINCIA DAGLI ULTIMI - Ermes Ronchi


A Natale non celebria­mo un ricordo, ma una profezia. Natale non è una festa sentimentale, ma il giudizio sul mondo e il nuovo ordinamento di tutte le cose. Quella notte il senso della storia ha imboccato un'altra direzione: Dio verso l'uomo, il grande verso il piccolo, dal cielo verso il basso, da una città verso una grotta, dal tempio a un campo di pastori. La storia ricomincia dagli ultimi.
Mentre a Roma si decidono le sorti del mondo, mentre le legioni mantengono la pace con la spada, in questo meccanismo perfettamente oliato cade un granello di sabbia: nasce un bambino, sufficiente a mutare la direzione della storia. La nuova capitale del mondo è Betlemme.
Lì Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia... nella greppia degli animali, che Maria nel suo bisogno legge come una culla. La stalla e la mangiatoia sono un no ai modelli mondani, un no alla fame di potere, un no al “così vanno le cose”. Dio entra nel mondo dal punto più basso perché nessuna creatura sia più in basso, nessuno non raggiunto dal suo abbraccio che salva.
Natale è il più grande atto di fede di Dio nell'umanità, affida il figlio alle mani di una ragazza inesperta e generosa, ha fede in lei. Maria si prende cura del neonato, lo nutre di latte, di carezze e di sogni. Lo fa vivere con il suo abbraccio.
C'erano in quella regione alcuni pastori... una nuvola di ali e di canto li avvolge. È così bello che Luca prenda nota di questa unica visita, un gruppo di pastori, odorosi di lana e di latte... È bello per tutti i poveri, gli ultimi, gli anonimi, i dimenticati. Dio riparte da loro.
Vanno e trovano un bambino.
Lo guardano: i suoi occhi sono gli occhi di Dio, la sua fame è la fame di Dio, quelle manine che si tendono verso la madre, sono le mani di Dio tese verso di loro.
Natale è la riconsacrazione del corpo. La certezza che la nostra carne che Dio ha preso, amato, fatto sua, in qualche sua parte è santa, che la nostra storia in qualche sua pagina è sacra.
Il creatore che aveva plasmato Adamo con la creta del suolo si fa lui stesso creta di questo nostro suolo. Il vasaio si fa argilla di una vaso fragile e bellissimo. E nessuno può dire: qui finisce l'uomo, qui comincia Dio, perché Creatore e creatura ormai si sono abbracciati. Ed è per sempre.


Ermes Ronchi, su Avvenire

mercoledì 21 dicembre 2011

I BISCOTTI VERI - Autore anonimo


Una ragazza stava aspettando il suo volo in una sala d’attesa di un grande aeroporto. Siccome avrebbe dovuto aspettare per molto tempo, decise di comprare un libro per ammazzare il tempo. Comprò anche un pacchetto di biscotti. Si sedette nella sala VIP per stare più tranquilla.
Accanto a lei c’era la sedia con i biscotti e dall’altro lato un signore che stava leggendo il giornale. Quando lei cominciò a prendere il primo biscotto, anche l’uomo ne prese uno. Lei si sentì indignata, ma non disse nulla e continuò a leggere il suo libro. Tra lei e lei pensò “Ma tu guarda, se solo avessi un po’ più di coraggio gli avrei già dato un pugno…”.
Così ogni volta che lei prendeva un biscotto, l’uomo accanto a lei, senza fare un minimo cenno ne prendeva uno anche lui. Continuarono fino a che rimase solo un biscotto e la donna pensò: “Ah, adesso voglio proprio vedere cosa mi dice quando saranno finiti tutti!!”.
L’uomo prima che lei prendesse l’ultimo biscotto lo divise a metà! “Ah, questo è troppo” pensò e cominciò a sbuffare e indignata si prese le sue cose il libro e la sua borsa e si incamminò verso l’uscita della sala d’attesa.
Quando si sentì un po’ meglio e la rabbia era passata, si sedette in una sedia lungo il corridoio per non attirare troppo l’attenzione ed evitare altri dispiaceri. Chiuse il libro e aprì la borsa per infilarlo dentro quando… nell’aprire la borsa vide che il pacchetto di biscotti era ancora tutto intero nel suo interno.
Sentì tanta vergogna e capì solo allora che il pacchetto di biscotti uguale al suo era di quell’uomo sedutole accanto che però aveva diviso i suoi biscotti con lei senza sentirsi indignato, nervoso o superiore, mentre lei aveva sbuffato e addirittura si era sentita ferita nell’orgoglio.
Autore anonimo

domenica 18 dicembre 2011

AL TERMINE DI UNA SPLENDIDA DOMENICA - Vàclav Havel


Era una splendida domenica
di settembre nel parco, io e un amico
notammo uno sconosciuto, a terra,
che lottava tra la vita e la morte.
Lo portammo dal medico più vicino,
un vecchio austero.
Lo visitò per un’ora
gli fece varie iniezioni
lo rifocillò e gli diede da bere
(l’ultimo caffè che aveva in casa).
Io e il mio amico cominciammo
a temere
di dover sborsare una bella somma
e ci chiedevamo dove avremmo trovato
i soldi per pagare.
E quando poi ci diede la ricetta
per farlo ricoverare in ospedale
ci infilò un biglietto da 25 corone:
per il taxi… borbottò
e arrossì persino:
Dopo alcuni mesi leggemmo
che quel medico
era stato condannato a morte
per tradimento e attività sovversiva.
Allora penso di aver capito
per la prima volta vagamente
cosa sia pena di morte.

Vàclav Havel, in Fremiti

mercoledì 14 dicembre 2011

IL SEGNALE - Bruno Ferrero


Un giovane era seduto da solo nell'autobus; teneva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Aveva poco più di vent'anni ed era di bell'aspetto, con un viso dai lineamenti delicati.
Una donna si sedette accanto a lui. Dopo avere scambiato qualche chiacchiera a proposito del tempo, caldo e primaverile, il giovane disse, inaspettatamente: «Sono stato in prigione per due anni. Sono uscito questa mattina e sto tornando a casa».
Le parole gli uscivano come un fiume in piena mentre le raccontava di come fosse cresciuto in una famiglia povera ma onesta e di come la sua attività criminale avesse procurato ai suoi cari vergogna e dolore. In quei due anni non aveva più avuto notizie di loro. Sapeva che i genitori erano troppo poveri per affrontare il viaggio fino al carcere dov'era detenuto e che si sentivano troppo ignoranti per scrivergli. Da parte sua, aveva smesso di spedire lettere perché non riceveva risposta.
Tre settimane prima di essere rimesso in libertà, aveva fatto un ultimo, disperato tentativo di mettersi in contatto con il padre e la madre. Aveva chiesto scusa per averli delusi, implorandone il perdono.
Dopo essere stato rilasciato, era salito su quell'autobus che lo avrebbe riportato nella sua città e che passava proprio davanti al giardino della casa dove era cresciuto e dove i suoi genitori continuavano ad abitare.
Nella sua lettera aveva scritto che avrebbe compreso le loro ragioni. Per rendere le cose più semplici, aveva chiesto loro di dargli un segnale che potesse essere visto dall'autobus. Se lo avevano perdonato e lo volevano accogliere di nuovo in casa, avrebbero legato un nastro bianco al vecchio melo in giardino. Se il segnale non ci fosse stato, lui sarebbe rimasto sull'autobus e avrebbe lasciato la città, uscendo per sempre dalla loro vita.
Mentre l'automezzo si avvicinava alla sua via, il giovane diventava sempre più nervoso, al punto di aver paura a guardare fuori del finestrino, perché era sicuro che non ci sarebbe stato nessun fiocco.
Dopo aver ascoltato la sua storia, la donna si limitò a chiedergli: «Cambia posto con me. Guarderò io fuori del finestrino».
L'autobus procedette ancora per qualche isolato e a un certo punto la donna vide l'albero.
Toccò con gentilezza la spalla del giovane e, trattenendo le lacrime, mormorò: «Guarda! Guarda! Hanno coperto tutto l'albero di nastri bianchi».

Bruno Ferrero, in La vita è tutto quello che abbiamo

lunedì 21 marzo 2011

PRIMAVERA - Rabindranath Tagore


Lungo molti anni

a grande prezzo

viaggiando attraverso molti paesi

andai a vedere alte montagne,

la neve sui deserti, gli oceani…

Soltanto non vidi dallo scalino della mia porta

la goccia di rugiada scintillante

sulla spiga di grano.

Rabindranath Tagore

giovedì 10 marzo 2011

L'INATTESO - Euripide


"Gli dei ci riservano tante sorprese:
l’atteso, spesso, non si compie,
mentre è all’inatteso che un dio apre la via".



Euripide, Medea
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