Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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giovedì 7 maggio 2020

AVRO' CURA DI TE




Ai miei ragazzi e ragazze
e alle loro famiglie
Agli insegnanti e al personale ATA
A tutti coloro che hanno lavorato con me in questi anni
A tutti coloro che amano la scuola


C
on la sua trasmissione Non è mai troppo tardi, Alberto Manzi si proponeva un obiettivo semplice e, allo stesso tempo, ambizioso: consentire a tanti analfabeti italiani di conseguire il diploma di quinta elementare.
Nei primi anni Sessanta, la televisione aveva fatto da poco il suo ingresso nelle case e rappresentava uno strumento tecnologico d’avanguardia. Consapevoli che la proposta era rivolta a coloro che a scuola non c’erano andati, o non potevano andarci, il maestro Manzi e la RAI misero la novità a frutto del bisogno. Il format non poteva che avere i caratteri di una didattica a distanza, un’istruzione di base assolutamente formale.
Il contratto con i telespettatori era chiaro: io vi insegno a leggere e a scrivere in modo che voi possiate sostenere l’esame. Altre promesse o aspettative differenti sarebbero state fuorvianti o pretestuose.
Per diversi anni, la cosa funzionò, anche perché il maestro rimase tenacemente fedele al suo impegno didattico e metodologico, con l’umiltà di chi sa di tenere in mano un semplice gessetto e la consapevolezza di essere all’interno di un contesto diverso rispetto alla classe. Manzi sapeva che in classe guizzano sguardi, nascono amori, stillano lacrime; in classe si sente l’odore della fatica e lo sferragliare dei cervelli impegnati a pensare e a risolvere. Di fronte a un video, tutto questo e tanto altro mancava.
Ciò che non mancò mai fu la sua passione nel tracciare quelle lettere alla lavagna. E anch’io, bambino di 10-12 anni, ricordo quella calda voce in bianco e nero che lentamente e con pazienza infinita ripeteva e ripeteva nomi e articoli, verbi e preposizioni tenendo sempre legata a sé l’attenzione dell’allievo, come fa l’alzaia con il battello.
L’alzaia è la fune che veniva utilizzata per rimorchiare da terra le chiatte lungo la risalita dei navigli di città. E proprio Alzaia è il titolo di un libro di Erri De Luca dove si narra di un famoso sarto operante in Gerusalemme, luminosa metafora del maestro Manzi e di ogni maestro che si trova a cucire la preziosa stoffa degli apprendimenti con il fragile filo dell’insegnamento.
Cuciture
Un sarto ebreo ricevette da un nobile della sua città l’incarico di cucire un raro capo di vestiario con un tessuto prezioso acquistato a Parigi. Il nobile raccomandò al sarto di realizzare un capolavoro. Il sarto sorrise e rispose che non c’era bisogno di incitamenti perché lui era il migliore della regione. Terminata l’opera portò il vestito dall’illustre cliente, ma ne ricevette in cambio solo ingiurie e accuse di aver rovinato il tessuto. Il sarto frastornato e avvilito andò a chiedere consiglio da reb Yeramiel che gli disse pressappoco così: “Disfa tutte le cuciture del vestito e poi ricucile esattamente negli stessi punti di prima. Poi riportaglielo”. Il sarto seguì lo strano consiglio e riportò il vestito al nobile. Con sua sorpresa il signore fu entusiasta del lavoro e aggiunse anche un premio al salario.
Reb Yeramiel gli spiegò poi: “La prima volta tu avevi cucito con arroganza e l’arroganza non ha grazia. Perciò sei stato respinto. La seconda volta hai cucito con umiltà e il vestito ha acquistato valore”. È decisiva l’intenzione, più della perizia, l’ispirazione più della maestria, anche negli umili lavori. […] La sola abilità tecnica è sterile, vana.
Per chi è abituato a considerare solo il prodotto finito e non il modo con cui lo si lavora, per chi giudica l’opera e non l’intenzione, questo racconto è invano.
Erri De Luca, Alzaia
La sola abilità tecnica è sterile, vana. E’ più importante l’intenzione rispetto alla perizia, l’ispirazione più della maestria, anche nei lavori più umili. Lo evidenzia bene Primo Levi quando mette in bocca al montatore specializzato, protagonista del suo La chiave a stella, le sacrosante parole: “Ma io l’anima ce la metto in tutti i lavori, lei lo sa, anche nei più balordi, anzi con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Ogni lavoro che incammino è come un primo amore”.
Una cara collega di Milano, in questi giorni ha scritto le seguenti parole ai docenti e ai genitori:
“A partire da un articolo di giornale mi veniva chiesto se la scuola digitale favorisce o meno l’educazione, non la didattica, ma l’educazione. Qualcuno più grande di noi diceva che l’educazione è cosa del cuore. Sono convinta che se ci si mette il cuore, si educa sempre. E’ più difficile a distanza? Certo, ma non impossibile. Conta sempre quanto sei disposto a lasciarti coinvolgere. Bambini e ragazzi capiscono se gli vuoi bene e sanno che gliene vuoi anche a distanza. Una mamma mi diceva che sente un filo conduttore in tutto ciò che stiamo facendo, e ciò che le arriva è Amore. Come adulti non abbiamo potuto mantenere la promessa implicita nelle parole di Franco Battiato: Ti proteggerò dalle paure, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Questo tempo non ce lo ha concesso, ma a ogni bambino e ragazzo possiamo dire: Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza, perché sei un essere speciale. E io avrò cura di te, io sì che avrò cura di te”.  
Alberto Manzi aveva un fuoco dentro che scaldava i cuori di chi lo ascoltava e metteva loro le ali. Nell’umile lavoro di ogni giorno, tanti docenti oggi si sono rivelati “maestri”, modelli di impegno e di cura, fucine di idee e di sperimentazioni, esploratori di anime scoscese dietro un distante sguardo sfuggente, tessitori che intrecciano fili di tutti i colori in trame di speranza per storie future, sarti che rammendano in silenzio sfregi e sbrindelli.
A tutti loro, umili sì, ma grandi nella passione, va il nostro ringraziamento.
Che questa storia non giunga per noi invano.


Francesco Callegari


mercoledì 11 marzo 2020

DIDATTICA... E NON SOLO

 

N

ella difficile situazione attuale, ciascuno di voi sta cercando di fare il meglio possibile per mantenere il contatto con i nostri allievi. Allo stesso tempo, è necessario rendersi conto che le procedure a distanza che stiamo adottando vengono attuate senza un necessario periodo di sperimentazione. Questo ci obbliga a tarare continuamente le modalità e i carichi di lavoro legati alle nostre proposte didattiche.

E sottolineo la parola DIDATTICHE, in quanto desidero evidenziare che il nostro essere docenti si compone di tanto e tanto altro. Mi riferisco a tutto ciò che vivete ogni giorno in classe, soprattutto alla parte relazionale che, in questa situazione, potrebbe essere limitata o addirittura compromessa. Bastasse mandare compiti per mail o creare lezioni su piattaforme o su YouTube, non saremmo più così indispensabili.

Consapevoli di ciò, vi prego di considerare questo periodo anche alla luce delle difficoltà che le famiglie stanno vivendo: tanti genitori vanno al lavoro e i figli sono affidati a nonni, parenti, vicini di casa, amici.... Non possiamo pertanto pretendere che tutti i nostri ragazzi siano accompagnati dai loro genitori con gli strumenti informatici per un tempo lungo e a qualsiasi ora del giorno. Diverse famiglie, oltretutto, sono sprovviste di adeguata attrezzatura.

La situazione è legata a un’emergenza che impedisce o limita fortemente la vita regolare delle famiglie, sconvolgendo quei ritmi che ci servirebbero per garantire un buon rendimento scolastico. E di questo dobbiamo tenere conto.

Vi esorto a non farvi prendere dall'ansia nello svolgimento di quello che, ormai tanti anni fa, era il "programma" e che, adesso più che mai, diventa serena progettazione legata alla contingenza del momento.

Penso sia importante che rassereniate i vostri allievi con la vostra presenza virtuale, supportandoli in tutti i modi che riteniate opportuni in considerazione della profonda conoscenza che avete di loro.

Vi invito a utilizzare gli strumenti informatici a distanza anche e soprattutto per accompagnare i vostri ragazzi in un momento così delicato della loro esperienza di vita: aiutate i vostri allievi a fare tesoro di quanto stanno vivendo, rammentiamo loro il valore della solidarietà, la riscoperta dei semplici gesti e i comportamenti normali. Tutte cose che, speriamo quanto prima, possiamo tornare ad accogliere come un dono di cui essere grati.


venerdì 12 settembre 2014

LA MOTIVAZIONE - Pierre Durrande


Nessuno può essere educato suo malgrado.

Pierre Durrande, L'arte di educare alla vita

lunedì 1 settembre 2014

39. UN BAMBINO FATTO IN CASA - Francesco Callegari



Ne ho provati tanti e sono giunto alla conclusione che il migliore sia quello altoatesino. Sarà per via dell’erba o dell’acqua, non so, ma lo yogurt dell’Alto Adige ha un sapore particolare. Mi piace soprattutto quello alla vaniglia e, quando al supermercato vedo allineati i barattoli da mezzo chilo, ne pregusto già il profumo e la morbida consistenza. L’unica cosa che allora osservo con attenzione è la data di scadenza, perché mezzo chilo di yogurt non lo consumi in mezza giornata.
Per giungere a questa scelta ne ho però assaggiati parecchi e ho letto le loro etichette: quante calorie e quanti fermenti lattici vivi (che al solo pensarci fa un po’ impressione), e poi gli zuccheri, gli amidi, la frutta. Le etichette sono importanti: se non ci fossero loro a dirci per esempio quanto residuo fisso rimane nell’acqua che beviamo, non oso pensare ai danni che provocheremmo al nostro organismo! Per fortuna, su tutti gli alimenti confezionati vige l’obbligo di apporre un’etichetta che ne descriva nel dettaglio gli ingredienti. La fabbricazione in serie, tipica dell’industria, consente la produzione di pezzi tutti identici, rendendo così di fatto possibile l’etichettatura.
Questa stessa operazione risulta invece molto complicata, e forse anche inutile se non rischiosa, per tutti quei beni che non sono prodotti in serie: molto probabilmente il pane fatto in casa risulterà diverso per dosi e sapore in ciascuna cottura, così come la passata casalinga di pomodori o la confettura di frutta. A questi alimenti non ci sogneremmo mai di apporre una minuziosa schedatura degli ingredienti, ma ci limiteremmo a gustarli nella loro meravigliosa fragranza lasciandoci sorprendere di volta in volta dall’incanto della loro novità.
Due genitori mi hanno appena scritto una bellissima lettera rivendicando, per il loro bambino fatto in casa, il sacrosanto diritto all’unicità.
Spesso la nostra mente applica inavvertitamente alle persone lo stesso processo conoscitivo utilizzato per le acque minerali: naturali o frizzanti, povere o ricche di sodio, con alto o basso residuo fisso, ecc. Questo meccanismo semplificatorio, che normalmente ci aiuta ad affrontare e comprendere il mondo reale riducendo l’ansia delle diversità, risulta però deleterio se applicato alle persone.
Alexandre Jollien, giovane filosofo francese, esprime bene questo rischio:
“Il nostro rapporto con il mondo procede per riduzioni. Ogni giorno devo raccogliere, setacciare, selezionare informazioni in funzione di ciò che è necessario per vivere. Questo lavoro obbliga a fissare priorità, a focalizzare le urgenze. Non posso vedere tutto, capire tutto, né fare tutto. Di conseguenza, organizzo il mio mondo, incollando alla realtà delle etichette, delle parole, a tal punto che ben presto finirò per vedere solo quelle. Gli antichi vedevano nell’esperienza il principio della saggezza. Eppure, essa può anche portare a ridurre l’essere che ci sta di fronte a una etichetta”.
Alexandre JollienIl mestiere di uomo, Edizioni Qiqaion, Magnano (BI) 2003, p. 63
Incasellare le persone, limita prima di tutto la nostra possibilità di godere e apprezzare la ricchezza delle diverse individualità, ma offre anche incautamente il fianco ad atteggiamenti discriminatori che potrebbero propagarsi nel gruppo dei pari con conseguenze devastanti a livello relazionale.
Soprattutto in un ambiente come la scuola, creato appositamente per far crescere le persone al meglio delle loro possibilità e per allenarle alla vita sociale, è importante il rispetto sostanziale delle diverse individualità, rispetto che si manifesta anche attraverso l’uso di parole che creino empatia, che facciano crescere, che uniscano e non che dividano o escludano. Parole che parlino di libertà e non di prigioni: nel momento in cui etichettiamo una persona, magari a causa di un suo particolare modo di essere, di fare o di parlare, apponiamo su di lei un marchio indelebile che la imprigionerà per sempre portandoci a identificare quella stessa persona con l’etichetta che le abbiamo assegnato e impedendoci di vedere in lei tutto il resto.
Il primo passo, anche se forse il più difficile, è quello di non esprimere giudizi sulle persone. Lo psicologo statunitense Marshall Rosenberg, creatore del metodo della Comunicazione Non Violenta, scrive:
“Il filosofo indiano J. Krishnamurti una volta affermò che osservare senza valutare è la forma più elevata di intelligenza umana. Per la maggior parte di noi, è difficile osservare le persone e i loro comportamenti senza mescolarvi giudizi, critiche o altre forme di analisi.
Attribuendo etichette alle persone, tendiamo ad assumere nei loro confronti atteggiamenti che contribuiscono a generare i comportamenti stessi che ci preoccupano, il che poi lo vediamo come una ulteriore conferma della nostra diagnosi”.
Marshall B. Rosenberg, Le parole sono finestre, Ed. Esserci, 2003, p. 48, 50, 107.
Il cammino verso la comunicazione non violenta ci apre a nuovi orizzonti e ci invita a cambiare il nostro asse di prospettiva. Normalmente noi utilizziamo il metro di giudizio verticale che prevede a un estremo il concetto di giusto con il relativo premio, dall’altro il concetto di sbagliato con il relativo castigo. Esiste un altro asse relazionale: quello orizzontale, basato sulla comprensione dei bisogni e sul riconoscimento delle emozioni. Bisogni ed emozioni sono strettamente correlati: un bisogno soddisfatto genera un’emozione positiva e viceversa.
Si parla tanto oggi di scuola inclusiva: fino a ieri si diceva che la scuola deve integrare, oggi deve includere. Io non so quale sia tra i due il termine più corretto, so per certo però che una buona scuola è quella che è disposta all’incontro, che sa accogliere e valorizzare le diversità. Una scuola accogliente è una scuola attenta ai bisogni, è una scuola che tende a produrre emozioni positive, che non isola e non esclude, una scuola che non umilia e non mortifica, una scuola che non etichetta e non ingabbia, ma che valorizza il bello e il buono di ciascuno, facendo volare tutti, docenti e allievi. Insieme.
Una scuola attenta sa mettere ciascun allievo nelle migliori condizioni per apprendere. Ancora l’asse bisogni-emozioni, perché l’apprendimento passa più facilmente attraverso le emozioni: “Capitano, mio capitano!”. Lungo l’asse premio-castigo passa solo un apprendimento temporaneo, fasullo, buono solo per l’interrogazione del giorno dopo. Una grande perdita di tempo, in definitiva.
Secondo il filosofo Pierre Durrande:
“Il compito primario di un educatore è quello di offrire la testimonianza di un’umanità autentica e piena. Ed è solo attraverso un costante lavoro su se stesso che un educatore può impegnarsi in quest’opera vitale, poiché educare è innanzitutto incontrare e ogni incontro è possibile solo creando uno spazio di accoglienza in se stessi, quello spazio che nasce da una piena adesione alla propria umanità”.
Pierre DurrandeL’arte di educare alla vita, Edizioni Qiqaion, Magnano (BI) 2012.
Ed è proprio lì, nell’apertura consapevole all’incontro, che si gioca la grande sfida dell’inclusione/integrazione: è in classe, ma anche in casa, che le parole e i gesti assumono il colore dell’accoglienza, il sapore della libertà e il canto della speranza.
Buon anno scolastico.                                                                 
1 settembre 2014

Francesco Callegari                                                                      
dirigente scolastico

lunedì 24 marzo 2014

IN VOLO NELLO SPAZIO PROFONDO - Tema


TEMA: “In volo nello Spazio profondo, un viaggio emozionante nella storia dell’Universo alla ricerca dell’origine della vita, nata si dice da una stella…”.
Esprimi la tua meraviglia, le tue profonde sensazioni e le emozioni che hai provato nel vedere al Planetario di Padova quell’incredibile visione simulata.

Nella mattinata dello scorso martedì 11 marzo, insieme ai miei compagni di classe e alle Maestre Patrizia e Carla, siamo andati in visita al Planetario di Padova a vedere la simulazione del nostro Sistema solare.
Qualche anno fa ero già andata a visitarlo con la mia famiglia, e anche quella volta sono rimasta molto colpita ed impressionata dall’immensità del nostro Universo.
Ad accoglierci al Planetario e ad accompagnarci alla scoperta delle sue meraviglie questa volta, io e i miei compagni, abbiamo avuto a nostra disposizione un vero astronomo, in carne ed ossa… che emozione!
Ho scoperto con grande curiosità che gli astronomi non sono solo gli studiosi che le nostre Insegnanti ci hanno spiegato a scuola e che studiano e ci svelano i misteri  dell’Universo.
Martedì mattina al Planetario, io e i miei compagni, abbiamo scoperto che sono uomini veri come gli astronauti, e che a differenza di Gino, il panettiere del supermercato o dei nostri papà, hanno deciso a volte fin da piccoli di dedicare la loro vita allo studio dello spazio infinito e delle sue incredibili creature: le stelle, le galassie, i pianeti, gli asteroidi, le nebulose, i buchi neri… e ancora, ancora molto di più!

martedì 11 marzo 2014

34. LA NOSTRA PIU’ PREZIOSA CONSEGNA – Francesco Callegari


LA NOSTRA PIU’ PREZIOSA CONSEGNA

LETTERA APERTA AL NUOVO MINISTRO DELL’ISTRUZIONE - 11 marzo 2014

Nelle nuove “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, a pagina 9 si legge:
“La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di disabilità o di svantaggio”.
E ancora: “Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende”.
Una scuola che ricerca quotidianamente il senso della propria esistenza nella centralità dell’alunno, senza se e senza ma, legge queste parole con grande favore.  Soprattutto perché la nostra è una scuola che da sempre considera l’alunno con disabilità come la sua più preziosa consegna.
Il 5 agosto 2009 sono state emanate le “Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” e lì leggiamo che:
“La presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso, un’emergenza da presidiare, ma un evento che richiede una riorganizzazione del sistema e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti”.
E proprio questo, noi abbiamo cercato di fare in questi anni: organizzarci in modo da offrire ai ragazzi con disabilità il meglio della nostra competenza, delle nostre energie, della nostra didattica, della nostra capacità di accogliere e di creare benessere.
“L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si pèrdono loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati, diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo?”
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 20.
A complicare le cose, negli ultimi tempi, è venuta la carenza di personale specializzato nel sostegno. Gli alunni con le necessità più particolari, quelli che avrebbero più bisogno di docenti di grande competenza ed esperienza, vengono ora affidati a insegnanti precari, spesso senza alcuna preparazione specifica e attinti dalle graduatorie delle varie discipline: tecnologia, musica, educazione fisica…, sulla base del loro punteggio. Insegnanti con tanta buona volontà, ma nessuna specializzazione sul sostegno.
Quando, anziché l’alunno, a essere privilegiata è la “Graduatoria” o addirittura l’Intergraduatoria, che è la “Graduatoria delle graduatorie”, tutto può succedere. E così, di anno in anno, all’insegnante di musica subentra l’architetto, il docente di educazione fisica sostituisce l’insegnante di lingua straniera, e così via...  
Noi crediamo che, prima di ogni altra considerazione, il ragazzo con disabilità abbia il diritto di avere accanto a sé un esperto che sappia cogliere le sue difficoltà e le sappia gestire con competenza professionale. In caso contrario, corriamo il rischio che uno più uno non faccia due.
Gian Antonio Stella sul Corriere del 31 gennaio 2013, alla fine di un articolo dal titolo “Bocciare il merito, la scuola non cambia mai, parlando dei modi in cui vengono assunti i docenti, scriveva:
“…ti senti sperduto in un'intricatissima foresta in cui ancora una volta è stata smarrita la strada che porta a quel «merito, merito, merito» di cui tutti si riempiono la bocca. E in cui i diritti fondamentali da difendere sembrano comunque essere ancora quelli dei professori e solo dopo (molto dopo) quelli degli studenti.”

Sperando in un futuro dove nella scuola italiana il primo “avente diritto” sia realmente l’alunno, Le porgo i più sinceri auguri di buon lavoro.

Francesco Callegari
Dirigente scolastico

mercoledì 26 febbraio 2014

L'ARTE DI NON TAPPARSI LE ORECCHIE - Marcel Prévost (1862-1941)


Supponiamo di avere scelto il buon maestro; e tuttavia il risultato dell’insegnamento non dipenderà soltanto da lui. Tanto meno dipenderà da lui, in quanto il maestro avrà parecchi alunni assieme. La grande maggioranza delle persone, che hanno imparato con dei maestri, hanno ricevuto quest’insegnamento in comune, in classi e nei corsi.
Le classi e i corsi sono il procedimento per il quale, in generale, si stabilisce il rapporto fra coloro che insegnano e quelli che vogliono imparare. Supponendo che quelli che insegnano compiano esattamente la loro missione, in qual modo dovrà comportarsi chi impara per ben profittare dell’insegnamento orale?
Certo, le qualità del maestro restano efficaci e vi è anche un’arte particolare d’insegnare nello stesso tempo a parecchi allievi. Ma sull’alunno che si tura le orecchie, il più meraviglioso insegnamento orale non avrà alcun effetto. Noi studieremo l’arte di non tapparsi le orecchie o, più genericamente, l’arte di seguire un insegnamento orale: l’arte d’imparare ascoltando.

Marcel Prévost, L’arte dell’imparare, Bari 1931, p. 58-60 passim

martedì 25 febbraio 2014

BUONI E CATTIVI MAESTRI - Marcel Prévost (1862-1941)


Come distinguere un buon maestro da un maestro cattivo, o da uno mediocre?
Ebbene, in pratica non è poi troppo difficile smascherare un cattivo insegnante. Egli si tradisce con la sua pigrizia o col suo disordine; l’ignoranza che insegna non sfugge a un allievo attento, fosse pure ignorante egli stesso.
I parenti hanno il dovere ben preciso di sorvegliare il magister ai quali affidano i loro figlioli, cosa facile nel caso di un «precettore», e possibile anche nel caso in cui l’alunno frequenti una scuola pubblica. Basterà chiedere al figlio come vanno le cose nella sua classe, esaminare i suoi libri, informarsi esattamente sulla lezione che deve imparare, leggere gli argomenti del compito. E dopo due o tre scandagli di questo genere si potrà dare un giudizio sul valore pedagogico dell’insegnante.
Genitori, genitori, siate fermi e inesorabili contro i cattivi maestri e denunciate senza stancarvi gli usi assurdi delle scuole, dai libri stranamente voluminosi, ai corsi disordinati e sproporzionati, tirati in lungo al principio dell’anno, abborracciati alla fine, e denunciate ancora la mancanza di controllo sulla lezione imparata e sul compito eseguito.
Nessuno è obbligato a fare il professore; se sceglie questa professione, la eserciti con diligenza o se ne vada.
In ogni scuola dovrebbe esserci un comitato di genitori, scelti fra i più colti e meglio adatti per sorvegliare efficacemente l’insegnamento.
Marcel Prévost, L’arte dell’imparare, Bari 1931, p. 57-58 passim


sabato 22 febbraio 2014

IL MAESTRO E IL LIBRO - Marcel Prévost (1862-1941)


A prima vista, queste due forme di insegnamento si somigliano: un maestro è un libro che parla; un libro è un maestro che, per quanto silenzioso, comunica il suo pensiero.
Maestro e libro appaiono al principiante come sostegni permanenti del suo sforzo: l’uno assume la parte di guida, l’altro quello di carta stradale per il viaggiatore.
Maestro e libro suggeriscono, d’altra parte, l’ordine al neofita. Ebbene, un maestro e un libro, si suppone che posseggano in modo essenziale il dono dell’ordine e la facoltà di imporre quest’ordine all’alunno, in maniera quasi insensibile e, in ogni caso, niente affatto penosa.
Scegliendo un libro e prendendo un maestro, noi facciamo un atto di fede nel loro metodo e sacrifichiamo provvisoriamente il nostro ordine (se ne abbiamo) al loro, e se poi non ne abbiamo, li incarichiamo di averne uno per noi. Ancora una volta, il maestro e il libro non sono che agenti per aiutare la nostra volontà, il nostro metodo, la nostra pazienza.
Un esame più approfondito dell’insegnante e del libro ci mostrerà che questi due agenti non possono stare l’uno senza l’altro. Chi non ha mai imparato se non con dei maestri, trascurando i libri, è per solito altrettanto male istruito quanto l’«autodidatta» che conversa di scienza soltanto con delle pagine stampate, perché ciascuno di questi mezzi d’apprendere corrisponde in noi a delle facoltà diverse.
Tutta l’arte dell’imparare si restringerà così a trarre giudiziosamente vantaggio dal maestro e dal libro, senza che il loro intervento sopprima la nostra facoltà d’invenzione.
Marcel Prévost, L’arte dell’imparare, Bari 1931, p. 48-51 passim


lunedì 27 gennaio 2014

16. LE MATERIE DELL’ALTRO MONDO – Anna Chiara Fontana


San Cristobal de las Casas - Chiapas
C’è spazio anche per lo yoga, la lettura, la musica, l’inglese, l’informatica e la falegnameria. Ogni venerdì si fa sport o un’uscita in un museo a scelta dei bambini. Quello che conta è dare strumenti, non tanto i contenuti che ognuno poi saprà trovare da solo avendo imparato il metodo.

Mi ha colpito molto la risposta di Joni a una signora che gli chiedeva se vedeva differenza tra lui e i suoi amici che frequentano altre scuole. Lui, che ha fatto l’asilo e le elementari in questa scuola e che è al suo ultimo anno, le ha detto che i suoi amici di altre scuole gli sembrano dei robot, ossia poco consapevoli e esecutori di ordini imposti dall’alto. 
Forte no? Joni, seppure non abbia molta voglia di parlare, è sempre contento di ciò che fa e gli piace anche fare corsi di rinforzo pomeridiani. 

mercoledì 8 gennaio 2014

L'ARPA MUTA - Anthony De Mello


Il re Saul, a un certo punto della sua vita, era molto scoraggiato e afflitto. Dietro suggerimento dei suoi consiglieri, decise di dare un banchetto per liberarsi da questa inquietudine. Affinché in tale occasione non mancasse la musica, dispose che i suoi taglialegna fossero mandati nelle foreste reali a tagliare delle querce per farne un’arpa speciale. Mandò poi altri artigiani nei suoi laboratori per fabbricare le corde per l’arpa.
Infine, giunse la sera del banchetto.
Al culmine dei festeggiamenti, la nuova arpa fu trasportata su di un carro fino al palco centrale. Ma non appena il suonatore pizzicò la prima corda dell’arpa, successe il disastro. Nessun suono scaturì dallo strumento. Furono chiamati gli esperti della corte per spiegarne le ragioni, ma nessuno fu in grado di fornire una spiegazione.
Né tanto meno riuscirono a far suonare lo strumento.
Finalmente un esperto suggerì che Davide, il ragazzo , fosse portato a palazzo per vedere se fosse in grado di far luce sulla questione.
Quando Davide arrivò, si sedette, e delicatamente accostò l’orecchio alle corde dell’arpa.
Attese per alcuni minuti in quella posizione e poi cominciò a trarre dallo strumento una stupenda musica.
Quando il re gli chiese in seguito di spiegare che cosa fosse successo, il ragazzo rispose che prima aveva dovuto ascoltare e lasciare che l’arpa raccontasse la sua storia. Quest’ultima gli aveva raccontato di come avesse cominciato la sua vita di piccola ghianda prima di diventare una quercia gigantesca nella foresta.
Gli aveva spiegato di aver sopportato la durezza dell’inverno, di essere stata abbattuta e di come le sue corde fossero state temprate nel calore bianco della fucina.
Solo quando era stata ascoltata e aveva rivelato il dolore della sua nascita e vita, era stata in grado di adempiere al suo destino e al suo potenziale.

Anthony De Mello, Brevetto di volo per aquile e polli, p. 119-120

venerdì 8 novembre 2013

3/4. LA SCUOLA INSEGNI A VIVERE - Edgar Morin


Effettivamente, essere specialista di tutto è essere specialista di niente. Raymond Aron, mi sembra, diceva che il proprio del lavoro di uno specialista è sapere tutto su un dominio estremamente ridotto, cioè pressoché niente. Delle due cose, l'una: o si ha una mancanza di conoscenze precise, o una conoscenza talmente precisa che alla fine non ha alcun interesse.
In effetti, bisogna partire dal problema della conoscenza. Se si ha un'informazione, ma si è incapaci di situarla nel suo contesto (frammentato attraverso le discipline), si arriverà per forza a un'informazione senza interesse. Si è d'altronde obbligati a contestualizzare senza posa - il proprio della storia è di essere una scienza che contestualizza gli eventi. Come uscirne? Alcune risposte sono già state date, attraverso raggruppamenti scientifici. Prendiamo l'esempio dell'ecologia, scienza fondata sull'idea di ecosistema, ma che riguarda molte discipline. In un dato ambiente, l'insieme degli esseri viventi, vegetali, animali, i microbi ecc... costituisce un'organizzazione spontanea, a sua volta collocata in una data cornice fisica, geografica e meteorologica. pertanto, l'ecologo, che si interessa ai meccanismi della formazione e delle disfunzioni degli ecosistemi, possiede conoscenze varie ma incomplete. Dovrà dunque chiedere l'aiuto del botanico, dello zoologo ecc... Lo stesso per le scienze della terra: la meteorologia, la vulcanologia, la sismologia, la geologia sono state separate fino al momento in cui si è scoperta la tettonica a placche. Avendo dimostrato da allora che la terra è un sistema funzionale molto complesso, ci si è impegnati a riunire queste differenti materie.
Tratto da Avvenire, 25 ottobre 2013


martedì 5 novembre 2013

1/4. LA SCUOLA INSEGNI A VIVERE - Edgar Morin


Le nuove tecnologie, il computer, la videoconferenza ecc... sono divenute indispensabili. Intendiamoci, esse non possono rimpiazzare un insegnante fisicamente presente. Ha detto Platone: «Per insegnare, occorre eros». Eros è una parola greca che significa piacere, amore, passione. Per comunicare, non serve a nulla dispensare il sapere a fette, ma bisogna amare ciò che si fa e le persone che sono dinanzi a noi.
L'insegnante è colui che, attraverso ciò che professa, può aiutarvi a scoprire le vostre proprie verità. A mio avviso, l'insegnante è un mediatore che aiuta ciascuno a comprendersi, a conoscersi. E la letteratura gioca in questo un grande ruolo. Io sono di quelli che hanno riconosciuto le loro proprie verità attraverso grandi romanzi. Dostoevskij mi ha insegnato a comprendere i miei sentimenti riguardo la vita.
Io non credo che occorra scartare certe discipline, col pretesto che esse hanno un pubblico di nicchia. Le belle lettere non sono un lusso! Se tante persone leggono sulla metropolitana, è perché si immergono in un universo di cui hanno bisogno. Perché amiamo il cinema? Perché ci permette di vivere meglio i nostri sentimenti d'amore, di partecipazione, di simpatia ecc... Il cinema meriterebbe d'altronde di trovare un posto più importante nella cultura; è un'arte fondamentale...
In realtà, così come sussistono ora, le discipline devono essere integrate in grandi insiemi. Cosa sono la fisica, la chimica, se non il mondo di cui siamo fatti, posto che noi abbiamo delle cellule biologiche composte da interazioni fisico-chimiche? La grande scoperta degli anni Cinquanta è che non c'è una sostanza vivente diversa dalla sostanza materiale normale. Noi siamo fatti di elementi chimici che esistono nella natura, ma che sono organizzati in modo ben più complesso e nuovo. La fisica come la chimica sono noi stessi! È il mondo nel quale noi siamo.
Tratto da Avvenire, 25 ottobre 2013

venerdì 25 ottobre 2013

L’INSEGNANTE IN GIOCO – Italo Fiorin


Pur con tutto il rispetto per le tecnologie e le loro promesse, è l’insegnante il primo e più importante mediatore didattico. Di fronte ai suoi alunni, l’insegnante è in gioco; convocato dall’“aula”, non può sottrarsi.
Nell’interazione con gli studenti sono richieste molte cose: proporre contenuti di studio in forma efficace, facendo ricorso a strategie e metodi coinvolgenti e responsabilizzanti.
Contenuti e metodi sono i ferri del “mestiere”, ma non basta padroneggiarli.
Al di là di quanto l’insegnante presenta agli alunni e di come lo fa, c’è qualcosa d’altro, ancora più importante. E riguarda la relazione che l’insegnante ha con i contenuti della sua comunicazione, che è tanto più efficace quanto maggiore è in coinvolgimento personale.
Solo chi è appassionato può appassionare, solo chi è intimamente interessato è capace di interessare.

Italo Fiorin, “Scuola e formazione”, n. 9/10 (2012)

mercoledì 16 ottobre 2013

LA MOTIVAZIONE IN AULA – Italo Fiorin


Nel linguaggio della scuola l’“aula” non è lo spazio fisico, il contenitore materiale che ogni mattina si riempie di studenti, fatto di banchi, di armadi, di cattedra e di lavagna – multimediale o tradizionale che sia; l’“aula” è un cosa viva, che ti scruta, che rumoreggia, che presta attenzione, che disturba, che ha una propria anima, talvolta è una fiera da domare, talvolta un pubblico da affascinare, o un cantiere di lavoro…
L’“aula” è fatta di tanti volti che ti osservano, che aspettano le tue mosse, è un bosco da esplorare, un insieme di diversità che pretende, ciascuna, di essere vista, di non essere confusa con nessun’altra.
Ogni nuovo anno scolastico riporta l’insegnante in questa arena, senza rete, con sulle spalle un compito insostenibile, quello di parlare a tutti in modo per ciascuno significativo, con un programma da svolgere – certamente –, ma, soprattutto, con un messaggio da comunicare.
Il principale problema, infatti, non è quello di trasmettere qualche nozione o di fornire qualche abilità, non è, nemmeno, garantire una buona qualità professionale; più importante di tutto è la prospettiva che l’insegnante sa offrire a chi gli sta davanti e che ha bisogno di capire perché è lì.
La vera sfida didattica si gioca sul terreno della motivazione. Motivazione e apprendimento significativo sono due parole che si richiamano e che chiamano in causa l’insegnante, che dovrà rendere possibile questo miracolo.
Bruno Bettelheim ci fornisce un’indicazione preziosa, quando ricorda agli educatori (genitori, insegnanti...) che la più grande richiesta che i bambini e i ragazzi fanno loro è di aiutarli a trovare un significato alla propria vita.
Italo Fiorin, “Scuola e Formazione”, n. 9/10 (2012)


venerdì 18 gennaio 2013

IL TIRO CON L'ARCO - Marco Orsi


Nel libro Lo zen e il tiro con l’arco, Eugen Herrigel (1995) racconta dell’allievo che si concentra in tutti i modi per cercare di centrare il bersaglio, passando gli anni in un tour de force sfiancante; è solo quando capisce che deve togliersi dalla mente il bersaglio che fa centro. Per avere successo, allora, quello vero, bisogna concentrarsi non sull’obiettivo ma sul come, sull’arte del tiro con l’arco, ovvero sull’arte di insegnare.
La scuola oggi si dimentica del come, della didattica, del come si insegna, delle strategie per organizzare la classe e la scuola, dei metodi per attivare la curiosità degli alunni, per stimolare le varie intelligenze, per sollecitare i diversi stili cognitivi, per valorizzare le competenze, le conoscenze, gli interessi esistenti, per impegnare i vari sensi di cui è composto il nostro corpo, per stimolare le varie aree del nostro cervello. Il come viene tralasciato per il cosa, il cosa dobbiamo imparare, il cosa soprattutto in quanto obiettivo da raggiungere. Piuttosto che concentrarsi sulla qualità dell’azione, sul processo di apprendimento-insegnamento, si preferisce ricorrere ai primordiali strumenti della minaccia e della sanzione, del premio e della gratificazione.
Marco Orsi, Ti do una nota, “Difficoltà di apprendimento”, (18/2, Trento, 2012), p. 170)

giovedì 17 gennaio 2013

MA ROUSSEAU DAVA I VOTI? - Marco Orsi



Forse poche volte abbiamo riflettuto sul fatto che molti grandi pedagogisti in realtà si sono occupati poco di valutazione, cioè di come valutare performance e competenze; e, nemmeno, più grossolanamente, si sono occupati di voti, di giudizi, di attrezzare un sistema di premi e punizioni. Si pensi, solo per fare alcuni nomi, a Rousseau, Pestalozzi, Dewey, Freinet o a Maria Montessori. Perché questa loro disattenzione, ci possiamo chiedere? Perché si sono dimostrati disinteressati tanto a mettere voti quanto a cercare di valutare i risultati? La risposta  può essere contenuta nella constatazione di una scuola oggi tutta concentrata sugli esiti, sulle performance. Qui, l’importante è quello che esce, il risultato, il conseguimento della meta. L’obiettivo che l’alunno deve raggiungere. E’ come se in un viaggio ci occupassimo solo di individuare la meta, senza preoccuparci di come arrivarci. La scuola di oggi ci pare disinteressata al come, vale a dire alla didattica, in quanto è tutta presa dal risultato, dall’obiettivo.
Marco Orsi, Ti do una nota, “Difficoltà di apprendimento”, (18/2, Trento, 2012), p. 169-170
Marco Orsi è il responsabile nazionale della rete “Senza zaino. Per una scuola comunità” di Lucca.

martedì 4 dicembre 2012

PARLACI DELL'INSEGNARE - Kahlil Gibran



E un maestro disse: Parlaci dell’Insegnamento.
E lui disse:
Nessuno può rivelarvi nulla se non ciò che già si trova in stato di dormiveglia nell'albeggiare della nostra conoscenza.
L'insegnante che cammina nell'ombra del tempio, tra i suoi discepoli, non trasmette la sua sapienza, ma piuttosto la sua fede e la sua amorevolezza.
Se è veramente saggio, non vi farà entrare nella dimora del suo sapere, ma vi accompagnerà fino alla soglia della vostra mente.
Kahlil Gibran, Il profeta

lunedì 19 novembre 2012

LA FUGA DEL CAMMELLO - Arturo Paoli



Andavamo in carovana, guidati da nomadi, buoni conoscitori del deserto, con una truppa di cammelli che portavano gli elementi necessari per innalzare una tenda sotto cui passare la notte, le vettovaglie e l'acqua.
Tutte le mattine - immancabilmente - un cammello a turno fuggiva lontano e si sottraeva al suo lavoro quotidiano. Ci avevano avvisato di non corrergli dietro cercando di acchiapparlo, di non gridare, di lasciarlo partire tra l'indifferenza generale; di considerarlo, insomma, come un turista che si separa dal gruppo organizzato perché vuol vivere una giornata libera da programmi.
Passato il mezzogiorno si scorgeva un punto all'orizzonte che si avvicinava sempre di più: il fuggitivo tornava. Quando, dopo alcune ore dall'apparizione, il fuggitivo era abbastanza vicino al gruppo, un arabo si avvicinava a lui dolcemente, senza grida, senza recriminazioni, senza alzare le mani, e cominciava a camminargli accanto cantando sommessamente. E questo accompagnamento durava fino all'arrivo di tappa.
Il giorno dopo il transfuga di ieri era quello che offriva per primo il suo dorso, e un altro fuggiva.
Arturo Paoli, La pazienza del nulla, Milano 2012, p. 59-60.
Arturo Paoli (Lucca, 30 novembre 1912) è un missionario italiano, appartenente alla congregazione dei Piccoli Fratelli di Gesù. È Giusto tra le Nazioni per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati durante la seconda guerra mondiale.
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