Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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domenica 28 giugno 2020

CHIAMATEMI DIRETTORE




“I limiti esistono soltanto nell’anima
di chi è a corto di sogni”
Philippe Petit, Trattato di funambolismo

“T
utto quello mi è capitato di buono non mi è venuto da una vera intenzione, ma come da sé, senza meta prefissa, senza posa della prima pietra e altre solennità d’inaugurazione”. Questo, Erri De Luca confessa nel suo Alzaia, squarciando di verità un’esistenza che solo illusoriamente pensiamo in mano nostra.  E, sempre su Alzaia, continua: “Suo compito a volte è solamente non opporsi, non frenare, insomma farsi suonare senza la pretesa di essere sempre suonatore, compositore”.
Anni di vita e di lavoro che creano un disegno, ma noi siamo troppo bassi, ci siamo dentro, per poterlo vedere tutto intero, e riconoscerlo. Ne sa qualcosa l’uomo descritto da Karen Blixen che, dopo una nottata di corse tribolate in giardino, scopre, il mattino dopo, che le sue orme avevano disegnato sul terreno una cicogna: “Quando il disegno della mia vita sarà compiuto, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?”
Così, le lettere che in questi anni ho scritto per voi. A partire da Magiche alchimie del Primo settembre 2007, in tutte e in ciascuna ho lasciato che spirasse il vento della profezia: parola che sbaraglia, soffio di messaggio che ogni volta scompigliava me per primo. Di rado mi sono preoccupato che l’esito fosse poesia o aspra prosa. Di rado ho cercato parole che fossero condivisibili da tutti, anzi. Rileggendole, odo musica che invita a ballare, avverto ali che spingono a volare, odoro profumi che fanno sognare. Ma più di tutto, sento la mano che scuote decisa l’albero, affinché ciascuno possa godere del proprio frutto maturo.
Anche questa, ultima mia lettera come vostro dirigente, non cercherà facile consenso, ma avrà la durezza della terra da arare, sasso gettato nello stagno, uccello che vola controvento, sbattuto e inerme.
Nelle mie intenzioni, questo avrebbe dovuto essere il lascito ideale, il testamento pedagogico, qualcosa con cui farmi ricordare. Carrellata sui tanti anni di scuola, e di vita. Flash di eventi e ripasso di memoria. Pensieri scolpiti. E ringraziamenti per tutti voi che avete reso possibile una scuola con il cuore che batte.


Così si fa alla fine della carriera, questo ci si aspetta dal dirigente che va in pensione: parlarvi del progetto di scuola che fin dall’inizio ha infiammato il mio cuore e che giorno dopo giorno ho condiviso con voi. Ripercorrere i nostri sogni pedagogici, le avventure didattiche, le sperimentazioni organizzative, i nostri corsi di formazione, unici e irripetibili. Individuare ancora una volta assieme a voi la stella polare che indica il nostro oriente, il senso di tutto il nostro lavoro: i ragazzi e il loro seme cui offrire rispetto e nutrimento. La carne sempre prima delle carte. 
Niente di tutto questo. Perché sono mano prestata, idee che mi raggiungono e che ritrasmetto come onde nell’aria, vibrazioni che assumono la forma di chi le riceve, e le accoglie. Melodia su cui ciascuno intona il canto che sa, o che può. 

“La visione della stella polare non dice mai al pescatore in quale direzione debba muovere,
ma egli non avanzerà nella notte se non è in grado di riconoscerla”.
Simone Weil, Scritti londinesi
Per quanto mi riguarda, credo di avere compreso il disegno che tutti questi anni di corse tribolate, questo mio andirivieni di parole e di azioni, alla fine, hanno prodotto: incisa sulla terra del mio giardino riconosco l’immagine di un uomo per una scuola d’altri tempi e d’altri modi.
Chiamatemi direttore. Non prèside, direttore. Come di colui che dà una direzione, vento che soffia sulle vele e le gonfia, acqua che sostiene la nave e la fa navigare. Dito che indica la luna.
Vent’anni fa, per norma di legge, i direttori didattici e i prèsidi sono diventati dirigenti scolastici. Anche i direttori, da allora, hanno preferito farsi chiamare prèside, convinti così di salire di grado. Sbagliavano.
Parrebbe una questione puramente nominale, ma anche il modo in cui ci si riferisce a una persona contribuisce a definirne il ruolo, e la funzione ne assume i colori e le sfumature: mentre prèside è “colui che siede davanti”, il direttore “traccia, alza, costruisce”.
Tredici anni fa, non ne ero pienamente consapevole. E adesso è troppo tardi, per me, ma soprattutto per la scuola. Non servono i direttori. Altre sono le priorità e le urgenze che l’istituzione deve affrontare.
L’appellativo del dirigente è ormai solo questione di lana caprina.

“Se vuoi costruire una nave
non chiamare gente che porti il legno
che procuri gli attrezzi necessari
Non distribuire compiti
Non organizzare il lavoro
Prima sveglia negli uomini la nostalgia
del mare lontano e sconfinato
Appena si sarà svegliata in loro questa sete
gli uomini si metteranno subito al lavoro
per costruire la nave”.
Antoine De Saint-Exupery

In tredici anni, non ho mai scritto un ordine di servizio.
Ho sempre cercato di creare intorno a voi spazi di libertà, universi di fiducia. Intorno, ma più di tutto al di sopra. Ho liberato lo spazio da tutto ciò che poteva ostacolarvi in altezza, me compreso. Per consentirvi di crescere, di alzarvi in volo, senza paura, senza timore di andare a sbattere, di venire ripresi. Non ho mai dovuto infliggere una sanzione disciplinare.
E non mi sono mai arreso. In ogni Collegio, in ogni Consiglio, in ogni occasione, direttore come voce d’onda, costante sciabordio dell’acqua contro la chiglia della nave, megafono di domanda. A ricordare, a tenere alta e viva l’attenzione sul senso della navigazione. 
A ogni ondata, una domanda:
“Verso dove stai andando?”, “A cosa sei destinato?”, “Sei al tuo posto?”
E la domanda radicale per una scuola:
“Quale educazione?”
Cinque anni fa, nella lettera La domanda delle onde scrivevo:
Quando per esempio affermiamo che è l’allievo a essere posto al centro dell’azione educativa, intendiamo operare per accompagnarlo a scoprire e valorizzare la sua vocazione profonda oppure intendiamo fornirgli gli strumenti per integrarsi efficacemente nella società attuale? Non è la stessa cosa. Se riteniamo prioritaria l’integrazione all’interno di questa società in veloce cambiamento, daremo grande valore alle competenze. Ma se per centralità della persona intendiamo ciò che le onde ci hanno suggerito, allora ci assale lo sgomento, perché tutto lo sforzo che abbiamo fatto per abituarci a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze, si annulla nella nuova consapevolezza che la salvezza sta nella capacità del singolo di ritrovare quei perduti parametri esistenziali basati su valori che poco hanno a che vedere con tutto ciò che noi chiamiamo “progresso”.
Siate allora esempio di saggezza, perché se la competenza è il modo in cui usate la conoscenza, la saggezza ne è il perché, e soprattutto il quando.
“Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino,
bisogna soprattutto conoscere Giovannino”.
Jean-Jacques Rousseau, Emilio
La scuola ha bisogno di sogni, di respiri ampi, di visione. Ha bisogno di altezze, di andare aldilà, di vedere oltre. Soprattutto, oltre noi stessi. Perché la tentazione del rispecchiamento, anche se inconscia, è sempre dietro l’angolo: più mi assomiglia e più l’allievo è bravo, meglio ripete le mie parole e più ha capito, più si comporta come dico io e più è educato. Il grande fraintendimento sta nell’essere convinti di dovergli spiegare come deve essere, anziché cercare di capire come veramente è. Giovannino è venuto in questo mondo per uno scopo preciso: è una cosa così stupida e inutile prenderlo per mano e aiutarlo a capire quale sia questo scopo? Il Giovannino che è dentro ciascuno di noi è stato aiutato dai suoi insegnanti a scoprire il senso del suo camminare sulle strade di questo mondo? Oppure si sono preoccupati di qualcos’altro?
Sta a noi deciderlo. Certo, ci vuole coraggio. Il coraggio del prof. Keating che strappa le pagine dall’antologia e sale sulla cattedra per ricordare prima di tutto a se stesso che bisogna sempre guardare le cose da angolazioni diverse: “E’ proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”. E il mondo appare effettivamente diverso.  Anche se è lo stesso. Perché tutto è Uno.
“Non insegnate ai bambini,
ma coltivate voi stessi, il cuore e la mente,
stategli sempre vicini,
date fiducia all’amore, il resto è niente”.
Giorgio Gaber, Non insegnate ai bambini
E il maestro diventa Maestro, che nella bottega artigiana si pone a esempio di fattura, modello di capolavoro. Ciascuno con la propria fatica, il proprio sudore, la propria vocazione. Nel rispetto. Nella fiducia. A un seme, per crescere, bastano acqua e buon terreno. Ed è abbastanza.
Termino questa lettera, facendo mie le parole che una persona speciale, la nostra DSGA Luisa, ci ha scritto la notte tra il 31 agosto e il Primo settembre 2018, al momento di andare in pensione:
“Se nulla succede per caso, voi siete stati il mio caso, e se domani non sono con voi, voi siete sempre con me. Vi voglio bene”.

30 giugno 2020                                              Francesco Callegari

 “E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre alla follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio -
è una barca che anela al mare eppure lo teme”.
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River

lunedì 24 dicembre 2018

ROBERTO DELLE MONGOLFIERE - Francesco Callegari



A Roberto parlano gli angeli
e gli raccontano del fuoco e del vento

Le sue mani di vasaio hanno capovolto le coppe di terra
per riempirle di cielo

Roberto delle mongolfiere ha compreso
la forza del fuoco, il dono del vento

Ha reso leggero ciò che era pesante

Ha portato legna al fuoco del suo amore

Ha chiuso gli occhi per dare fiducia al vento

Le sue mongolfiere sono appese a un filo
e hanno i colori delle farfalle

Portano con sé sogni e speranze


NATALE 2018

Auguri di fiducia e di leggerezza
Francesco

domenica 31 dicembre 2017

GLI IDOLI CHE CONSULTATE - Zaccaria, 10, 1-2

Carte Dixit


Chiedete al Signore
di mandarvi la pioggia di primavera: 
egli che forma le tempeste
vi darà una pioggia abbondante
e farà diventare verdi tutti i vostri campi.

Gli idoli che consultate vi dicono menzogne, 
gli indovini hanno false rivelazioni, 
i sogni che raccontano sono illusioni, 
le parole di consolazione che vi dicono
non hanno alcun valore. 


Zaccaria, 10, 1-2.

lunedì 30 gennaio 2017

NULLA SUCCEDE PER CASO – Robert H. Hopcke


A tutti prima o poi capita di vivere una coincidenza incredibile capace di modificare almeno in parte il corso dell’esistenza: sono quelli che Jung chiama “eventi sincronistici”, fenomeni in grado di cambiare l’immagine che abbiamo di noi stessi, il nostro modo di vedere il mondo, di aprirci nuove prospettive.
Imparando a considerare la nostra vita un racconto dotato di coerenza interna, dove niente succede senza ragione, potremo imparare a sfruttare le coincidenze per comprendere meglio noi stessi e per dare alla nostra esistenza maggiore pienezza.
Robert H. Hopcke, Nulla succede per caso, Milano 2003


venerdì 20 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Lisa Cannella


Ho letto con molta attenzione il suo ultimo post e non posso che condividerne ogni singola parola. La scuola da anni è incatenata, imbavagliata, messa di continuo sotto la lente di ingrandimento, ostacolata dai genitori e dai nuovi "cattivi maestri".
A mio parere la causa di questa situazione è una soltanto: esiste un "sistema" politico, sociale, commerciale che vuole le nuove generazione ignoranti e impaurite, altrimenti le masse non sarebbero più controllabili. Far vivere i ragazzi sotto un' inutile, quanto mai opportuna, campana di vetro conviene a questo "sistema" che non vuole lo sviluppo di una capacità critica, lo sviluppo del vivere civile, aggregato, inclusivo . Dividere le persone, alimentare la cultura del sospetto è il veleno che serpeggia in ogni ambiente. 
In questo scenario notevolmente desolante, sono fermamente convinta che solo la cultura ci possa "salvare" e la scuola deve continuare a farsi carico di questa battaglia. Forse la vera sfida della scuola è rendere i ragazzi consapevoli di essere uomini e donne liberi, capaci di autodeterminare le loro scelte, capaci di ponderare con saggezza e audacia ogni singolo gesto. Il coraggio della vera libertà romperà le campane di vetro, dell'ignoranza, dell'omertà, del falso perbenismo.
Oggi è anche il giorno dell'Epifania e nell'epoca dei "selfie" non è facile capirne la logica ... oggi è la manifestazione del volto "di un altro", il volto di un bambino adagiato sulla mangiatoia, l'unico volto che può raccontarci il nostro, dirci chi siamo e liberarci dalle nostre paure: per porsi davanti quel volto ci vuole coraggio, perché dobbiamo abbandonarci rinunciando ad ogni più piccola resistenza.
Fino a quando la nostra Società e in particolare la "civilissima" Europa continueranno a mettere in disparte il bambino adagiato sulla mangiatoia, non vedo margini di crescita, di dialogo, di speranza, di coraggio, di A-more.
L'augurio per questo nuovo anno è che tutti, in modo particolare le giovani generazioni, possono ritrovare quei principi umani e civili smarriti da tempo e che si faccia della cultura, quella vera, lo strumento per uscire dalle sabbie mobili in cui siamo precipitati.

Lisa Cannella

giovedì 19 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Armando Tivelli


Caro Francesco,
ho letto con attenzione le tue riflessioni, che condivido e che meriterebbero molte ulteriori riflessioni.
Mi permetto solo di aggiungerne una: purtroppo il sistema (inteso in senso ampio, ovvero l'intreccio delle regole e delle prassi che governano e indirizzano le relazioni umane, professionali, socio-economiche, politiche,....) non poteva lasciar fuori un elemento fondamentale come la filiera educazione-formazione-cultura.
Per valutarne anche solo parzialmente l'impatto, basta analizzare l'evoluzione del nostro ruolo, sempre più burocratizzato e meramente gestionale-amministrativo e con sempre meno tempo e spazio per l'esercizio della leadership educativa.
Non ci è stata rubata solo l'abitudine alla fiducia, ma anche il tempo (e quindi, a lungo andare, l'abitudine) per pensare: bisogna sforzarsi di ricostruire.

Armando Tivelli

mercoledì 18 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Monica Celeghin


Grazie per la tua riflessione sulla campana di vetro. Dalle tue parole mi sembra di intuire che il ruolo di dirigente non abbia intaccato la tua vocazione pedagogica, anche se come responsabile primo della sicurezza ti troverai spesso tra l'incudine e il martello. A proposito del rischio che fa crescere: ricordi il laboratorio per l'intelligenza pratica che tu hai avuto l'ardire di autorizzare? Tra varie vicissitudini il laboratorio continua, anzi, quest'anno è attivo anche un laboratorio di falegnameria. Pensa, l'anno scorso al termine del laboratorio, abbiamo fatto un'escursione di collaudo delle bici restaurate. Abbiamo percorso l'Ostiglia fino alle spiaggette del Brenta.
Certo, abbiamo rischiato, ma non puoi immaginare l'entusiasmo, la gioia, la correttezza del comportamento.
Grazie ancora Francesco, difendi il tuo coraggio per amore dei ragazzi.

Monica Celeghin

martedì 17 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Eva Caltran


Il suo auspicio, la sua speranza sono il motore che ogni giorno conduce migliaia di insegnanti nelle loro scuole con l'entusiasmo per un nuovo giorno di scuola che sta per iniziare per loro e per gli alunni.
Lei ha descritto esperienze di un passato che, come docente, vorrei ardentemente veder ritornare per tutti noi. Non posso che augurarlo a tutte le persone che credono che l'esperienza educativa sia l'unica via autentica per crescere e arricchirci, insomma per vivere. Felici.
Grazie per questo pensiero, perché così ricordo perché ho scelto questo lavoro, o forse sarebbe più corretto dire perché questo lavoro ha scelto me.

Eva Caltran

giovedì 12 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Francesco D’Avenia


Sottoscrivo ogni tua parola.
Mi domando: cosa posso fare nel mio quotidiano e in particolare a scuola affinché non sia proprio io un generatore di paure?
Penso che oltre ad una sana veglia interiore per trovare le risposte più libere e sincere che vengano dal cuore, non dobbiamo mai stancarci di rinsaldare i nostri rapporti proprio sui temi della fiducia nelle varie relazioni.
Aiutiamoci insieme a dare concrete risposte di fiducia in un mondo che sembra sempre più essere "posseduto" dalle paure.
Francesco D’Avenia


mercoledì 11 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Stefano Da Ros


Carissimo Francesco,
i tuoi contributi sono sempre pregnanti e preziosi!
Mi fai ricordare il mio primo anno di insegnamento, 1980/81, a Fregona, ai piedi del Cansiglio, in "stanze" della Parrocchia, in attesa della nuova costruzione. Con il regolare arrivo in aula del bidello con secchio di carbone per caricare la stufa...
Con alunni che "in tutta sicurezza" saltavano fossi e si sbucciavano ginocchia e gomiti...
Con ragazzi mattinieri che scendevano dal monte "in autonomia", alimentati da... zabaione con Marsala :-)
E proprio questa mattina, nel corso della riunione che ho tenuto con gli assistenti amministrativi per un riassetto organizzativo degli uffici, ho parlato di fiducia. Ho sottolineato che io non controllo chi fa cosa (nel flusso ordinario delle pratiche) perché "mi fido, so che mi posso fidare di voi, così il tempo che non occupo a fare il controllore lo dedico agli studenti, alle loro famiglie, al supporto della didattica, alle relazioni..."
Grazie ancora Francesco.
Ti auguro il meglio, compreso qualche viaggio vantaggioso con Trenitalia :-)

Stefano Da Ros

martedì 10 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Dora Pistoia


Non posso essere che d'accordo con lei, aggiungo soltanto che in nome del cosiddetto pericolo ci stiamo arrendendo alla P A U R A e questo sentimento negativo purtroppo sta divorando la natura di quelli positivi, limitandoci in tutto e soprattutto in quella che è la spontaneità della fanciullezza.
I genitori per e in nome del protezionismo stanno privando I loro figli del momento di crescita più bello della loro vita.

Dora Pistoia

lunedì 9 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Marcello Costa


Caro Francesco, mi hai fatto ricordare Verecondo Cuoghi (era lui il casaro?), quante volte è venuto a scuola a Curtarolo a fare il formaggio con i ragazzi e ancora a parlare di ambiente con la spontaneità di un innamorato della natura e con le prove fotografiche fatte da vero professionista.
E' triste pensare che adesso per fare il formaggio a scuola (e poi mangiarlo come colazione con il pane: la tosella cotta sul fornellino a gas era deliziosa) comporta una serie di ostacoli, penso insuperabili:
progetto nel Piano triennale dell'offerta formativa;
delibere del Consiglio di classe, 
del Collegio dei docenti,
del Consiglio di istituto;
bando di ricerca dell'esperto esterno;
determina per la gara;
determina per l'assegnazione del laboratorio;
procedura per l'anticorruzione; 
permessi delle famiglie;
controllo dell'igiene delle attrezzature;
controllo della qualità del latte;
HACCP del conduttore del laboratorio;
rispetto della filiera prevista dalle norme di sicurezza;
divieto di consumare cibo non certificato;
presenza della Protezione civile;
....
e, se c'è qualche spesa, alla fine la fattura elettronica!

Però la tosella di Verecondo me la ricordo ancora.

Marcello Costa

venerdì 6 gennaio 2017

LA CAMPANA DI VETRO - Francesco Callegari


Ormai faccio parte della Terza età. Me ne sono reso conto all’improvviso, quando Trenitalia, nel farmi gli auguri per i miei sessant’anni, mi ha graziosamente fatto notare che da quel momento avrei avuto diritto agli sconti per i miei viaggi in treno. La benefica scossa mi ha stimolato a ripensare al film della mia vita. E di questo film, mi piacerebbe scorrere assieme a voi alcuni fotogrammi: ai vecchi, si sa, è concessa qualche libertà.
Ho lavorato nella scuola per tanto tempo. Ho cominciato come supplente, nei primi anni Ottanta e mi ricordo di avere passato più tempo fuori, all’aria aperta, con le mie classi, nei prati, nelle cascine e sotto gli alberi, che tra le mura dell’aula. Un anno, a Bevadoro, abbiamo perfino invitato a scuola il casaro e fatto bollire in cortile non so quanti litri di latte per poi fare il formaggio tenero e fresco che abbiamo mangiato lì, tutti insieme spensieratamente. Si lavorava molto, ma nella letizia e senza tante ansie, nella fiducia e nel rispetto da parte delle famiglie.
Tutto era vissuto all’interno del sogno dell’avventura educativa, nell’entusiasmo di una gioventù che non era soltanto anagrafica, ma che rispecchiava anche il fiorire di una società inserita in un mondo aperto a tante opportunità. E ciascuno si sentiva “respons-abile”, cioè in grado e in dovere di rispondere per quanto gli competeva alla costruzione di quel mondo. In tutti si faceva tutto: insegnanti pieni di voglia di sperimentare, famiglie che collaboravano fiduciose, ragazzi che a scuola venivano anche per stare insieme ai loro compagni e, perché no, pure per litigarci, salvo poi trovare sempre il modo di riappacificarsi, anche senza l’intervento degli adulti.
E’ stata una stagione straordinaria, un modo di fare scuola che è ancora nel cuore di chi l’ha vissuto, ma che oggi non è più ripetibile.
Mi sono chiesto cosa sia cambiato nella società per portarci a perdere la freschezza e la spontaneità di quegli anni e ho provato a darmi delle risposte. Sono sicuramente risposte parziali, risposte che vogliono soltanto fotografare la realtà dal mio punto di vista, senza la minima presunzione di volerla giudicare o la pretesa di cambiarla.
La risposta immediata che mi sembra possa spiegare questo profondo cambiamento sta nella diversa sensibilità che oggi la società presenta nell’ambito della responsabilità personale e in quello della sicurezza. Per quanto riguarda la prima, vedo persone sempre più preoccupate nel cercare al di fuori di sé la causa di ciò che gli succede, con la conseguente necessità di trovare in ogni caso qualcuno su cui scaricare la responsabilità dei loro guai. Per quanto riguarda la sicurezza, noto che, almeno nella scuola, questo tema è diventato talmente pressante, da soffocare qualsiasi anelito al rischio e all’avventura.
In definitiva, è la paura, il sentimento che ci sta attanagliando: la paura di perdere quello che abbiamo, sia esso qualcosa o qualcuno. Dalla paura primordiale di perdere la vita, fioriscono e trovano alimento tutte le nostre paure quotidiane: la paura di non essere amati; la paura dello sconosciuto e del diverso; la paura dell’incontro e quella dello scontro; la paura del nuovo e dell’incontrollabile; la paura di fidarci e di restare delusi; la paura di essere lasciati soli e quella di non essere riconosciuti; la paura di affidare a qualcuno i nostri beni, i nostri figli …
Solo chi si fida non ha paura.
Questa, a mio parere, è la grande perdita della nostra società: la perdita della fiducia. E in questo clima generale, le famiglie non fanno eccezione: ci consegnano i loro figli, ma anche ce li “af-fidano”?
Se la nostra preoccupazione come scuola è sempre stata, nel passato, quella di offrire ai ragazzi le più varie opportunità di crescita, anche cimentandosi in nuove esperienze e sperimentazioni manuali, ora il nostro primo pensiero e le nostre maggiori energie vanno a salvaguardarne l’incolumità, evitando tutte quelle attività che potrebbero, anche solo lontanamente o ipoteticamente, comportare un rischio.
L’azione educativa della scuola è storicamente legata alle esigenze e alle aspettative della società che la progetta, e che la finanzia. Anche se, personalmente, ritengo questa scelta pericolosa e molto limitante, non posso che farmene una ragione e accettare questo vincolo. L’atto educativo che si realizza nelle nostre scuole è pertanto curvato sul profilo e sulle esigenze della società che abbiamo oggi, com’è andata delineandosi in questi anni.
Naturalmente, nessuno mette in discussione l’importanza dell’incolumità psicofisica dell’alunno, ma forse ci si dimentica che crescere comporta necessariamente dei rischi. Soprattutto nel caso di bambini e ragazzi che trovano il loro modo di apprendere sperimentandosi quotidianamente nel rapporto con i compagni e con l’ambiente che li circonda. Quale libertà educativa può prendersi e dare una scuola che viene minacciata di denunce per il solo fatto che il figlio arriva a casa graffiato da un compagno? Come possiamo pretendere che i docenti lavorino bene con l’angoscia continua di ricevere le lettere dagli avvocati e di essere chiamati in giudizio per qualsiasi litigio tra coetanei? In diverse scuole italiane sta capitando proprio questo.
E’ necessario, a questo punto, che anche le famiglie comprendano come sia necessario trovare un equilibrio tra il nostro compito di educatori e quello di custodi/sorveglianti, nella piena consapevolezza che è certamente indispensabile mettere in atto tutte le strategie per ridurre i rischi, ma anche nella serena accettazione che stiamo vivendo in un mondo in cui non è possibile bandire del tutto il pericolo e solo una campana di vetro potrebbe eliminare il rischio della “collisione educativa”.
Personalmente, credo che il ragazzo cresca meglio in un ambiente dove sente di essere circondato da persone che gli danno fiducia e dove sa di poter sempre contare su una base sicura in caso di bisogno. E quando dico sempre, intendo proprio “sempre”, in ogni momento della giornata e ovunque egli si trovi.
Siamo arrivati a parlare di fiducia e di libertà, due doni che rendono preziosa la vita di ciascuno, sia esso uomo o donna, bambino o adulto, genitore o insegnante.
All’inizio di ogni anno ci si augura salute e ricchezza. Io auguro a tutti noi di riuscire a rompere la nostra campana per essere pervasi dalla luce e dalla forza che solo la reciproca fiducia può darci.
Correremo dei rischi, ma saremo tutti più ricchi e più felici.
Buon anno

Francesco Callegari

6 gennaio 2017

sabato 16 aprile 2016

IL BAMBINO IN AEREO


Un uomo stava osservando un bambino che era solo nella sala d’attesa di un aeroporto, aspettando l’annuncio della partenza del volo. All’imbarco, il bambino fu condotto da una hostess al suo posto, vicino al finestrino. Casualmente, l’uomo che lo stava osservando, si trovò a essergli seduto accanto. A un certo punto, durante il volo, il bambino tirò fuori un libro dalla borsa e alcuni pastelli e cominciò a colorare, senza mostrare ansia o preoccupazione per il fatto di essere solo in un aereo.
All’improvviso però l’aereo entrò in una grave turbolenza e tutti i passeggeri si spaventarono molto. Il bambino sembrava invece essere in un altro mondo, ancora concentrato sui suoi dipinti, come se fosse placidamente seduto nel salotto di casa sua. Una signora molto provata dalla situazione e quasi senza voce chiese al bambino: “Non hai paura?”
“No signora, non ho paura”, rispose, sollevando rapidamente gli occhi dal suo libro da colorare.
“Il pilota è mio papà!”
Autore sconosciuto


venerdì 15 aprile 2016

NON PREOCCUPATEVI PER IL DOMANI – Dale Carnegie (1888-1955)


Quando chiesi a K. T. Keller, che era allora presidente della Chrysler Corporation, come facesse a evitare le ansie, lui replicò: “Quando mi trovo a fronteggiare una situazione scabrosa, se posso farci qualcosa, la faccio. Se non è possibile, la dimentico. Non mi agito per il futuro, perché so che nessun essere vivente può immaginarsi come sarà il domani. Ci sono tante forze e fattori di mezzo. Nessuno è capace di dirne l’origine, o capirli. Quindi, Perché preoccuparsi?”
K. T. Keller non si considera un filosofo. E’ un ottimo uomo d’affari, anche se possiede la stessa filosofia che Epitteto insegnava a Roma diciannove secoli or sono. “C’è un solo modo per essere felici,” sosteneva Epitteto, “ed è di smettere di agitarsi per cose che si trovano al di là del nostro potere d’intervento”.
Dale Carnegie, Come vincere lo stress e cominciare a vivere, 1944, ed. it. Bompiani, Milano 1994/2015, p. 102-103.


martedì 25 novembre 2014

IL RAC-CANTO DEL TEDESCO – Massimo Gramellini


Lui tedesco scuro e assai possente
lei giapponese bionda e prorompente
correvano sul bordo del crinale
quando la Bionda cadde in un canale.

Il fango attenuò molto la caduta
ma poi scoprì di essere perduta
liscio era il muro e dritto fino al cielo
provò a scalarlo, ricadde sola al gelo.

Lui in verità la conosceva a stento,
ma dell’amor sapeva il gran portento
il meglio tu darai senza mai sosta
né chiederti che avrai come risposta.

Corse verso una casa e gridò aiuto
gridò con voce roca come un bruto
nessuno rispondeva alle sue urla
pensavano ad un gioco ad una burla.

Tornò il Tedesco all’orlo del crinale
guardava in basso a caccia di un segnale
«Forza, coraggio, respira ancora un po’
resisti, o Bionda, io ti salverò.»

Andò di casa in casa e non si arrese
finché qualcuno all’alba lo comprese
un uomo si affacciò con sguardo fioco
chiamò in soccorso i vigili del fuoco.

Lui li guidò in silenzio giù al canale
temeva le facessero del male
quando un pompiere emerse trionfante
stringeva a sé la Bionda ancor tremante.

Le misero coperte in abbondanza
la fecero salire in ambulanza
poi dissero al Tedesco di montare
ma lui di colpo prese a tentennare.

Riempì i polmoni d’aria del mattino
corse lontano verso il suo destino
l’amore tutto sente e tutto dà
ma in cambio chiede solo libertà.

L’amore si nasconde in posti strani
stavolta era nel cuore di due cani.
Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, p. 155-156.


mercoledì 12 novembre 2014

MIA MOGLIE ILLESA DOPO UN ICTUS - Stefano Aurighi


“Non sto tanto bene.  Ci vedo male, un po’ offuscato ”.
Mi dici così, mentre mi baci e sposti indietro i capelli in un gesto che ti ho vista fare tante volte.  Sei bellissima Ilaria, lo penso tutte le volte che ti vedo, anche se siamo sposati da 17 anni e ci conosciamo dai tempi dell’università.
Sono le cinque e mezzo del pomeriggio e a Bologna è buio. D’altro canto è il 14 gennaio, siamo nel cuore dell’inverno, le giornate sono ancora cortissime.  L’aria è secca, ma non c’è il freddo che ti aspetteresti.
Mi avevi  telefonato da Modena un paio d’ore prima: “Ho il pomeriggio libero, quasi quasi prendo il treno, vengo a Bologna, guardo qualche vetrina e poi torniamo insieme a Modena quando finisci di lavorare. Ok?”.
“Ok”, ti avevo risposto. “Alle cinque devo intervistare uno. Finisco di fare l’intervista e poi ci vediamo in via San Carlo”.
Alle cinque e mezzo ci vediamo sotto il portico, proprio di fronte al fornaio. 
“Non sto tanto bene.  Ci vedo male, un po’ offuscato ”, mi dici appena mi vedi.
“Sarai un po’ stanca, sarà un calo di pressione”.  Boh, che ne so. 
“Ma si, si. E poi ho mangiato poco a pranzo”, dici tra te e te, a bassa voce. E cammini di fianco a me, guardando per terra. 
“Vuoi che facciamo qualche ripresa”?, ti chiedo. “Ho la telecamera nello zainetto, se vuoi ci mettiamo pochi minuti”.
Lavoro da un anno a un documentario su via San Carlo. Questa cosa del documentario più di una volta ti ha fatta incazzare: “Già sei poco a casa, in più ti fermi anche a fare ‘sta roba”, mi hai detto un paio di volte.  
So che non c’entra via San Carlo, è solo che sono poco a casa. Pochissimo. E questa cosa ti pesa, devi pensare a tutto tu. Alla casa. Alle ragazze, Francesca, Giulia, le nostre meravigliose bimbe,  anche se sono già grandi, nell’imbuto dell’adolescenza. Ma un giorno mi hai spiazzato:
“Mi piacerebbe esserci”. 
“Dove”?
“Nel documentario. Mi riprendi mentre cammino sotto i portici”, mi hai detto qualche settimana fa.
E adesso ci siamo, in via San Carlo. Me lo chiedi di nuovo: “Mi riprendi mentre cammino?”.
“Si, tu fai finta che io non ci sia. Cammina senza guardare l’obiettivo della telecamera, ignorala. Guarda avanti, come se io non ci fossi e mi passi di fianco, ok?”.
Fai qualche passo e ti allontani, poi ti giri. Sei sotto le volte del portico, male illuminato.
“Ok, adesso cammina verso di me”, ti dico.
Fai qualche passo, mi passi di fianco e poi ti fermi.
“Facciamo un’altra ripresa per sicurezza”, ti dico.
Prima di spegnere la telecamera guardiamo come sono venute le immagini: “Non mi si vede neanche in faccia”, dici. E in effetti è così, luce alle spalle, il tuo viso rimane nell’ombra.
“Vuoi che rifacciamo?", ti chiedo.
“No, dai, andiamo a casa. Ho questo fastidio che non passa, andiamo a casa, facciamo un’altra volta”.
Ci prendiamo per mano, ti racconto piccole cose insignificanti mentre ci avviamo verso la stazione, ma vedo che sei da qualche altra parte con la testa. “E se ho qualcosa di grave”?, dici improvvisamente.
“Ma dai, figurati”.
“C’è questa cosa strana, non ci vedo bene, ma in un modo che non so spiegarti. Vedo come delle macchie. E poi nel mezzo c’è qualcosa, vedo un po’ male nel mezzo. Vedo tutto un po’ sfocato. E ho mal di testa”.
“Ma si, dai, sarai stanca. Andiamo a casa e stasera ci prendiamo una pizza, puro polleggio, senza cucinare”.
“Va bene, riusciamo a prendere il treno delle 6 e 52?”.
“Se ci diamo una mossa prendiamo quello prima, quello delle 6 e 28”, ti dico.
Acceleriamo un po’ il passo, ma l’ansia non molla la presa, te lo leggo in faccia. ”Senti Ila , chiama Valeria e le racconti cosa ti sta succedendo, così almeno non rimani con questo pensiero”. Valeria è tua sorella, è un medico, lavora in un Pronto Soccorso. E’ brava, e naturalmente tu ti fidi doppiamente di lei, dato che è tua sorella.
La chiami mentre siamo quasi in vista della stazione, ascolto quel che le dici mentre camminiamo, ti sento ridere, sei più tranquilla.
“Mi ha detto di andare al pronto soccorso se questa cosa non smette entro mezz’ora”.
“Beh, fermiamoci qui a Bologna”, propongo.
“Ma no, andiamo a Modena, mi passerà”.
“Sei sicura? Non vuoi che ci fermiamo almeno in farmacia per chiedere qualcosa?”.
“No, dai, andiamo, sono stanca”.
Sul piazzale della stazione di Bologna incontriamo anche Patrizia, una collega di lavoro. Un saluto veloce, due chiacchiere al volo, poi noi ci dirigiamo al piazzale Ovest. 
E lì mi dici: “E se ho un ictus”?
“Un ictus? Beh, prima devi firmare i documenti per l’eredità, così finalmente posso comperarmi la villa con la piscina. Poi fatti pure venire l’ictus”. 
Ci facciamo due risate,  in 17 anni di matrimonio il mio umorismo nero ha fatto breccia, in qualche caso è stato l’unico sistema per sciogliere i nodi delle tensioni. Ma poi torni seria: “Se prima o poi dovesse succedermi  qualcosa, stacca tutti i fili, io non voglio rimanere un vegetale”.
“Vai tranquilla Ila, passo io e stacco tutto”.
Saliamo sul treno, io sfoglio il giornale e tu mandi un messaggio alle tue amiche per dire che quella sera non andrai in palestra. Poi infili gli occhiali da vista e il tuo viso si illumina: “Con gli occhiali ci vedo molto meglio, è tutto più nitido”. 
“Ma si, vedrai, è solo questione di stanchezza. E poi stai invecchiando, stai diventando una talpa, come me, che senza occhiali non vado da nessuna parte”. 
La Repubblica, il martedì, ha un inserto dedicato alla salute che io di solito cestino senza neanche leggerne una riga, perché è pieno di tutte le possibili sfighe che ti possono capitare e io, da buon ipocondriaco, preferisco altre letture. Lo butto sempre  via.  Quel giorno, però,  non lo faccio, me ne dimentico, perciò mi imbatto senza volerlo nella pagina di apertura del fascicolo, dove si parla della possibilità di ridare la vista – con un occhio elettronico – a chi l’ha persa o a chi non l’ha mai avuta.
Giro il giornale verso di te: “Anche se ci vedi male sei a posto, visto? Mal che vada ti mettiamo un occhio bionico”. Ridi, mi mandi a cagare.
Mentre il treno supera Castelfranco rispondi al telefono, è Giulia che ti saluta. Chiudi la telefonata, poi suona il mio cellulare: è sempre Giulia: “Ciao papi, tutto bene”? 
“Si, certo, tu tutto bene? Ma non hai appena chiamato la mamma?”
“Si, come fai a saperlo”?
“Sono qui con lei sul treno, tra poco arriviamo a casa”.
“Papi, io però vado in palestra,  mi vieni a prendere alle otto e mezzo”?
“Si, stasera mangiamo la pizza”.
“Wow!”
“Ci vediamo dopo, ciao”.
Chiudo la telefonata mentre il treno entra nella stazione di Modena e il mio cellulare squilla di nuovo. Questa volta è Andrea, mio fratello. 
Scendiamo dal treno, tu mi precedi sul marciapiedi mentre io chiacchiero al telefono. Ti vedo un po’ indecisa prima di imboccare il sottopassaggio, come se non sapessi da che parte andare. 
E’ un segnale, ma non lo colgo.
Ti indico con un dito  le scale mentre continuo a parlare al cellulare. 
Scendiamo nel sottopassaggio, poi risaliamo e usciamo sul piazzale. 
Siamo a Modena, sono quasi le sette di sera. Non lo sappiamo, ma stanno per iniziare i momenti più terrificanti della nostra vita.
Mentre camminiamo sotto al portico che conduce alla rotatoria di piazzale Natale Bruni, ti volti qualche volta indietro. Cammini qualche passo avanti a me. C’è più freddo rispetto a Bologna e tu, per ripararti, ti stringi in te stessa,  con le mani che in un abbraccio vanno a coprire le spalle. E, più di una volta, ti giri indietro.  Io non ci faccio caso, ma quel semplice movimento, quel guardare indietro è invece un segno inequivocabile di quello che sta per accadere. Lo avremmo capito solo nei giorni successivi, rimettendo in ordine i ricordi di quei momenti.
Attraversiamo le strisce pedonali ai piedi del cavalcavia. Dobbiamo andare verso sinistra, ma tu tiri dritto, sei una decina di metri più avanti di me. Io, che sono ancora al telefono, ti chiamo: “Ila”. Tu non ti giri. Ti chiamo con più insistenza. “Ilaa, Ilaaa”. Niente, non ti giri. 
Dico a mio fratello al telefono: “Aspetta un attimo”, poi dico più forte. “Ilaaaaa”. E dai,penso, muoviti, ma dove stai andando?
Ti giri solo per un attimo verso di me e poi ti volti, dandomi nuovamente le spalle.  
Io rimango pietrificato.  
Non sono sicuro di avere visto bene.  
In un secondo ti raggiungo, ti giro verso di me e il mondo finisce in quel momento.
Il tuo viso è deformato, l’occhio sinistro e la bocca hanno una piega completamente innaturale, che ti cambia il volto. 
Tutto si fa buio intorno a me,  tutto ciò che ci circonda in quel momento scompare e rimani tu che mi fissi smarrita mentre riesco solo a dire “oh, cazzo, cazzo!”. Mio fratello, è ancora lì ad aspettare che riprenda la telefonata: “Andrea, ti mollo”, urlo. E immediatamente chiamo il 118, mentre tu mi guardi senza capire.
“Presto, venite, mia moglie ha un ictus in atto. Siamo in piazzale Natale Bruni”. Dico proprio così: un ictus in atto, come se avessi appena sfogliato un dizionario medico alla voce “ictus”. Tu mi guardi e mi dici: “Ma che cavolo stai dicendo”?? Anzi, provi a dirlo, perché non riesci a parlare. E te ne rendi conto solo in quel momento. Non ti eri resa conto di cosa stava succedendo neanche quando tutto stava succedendo.  
Sul tuo viso alterato non si muove niente, l’ictus ti ha paralizzata in un’espressione fissa che mette una distanza abissale tra noi due, tra te e il mondo.  Provi a parlare, ma ti esce solo un suono indefinito, monocorde, mmmmmmmmmmm, mmmmmmm.  
“Venite, presto”, continuo al telefono. La sensazione della catastrofe mi avvolge, ma da qualche parte ci dev’essere una riserva di lucidità che mi spinge a mantenere la calma, a parlarti tranquillamente. Ti prendo sottobraccio mentre tu continui a guardarmi con quell’espressione bloccata e provi a parlare, senza riuscirci. Spiego al 118 dove siamo, in quale punto del marciapiedi che circonda la grande rotatoria. Mi incasino, ovviamente, perché dico che siamo dal lato della stazione, anche se siamo dalla parte della chiesa. 
Decido di avvicinarmi al semaforo pedonale mentre ti tengo stretta. Camminiamo piano e io ti ripeto con calma quello che sta succedendo, cercando di minimizzare le cose:  “Hai l’occhio un po’ chiuso”, mento, “ma per fortuna siamo arrivati in tempo, non ti preoccupare”. Sparo cazzate a raffica, non ho la minima idea di quel che sta succedendo, vedo solo che il tuo viso è deformato, la tua voce non c’è più. E tu cominci a non reggerti in piedi, la parte sinistra del tuo corpo comincia a non rispondere. “Tranquilla Ila, tutto ok, tutto ok, per fortuna siamo arrivati in tempo”, continuo a dire.  Ma parlo da solo. Ti tengo stretta, ma non reagisci, mi guardi con quell’espressione che non dice niente. Io comincio a credere che tu non ci sia più, che tu non abbia coscienza di quello che sta succedendo, che tu  ti stia allontanando con la mente verso chissà quale lido da cui potresti non tornare mai. 
Suona il cellulare, è il 118 che mi ricontatta per chiedermi dettagli. Mi chiedono se sei cosciente. "Si. È cosciente", rispondo. Mi chiedono se cammini. "Si, cammina, ma fa sempre più fatica, la sto sorreggendo". Mi dicono di tenerti tranquilla, o almeno credo di capire questo. 
Arriviamo in pochi passi al semaforo pedonale, io non riesco più a tenerti, il tuo corpo non risponde e ti devo tenere quasi in braccio. Al semaforo ci sono altre persone, che non colgono quello che sta succedendo, vedono solo una coppia malamente abbracciata, con lei quasi appesa a lui. Non so dove trovi la lucidità, ma improvvisamente metti la mano destra nella tasca della giacca,  estrai le chiavi della macchina e me le dai provando a dire qualcosa, provando a stare in piedi. Ma ormai non stai più in piedi, ti sorreggo e chiedo a un uomo lì di fianco di aiutarmi: “Mi può aiutare? Mia moglie sta male”, dico. E ti stendo sull’asfalto, con il viso rivolto al cielo, la schiena sulle strisce pedonali. 
Qualche persona comincia a farsi intorno a noi, io mi chino su di te, continuo a parlarti anche se non capisco se riesci a sentirmi, se capisci. Ma il fatto che tu mi abbia dato le chiavi della macchina mi fa pensare che tu sia lucidissima, anche se totalmente inerme. 
Il traffico scorre veloce a mezzo metro da noi, qualcuno si mette in mezzo alla strada a deviare leggermente le auto per evitare che possano travolgerci. E io ti tengo la mano continuando a dirti che per fortuna abbiamo preso questa cosa in tempo. Ma è solo per darti coraggio, perché io comincio ad avere la sensazione di averti persa. Tu guardi da qualche parte, indefinita. Io ti guardo ma non so cosa fare. Siamo due mondi completamente separati, non c’è possibilità di comunicazione.
Comincio a pensare a cose pratiche, alle ragazze che ci aspettano a casa, a cosa dirò, al fatto che stanotte la passerò certamente all’ospedale con te e con le ragazze, a cosa ci aspetta da qui alle prossime ore. A come finirà.
Si sentono le sirene dell’ambulanza in lontananza, ti faccio coraggio: “Ecco, sono già qui”. Mi alzo in piedi, guardo in direzione delle sirene, ma non vedo niente. Quasi contemporaneamente mi cercano di nuovo al cellulare. E' il 118, mi dicono che non riescono a trovarmi e allora spiego dove sono, dico che siamo di fronte al Tempio, che siamo proprio in corrispondenza del semaforo pedonale prima del cavalcavia. L’ambulanza fa un giro a vuoto nella rotatoria, passa a pochi metri da noi e esce dalla parte opposta. Cazzo no, non da quella parte, non da quella parte!! 
Urlo per la prima volta, urlo alle persone che sono lì intorno di fermare l’ambulanza, di fare qualcosa. E in tre corrono al centro della rotatoria, fermano il traffico, si sbracciano per farsi notare dall’ambulanza che intanto si è riavvicinata. E’ questione di pochi secondi. L’ambulanza nota il trambusto nella nostra zona, si ferma immediatamente proprio di fronte al Tempio e subito scendono due addetti che corrono veloci verso di noi.
Si  chinano su di te, ti chiamano. “Ci sente? Ci sente?”, ti chiedono. Tu non rispondi, sei immobile anche se hai gli occhi aperti. “Faccia un cenno con la testa”, ti dicono. E tu rispondi con un cenno. Si, li senti. “Come si chiama”?
Se ci fosse una parte comica, questo sarebbe il momento. Uno dei due medici, chino su di te, si gira verso di me e mi chiede: “E’ sua figlia”?
Beh, vabbè che la mia stempiatura ha raggiunto un livello record e che i pochi capelli che mi sono rimasti virano al grigio senza pietà, ma che dimostrassimo trent’anni di differenza proprio non me l’aspettavo.  Ma i tuoi capelli biondi stesi come un foulard lì sull’asfalto e i tuoi occhi azzurri, ti danno evidentemente un’aria da ragazzina. “E’ mia moglie”, rispondo, e dentro di me un po’ rido e penso: “Questa domani la racconto a Paolo e Davide”. 
Ti prendono la mano destra e ti dicono di stringerla. La stringi.
Ti prendono la mano sinistra e ti dicono di stringerla. Tu pensi: “Dov’è la mia mano sinistra? Dov’è il mio braccio sinistro? Dov’è la mia parte sinistra”? Non c’è. Il tuo cervello l’ha cancellata. 
“Stringa la mano sinistra”, ti ripetono.
Niente. 
“Stringa la mano destra”. E tu la stringi. 
“Adesso la sinistra”. Niente, la sinistra non c’è. 
Nel frattempo è arrivata una seconda ambulanza, un’auto medica, credo.
Ti fanno ancora qualche prova, sono in tre su di te. Mi chiedono di mettermi un po’ in disparte.
“E’ un ictus”, dice uno dei medici.
“Ecco”, penso io. 
Ti caricano velocissimi  sulla barella e ti portano  verso l’ambulanza. Sento uno dei medici che dice di avvisare il Pronto Soccorso che stanno arrivando con un ictus. Io ti seguo a piedi per qualche metro, entro nell’ambulanza, ma il medico mi dice di scendere, che li dovrò seguire con la macchina, andranno all’ospedale di Baggiovara, il Sant’Agostino Estense, alle porte di Modena. 
Una donna, un medico, scende dall’ambulanza e mi chiede di rispondere a qualche domanda. Come ti chiami, dove e quando sei nata. Poi mi chiede quando hai iniziato ad avere i sintomi: “E’ fondamentale essere precisi nei tempi”, mi dice. Lo ripete: fondamentale. Io dico che ci siamo visti intorno alle cinque e mezzo e che tu mi avevi detto che da una mezz’oretta non stavi bene. Lei indossa i guanti monouso, azzurri. Scrive sulla superficie di quello che indossa sulla mano sinistra. “E’ allergica a qualche farmaco”? “No”, rispondo sicuro. Mi chiede se prendi farmaci, poi insiste di nuovo sull’eventuale allergia a qualche medicinale, bisogna essere sicuri. Io rispondo a tutto. Poi sale sull’ambulanza e chiude la portiera.
Dal momento in cui ho chiamato il 118 a quando se ne vanno a sirene spiegate, dopo aver fatto tutti i test lì sul posto, sono passati 15 minuti. Sono stati velocissimi. E adesso volano verso Baggiovara. Dentro, i medici, continuano a dire al conducente: “Passa con il rosso, vai, vai passa con il rosso!”. Durante il tragitto i medici ti tengono monitorata,  tra di loro continuano a dirsi che non riesci a parlare.
Tu, dentro di te, ripeti come un mantra: “Non sta succedendo a me. Non sta succedendo a me”.  
Io rimango con l’ultima immagine che ho di te:  stesa sull’asfalto, muta, semiparalizzata.
Chiamo subito Valeria, tua sorella: “Ilaria ha avuto un ictus”, le dico, anche se faccio un po’ fatica a parlare. 
“Dove la stanno portando?”, chiede lei?
“A Baggiovara”.
Valeria dice che ci raggiungerà al più presto, di tenerla aggiornata. La saluto e metto giù, ma quasi subito lei mi richiama: “Se ti chiedono l’autorizzazione a farle la trombolisi tu dagliela”, mi dice. Io non ho la minima idea di cosa sia la trombolisi, immagino che si tratti dell’intervento che le dovranno fare. Ok, dico, trombolisi.
Torno al semaforo, raccolgo il mio zainetto, la tua borsa e la giacca che ti hanno tolta per visitarti. Tutto ciò a cui riesco a pensare in quel momento è l’organizzazione: primo, chiamare Giulia che sta per iniziare l’allenamento di ginnastica artistica. Se non ha ancora iniziato passerò a prenderla, poi passeremo a casa a prendere Francesca e, insieme, andremo all’ospedale. E poi quel che sarà, sarà.
Chiamo Giulia, il telefono suona a vuoto. Mai una volta che rispondano, né lei né Francesca.  Dopo qualche istante mi arriva un messaggio su Whatsapp: “Papi, sono a ginnastica”, scrive Giulia.
Rispondo: “Ti viene a prendere la Ceci. Poi ti spiego”.  
Poi chiamo Francesca sul cellulare. Niente, non risponde neanche lei. Chiamo sul telefono di casa, finalmente risponde: 
“Ciao Franci”
“Ciao papi, scusa ma non sono riuscita a rispondere al cell, ero di là”
“Franci, senti, ti devo dire una cosa. La mamma non è  stata tanto bene”
“Oddio papi cosa succede!??!”
“No, no, niente, tranquilla. Non è stata tanto bene, aveva mal di testa, ma un mal di testa forte e allora abbiamo pensato che fosse meglio portarla all’ospedale per un controllo. Io sto andando lì, vuoi venire con me”?
“Ma ovvio, certo che vengo. Ma papi sei sicuro che va tutto bene?”
“Si, si, adesso arrivo. Senti, fatti trovare giù, portami il caricabatterie del mio cellulare”.
Salgo in macchina e chiamo Cecilia. Le devo chiedere di andare a prendere Giulia in palestra, io non saprei come fare.  Ma non risponde, allora chiamo Oreste, suo marito. “Ciao Stefano”, risponde lui. “Oreste, ciao. Senti, abbiamo un’emergenza. Purtroppo Ilaria ha avuto un ictus”. 
“Nooooo, non è possibile. Oh nooo”, dice Oreste. Sento la sua disperazione, siamo amici da tanti anni, lui è un informatore farmaceutico, sa esattamente di cosa stiamo parlando. Sa che stiamo camminando su un filo. “Oreste, io mi sto fiondando a casa a prendere la Francesca, potete andare voi a prendere la Giulia in palestra? Lei non sa ancora niente, non volevo dirglielo con un messaggio”.
“Andiamo noi, si”, dice Oreste. Sento la sua voce rotta, tutto intorno a noi precipita. Chiudo la telefonata mentre percorro in macchina la discesa del cavalcavia che fiancheggia lo stabilimento della Maserati.
Arrivo sotto casa, Francesca è già lì in strada che mi aspetta. Sale in macchina: “Come sta la mamma”?
“Franci, la mamma ha avuto un ictus”, le dico. Francesca ammutolisce. 
“La cosa buona – spiego – è che siamo stati velocissimi. Adesso andiamo lì, è in buone mani”. Ma lo dico solo per darle coraggio. Non ho nessuna idea di che cosa stia realmente succedendo.
“Ma cosa può succedere papi?”
“Non lo so Franci. La cosa buona è che siamo stati velocissimi”, ripeto. Ma invento. 
Francesca ha sedici anni, non posso comunque trattarla come se fosse una bambina: “Franci, dobbiamo prepararci al fatto che ci aspetta un periodo molto pesante. Comunque andrà, adesso stiamo tutti vicini alla mamma, ma vedrai che andrà tutto bene”.
“Si”, risponde Francesca con un groppo in gola che non la fa parlare. Piange nel buio della macchina mentre sulla tangenziale voliamo verso l’ospedale.
“Ascoltiamoci un po’ di musica”, dico accendendo la radio. 
Ripeto a Francesca che dobbiamo essere forti, stare vicini. Lei annuisce. 
Mi chiede se morirai. 
Entriamo al Pronto Soccorso e ci fanno accomodare nella sala d’attesa di un ambulatorio. A pochi metri da noi, dietro una porta, ci sei tu. Sei arrivata già da un po’. Quando ti hanno scaricata dall’ambulanza è stato come assistere al pit stop di un gran premio di formula 1. Incinque o sei ti si sono fatti intorno, ti hanno spogliata, ti hanno messo un camice e la procedura è partita. Bisogna capire cosa succede,dove si annida il grumo di sangue che chiude l'arteria e che sta provocando l’ictus, bisogna fare in fretta. Hai freddo, hai molto freddo. La tac risulta mossa perché hai i brividi, tremi. Ma si capisce comunque perfettamente cosa ti sta succedendo.
Noi aspettiamo fuori. Francesca si infila le cuffie, la musica le attutisce l’ansia.
Esce un medico, una donna. E’ uno dei medici che compone lo staff della Stroke Unit di Baggiovara, l’unità che si occupa del trattamento degli ictus. E’ un’unità di rilievo internazionale visti i risultati, ma io ancora non lo so. La dirige Andrea Zini, un medico giovane, bravo. Guida con sicurezza un team giovane e affiatato. Questo, alla fine farà la differenza. La dottoressa ci dice che a minuti uscirà Stefano Vallone, il neuroradiologo che si sta occupando di te. Ci darà tutte le informazioni. Ha già parlato con te, ma non puoi rispondere, perciò illustrerà a me quel che succede. Nel frattempo ti hanno fatta scrivere su un foglietto, che la dottoressa mi porge. La scrittura è incerta, ma è tutto chiaro. Come prima indicazione mi scrivi di chiamare Valeria. Già fatto, penso. Poi dici di occuparmi di Giulia, che è in palestra. Anche a Giulia abbiamo pensato. Poi ci sono altre scritte, tra cui avvisare i tuoi genitori.
Aspettiamo qualche istante, poi dalla stanza esce Vallone.
Ci spiega che hai una sofferenza cerebrale dovuta a un ictus. L’ictus è stato causato dalla dissezione della carotide e successiva formazione di un trombo che è andato a occludere il flusso del sangue in una zona del cervello. L’80% di quella zona sta soffrendo. Bisogna fare in fretta prima che i danni cerebrali diventino irreversibili.
Ci dice che a Baggiovara hanno una metodica che ha dato buoni esiti, ma i tempi sono fondamentali, perciò bisogna agire subito.
“La trombolisi”, dico io.
Lui, paziente, dice che ci sono due strade. La prima sarebbe quella di effettuare la trombolisi, cioè il trattamento farmacologico che scioglie il trombo e garantisce di nuovo l’irrorazione del cervello. 
Ma nel tuo caso c’è un problema che complica tutto:  l’arteria da cui è partito il trombo, la carotide, è lesionata. Ogni arteria è fatta di tre cerchi concentrici. Quello più interno si è staccato e si è spostato verso il centro, formando una piccola rientranza, una sacca che sporge verso la zona centrale della carotide. E’ proprio in quella sacca che il sangue si è coagulato e che  poi si è consolidato in un grumo che è partito verso il cervello. Quindi c’è un doppio problema: il trombo, su nel cervello; e l’arteria lesionata, più giù, all’altezza del collo.
Vallone non ci gira intorno e dice che non sa come si comporterà nei prossimi minuti la carotide. Il rischio potenziale è che l’arteria, dopo la dissezione che ha provocato la formazione del trombo, improvvisamente si chiuda del tutto, impedendo al sangue di salire al cervello. Se questo dovesse succedere, sarebbe un disastro.
Se scegliesse di iniziare a effettuare la trombolisi e la carotide si occludesse proprio durante il trattamento, spiega Vallone, a quel punto lui non potrebbe più fare niente e non ci sarebbero possibilità di tornare indietro.
Quindi, niente trombolisi.
L’ipotesi, allora, è di occuparsi innanzitutto della carotide, metterla in sicurezza, in sostanza aggiustarla, riparare la zona lesionata con uno stent, una gabbia che sostituisce la parte lesionata dell’arteria. Poi, una volta messa in sicurezza la carotide, risalire fino all’arteria cerebrale e rimuovere il grumo di sangue con uno stenttriever, uno strumento che permette di intrappolare il trombo e recuperarlo, liberando l'arteria. Questo intervento, che io trovo fantascientifico, si chiama trombectomia.
Ma i tempi – ripete Vallone – sono strettissimi. Scommettiamo sui tempi per avere buon esito, ma bisogna fare presto, dice.
Io dico “certo, va bene”. E un secondo dopo lui è già rientrato nell’ambulatorio, dove tu sei sveglia e lucida, ma non puoi parlare. 
“Vedrai che andrà tutto bene Franci, siamo in buone mani, hai sentito il dottore? Vedrai che adesso sistemano tutto. Dai dai dai che tutto si sistema”, dico alla Francesca stringendola. Lei si asciuga le lacrime. 
Una dottoressa si avvicina a noi e mi dice: “Vorrei spiegarvi di nuovo quello che sta succedendo, perché non sono sicura che abbiate capito cosa sta succedendo”.
Francesca si fa piccola dentro il cappotto, quasi ritraendosi, e affonda le mani dentro le tasche, aspettando le parole della dottoressa. 
“Sua moglie ha una seria sofferenza cerebrale, che comporta…” 
Io la fermo, le dico che può parlare liberamente e apertamente se ci sono delle cose da sapere. Dico che mia figlia è grande, quindi può dirci quello che ci dobbiamo aspettare. La dottoressa allora guarda Francesca, le chiede quanti anni ha.
“Sedici”, risponde Francesca.
“Sedici”, osserva la dottoressa. “Sei grande, si. Grande, ma ancora così giovane”. E poi ci spiega di nuovo quello che sta succedendo. Ma non aggiunge niente di nuovo, avevamo capito che eravamo in una situazione di rischio estremo. Francesca fa qualche domanda alla dottoressa, soprattutto quando parla di “rischi”, di “conseguenze”. Chiede quali rischi, quali conseguenze. Poi la dottoressa rientra nella stanza in cui stanno iniziando a intervenire sulla carotide. Entreranno con una sonda dall’arteria femorale e risaliranno per posizionare lo stent.
Nel frattempo nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso è arrivato Oreste. Faccio qualche telefonata, chiamo Paolo, da cui sarei dovuto andare quella sera e gli racconto cosa sta succedendo. Lui dice che arriverà subito lì a Baggiovara. Gli dico che mi fa piacere. Rispondo ai messaggi che iniziano ad arrivare. Mio fratello Andrea, con cui stavo parlando proprio mentre l’ictus si manifestava, mi scrive chiedendo cosa stia succedendo. Ricevo una telefonata di Valeria, mi dice che sta arrivando a Baggiovara insieme a tuo papà e tua mamma, Augusto e Gabriella. 
Quando arrivano, racconto cosa sta succedendo. Non ci sono parole, c’è poco da dire. Tuo papà Augusto, poi, è laureato in medicina, ha piena consapevolezza di tutto. E tu sei sua figlia, la consapevolezza deve fare molto male in questi casi. Poi Valeria può seguirmi nella parte interna del pronto soccorso, in cui sono ammessi solo i parenti stretti. Riesce a parlare con un medico. Alla parola “dissezione” non trattiene lo stupore. Io non avevo capito che la dissezione della carotide fosse una cosa così complessa, non sono un medico e non capisco il grado di pericolosità. Ma intuisco che le cose sono evidentemente ancora più serie di quanto io immaginassi. Parliamo dell’assurdità di quello che sta succedendo proprio a te, che non hai nessun fattore di rischio. Hai solo 46 anni, vai in palestra, sei magra, non fumi, non bevi, hai addirittura la pressione bassa.
L’intervento, intanto, procede. Noi aspettiamo lì fuori dall’ambulatorio, ma facciamo anche avanti e indietro dalla sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove nel frattempo sono arrivati in tanti. Paolo, Davide, Oreste. E poi Piero, Enrico, Diana, Cecilia, Giacomo. E altri che alla notizia si precipitano. Il mio cellulare suona, amici che chiedono cosa stia succedendo, che si offrono di aiutarci nel modo che riteniamo più idoneo, che ci fanno sentire la loro vicinanza. 
Valeria spiega a tuo papà che si tratta di una dissezione. E tuo papà, in quel momento, sembra perdere le speranze. La dissezione di un’arteria difficilmente lascia scampo, pensa tra sé e sé, memore dei suoi studi.
Giulia non è ancora arrivata, ma la sua lezione di ginnastica è finita, tra poco sarà qui. E le spiegherò cosa sta succedendo. Dovrà essere forte nella fragilità dei suoi 14 anni. Quando esce dalla palestra rimane sorpresa. Non aveva letto il mio messaggio, non sapeva che non sarei andato a prenderla. Ad aspettarla ci sono Cecilia, la moglie di Oreste, e Carlotta, amica del  cuore sia di Francesca che di Giulia. 
La scusa con cui la accolgono è che tu sei all’ospedale con un mal di testa molto forte. E le dicono che io sono lì con te. E poi il discorso devia su cose la mettono subito in guardia. Nel tragitto verso l’ospedale, infatti, Cecilia e Carlotta le fanno domande che sembrano fatte apposta per prendere tempo, per non dare spazio a niente che non sia un diversivo. 
Giulia si irrigidisce appena un po’, ma non fa domande. 
Quando arriva al Pronto Soccorso, vede che siamo tutti lì. Lei entra, io le vado incontro, la prendo sottobraccio e la porto fuori con me, la mia voce cede mentre parlo, mentre le dico che la mamma ha avuto un ictus. 
Giulia piange disperata, mi abbraccia forte, in un secondo è passata dalla prospettiva di una pizza e film in tv a quella della mamma che rischia di morire. Io la abbraccio, le dico che però adesso stai bene, che stai meglio, anche se sono frasi che non hanno senso. Nei giorni successivi Giulia mi confiderà che quando io le dicevo “adesso sta meglio”, lei si aspettava che io da un momento all’altro aggiungessi una cosa come “adesso che è finito tutto, adesso che è in cielo”. Adesso che è finita, adesso che ha finito di soffrire, sta meglio. Giulia teme che io dica questo.
Il tempo scorre, io e Valeria facciamo la spola tra l’ambulatorio e la sala d’attesa. Continuano le telefonate. Chiamo i miei, racconto senza troppe parole cosa sta succedendo. Mio papà mi richiama, dice che il giorno successivo mia mamma verrà a Modena e starà lì fino a quando ne avremo bisogno. Sento anche mio fratello Riccardo, mi dice di tenere duro, loro sono idealmente con noi.
Dentro l’ambulatorio l’intervento procede. La carotide deve essere messa in sicurezza, bisogna assolutamente stabilizzare tutto e poi iniziare con l’intervento. Posizioneranno lo stent nella carotide e poi risaliranno verso il cervello: asporteranno il coagulo che sta causando l’ictus, togliendolo dall'arteria cerebrale media destra.
Tu sei ancora ingabbiata in una dimensione di distacco da tutto, non parli, non muovi il braccio sinistro. E nei giorni successivi avremmo capito che quando eri sotto al portico, che ti giravi in continuazione, lo facevi perché cercavi di capire chi fosse che ti toccava la spalla. 
Chi era? 
Non c’era nessuno, era il tuo braccio. Ma il tuo cervello non lo riconosceva più e tu lo percepivi come un corpo estraneo appoggiato sulla spalla. Ecco perché ti giravi. 
Per un momento sono fuori, nel piazzale del Pronto soccorso. 
Mi avvicina Francesca, in silenzio. Mi abbraccia. Mi chiede: la mamma morirà? 
Anche Giulia vuole sapere: la mamma può morire? 
Siamo noi tre, vicini. Io baro, dico che non puoi morire. Spiego quali potranno essere le conseguenze. 
Giulia mi chiede: “Ma potrebbe parlare come Bossi”?
Nell’ambulatorio tutto procede. Tu sei sveglia e cosciente, ti hanno fatto solo un’anestesia locale nella zona in cui hanno inserito il catetere.
Bisogna evitare assolutamente che la carotide si chiuda, ripararla prima che questo possa succedere. 
E invece succede.
Quello che non deve succedere, succede.
La carotide si chiude. 
La sacca che si era formata, improvvisamente collassa verso il centro dell’arteria e la chiude. Stop. Il sangue non passa più. 
Inizia il conto alla rovescia per le funzioni cerebrali.
Vallone, che nel monitor sta guidando il catetere per posizionare lo stent, mantiene il sangue freddo. Ormai è vicinissimo alla zona lesionata, alla zona che adesso si è chiusa. La decisione di mettere innanzitutto in sicurezza l’arteria, si dimostra la scelta che cambierà la tua vita, Ilaria. 
L’abilità di Vallone permette in pochi secondi di raggiungere la zona che si è chiusa, forzare i tessuti e riaprire la carotide, posizionando lo stent. A quel punto la tua carotide è di nuovo una galleria ampia dentro cui il sangue riprende a scorrere a piena pressione. Questione di secondi, quelli che faranno la differenza nella tua vita. 
Immediatamente dopo, inizia l’intervento per rimuovere il grumo di sangue dall’arteria cerebrale. Tutto procede rapidamente. Vallone, sempre guardando il monitor, guida lo stenttriever sempre più su, fino all’arteria cerebrale: il grumo viene catturato, intrappolato e recuperato, liberando l’arteria. Nel giro di venti minuti inizi a sentire di nuovo la sensibilità al braccio, il tuo viso si rimodella, senti di nuovo il tuo corpo. Muovi le braccia, le sposti, apri e chiudi le mani. Passa un’infermiera e ti chiede come va: “Meglio”, rispondi, e ti accorgi che improvvisamente hai recuperato la capacità di parlare. Sono da poco passate le nove e mezzo della sera. Nell’ambulatorio risuona la tua voce, che era scomparsa da più di due ore. E’ un ottimo segnale, i medici sono soddisfatti. Portano la notizia fuori, nella sala d’aspetto: “Siamo andati bene”, dicono. 
Passa qualche minuto. Io e Valeria possiamo entrare. Chiediamo dove sei, ci indicano una barella lì in fondo. Non ti si vede, siamo in un lungo corridoio, ti raggiungiamo da dietro e, improvvisamente, dalla barella si vedono salire le tue braccia, verso l’alto. Apri e chiudi le mani, le apri e le chiudi tante volte. Riprendi possesso del tuo corpo, poco alla volta. Arriviamo di fronte a te, sei come nuova, non c’è nessun segno del passaggio violentissimo e brutale dell’ictus. Non ha lasciato tracce. Ci dici che non riesci a parlare benissimo, ma in realtà parli quasi perfettamente. E’ solo questione di ore e anche il linguaggio, che era bloccato, riprenderà a fluire del tutto, senza alcun intoppo. Sei di nuovo tra di noi, indenne. 
Ti fanno salire al primo piano, nello spazio protetto della Stroke Unit, dove ti terranno sotto stretta osservazione. Sei nel posto più sicuro del mondo, guidato da un medico bravissimo, Andrea Zini. Lì ci raggiungono anche Francesca e Giulia, e tuo papà e tua mamma. Devi riposare, ci concedono solo un minuto a testa per salutarti. Piangi, sei spaventata, ma sei di nuovo qui. 
La tac a 24 ore di distanza darà esito negativo. Non c’è stata nessuna lesione, non c’è nessuna conseguenza, di nessun tipo.
Sei illesa. 
Nessun segno. Nessuno. 
Nessuna conseguenza. Nessuna. 
E sei con noi. 
Una manciata di giorni di degenza, poi torni alla vita di tutti i giorni.

Seba, sul suo profilo facebook, il giorno successivo scrive alcune parole, preziose, che in poche righe racchiudono il senso di un’esperienza che non è stata solo nostra, ma di un territorio, di un modo di fare.  
E che, speriamo, possa salvare altre vite: 

felice e orgoglioso di questa città dove in un ospedale pubblico c'è uno dei migliori centri europei per l'emergenza neurologica che ha preso per i capelli un'amica che se ne stava andando e ce l'ha restituita in cambio di un sorriso e una stretta di mano

Stefano Aurighi, Te l'ho chiesto?

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