Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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martedì 17 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Eva Caltran


Il suo auspicio, la sua speranza sono il motore che ogni giorno conduce migliaia di insegnanti nelle loro scuole con l'entusiasmo per un nuovo giorno di scuola che sta per iniziare per loro e per gli alunni.
Lei ha descritto esperienze di un passato che, come docente, vorrei ardentemente veder ritornare per tutti noi. Non posso che augurarlo a tutte le persone che credono che l'esperienza educativa sia l'unica via autentica per crescere e arricchirci, insomma per vivere. Felici.
Grazie per questo pensiero, perché così ricordo perché ho scelto questo lavoro, o forse sarebbe più corretto dire perché questo lavoro ha scelto me.

Eva Caltran

venerdì 13 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Andrea Bergamo


Caro Francesco,
buon anno di fiducia e di amore. Nella vita e nel lavoro.
Ho letto con grande attenzione e interesse la tua "campana di vetro" e subito mi sono venute alla mente due immagini.
La prima, anno scolastico 1991/92, la legge 626 ancora non ha fatto capolino nel nostro ordinamento, ma già si organizzano i primi corsi di educazione alla salute e la sicurezza viene concepita in termini di prevenzione di incidenti. Su invito e sensibilizzazione dell'allora provveditorato agli studi, molte scuole iniziano le prime, ruspanti ma appassionanti e per nulla tecniche rilevazioni dei rischi, all'interno delle scuole. Ricordo che per quasi un mese, un gruppo di lavoro, nato all'interno del Consiglio di istituto, formato da docenti e genitori, ha fatto il giro di tutte le scuole, girando angolo per angolo, aula per aula, scala per scala, cercando di rilevare eventuali luoghi "pericolosi". Il tutto era finalizzato a creare una cultura della salute (sicurezza) e quindi di prevenzione degli incidenti scolastici negli alunni, dopo aver individuato eventuali rischi. Nessuno di noi pensava alla sicurezza in termini di responsabilità, ma di sicurezza, cioè di evitare agli alunni di cadere dalla scala scivolosa, di farsi male se sbattevano addosso ad uno "spigolo vivo", se si impigliavano la tasca dei pantaloni sulla maniglia, appuntita, della porta dell'aula...
Fu una bella stagione, ognuno di noi si sentiva utile alla causa comune: avere una ambiente scolastico, privo di pericoli, dove far vivere agli alunni la migliore esperienza di crescita culturale e di promozione dello star bene in mezzo agli altri.
Due anni dopo, arrivò la 626 e i corsi di formazione cambiarono prospettiva. E i dirigenti, allora presidi, cominciarono a cimentarsi con la burocrazia asfissiante degli adempimenti.
La seconda immagine, risale a 10 anni dopo, quando fui invitato, come relatore, in un convegno sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, organizzato dallo SPISAL dell'ULS 16 e dal Comune di Padova. Mi era stato affidato il tema: gioco e sicurezza nelle scuole dell'infanzia. Iniziai la mia relazione - usavano allora i lucidi e la lavagna luminosa - partendo dal concetto "rischio educativo della crescita", ponendo in primo piano il diritto del bambino di arrampicarsi sul castello di corda, posizionato nel salone della sua scuola, senza essere ossessionato dalla paura di cadere o dal divieto dell'insegnante che, per paura di complicazioni varie, vieta ai bambini di arrampicarsi sul castello. La relatrice che aveva parlato prima di me, una pediatra di fama nazionale, annuiva e sembrava condividere quanto stavo dicendo, ma mentre mi addentravo, con alcuni esempi, tratti dalle osservazioni di parecchie scuole dell'infanzia, e, un po', mi compiacevo, nel sostenere la necessità di favorire nei bambini il gioco spontaneo, senza eccessivi limiti e divieti, salì sul palco il direttore dello SPISAL, interrompendo la mia relazione, perché  troppo pedagogica, rispetto al tema del convegno. Qualche giorno dopo, il direttore venne a trovarmi in Ufficio e ricordando il mio intervento al convegno, mi apostrofò come "una serpe in seno".
Non ho mai pensato di avere doti da grande relatore, forse qualche volta avrò anche annoiato il pubblico che mi ascoltava, ma nessuno mai mi aveva definito "serpe in seno", per aver detto che i bambini hanno bisogno di sperimentare luoghi e situazioni,  con un pizzico di rischio e che lo stesso è utile per la crescita.
Caro Francesco, tutte le domeniche i miei due nipotini di 8 e 5 anni vengono a trovarmi e dopo aver suonato il campanello, provano gusto a nascondersi, per farmi uno scherzo. Io sto al gioco, ma mentre fingo di preoccuparmi come mai non vedo nessuno pur avendo sentito suonare il campanello, il più grande scavalca il cancello, si nasconde tra le fronde dell'ulivo che si trova nel mio giardino e, con aria soddisfatta, mi chiama e mi chiede: nonno, mi vedi? La mia prima reazione è  fingere la sorpresa, la seconda è raccomandargli che non metta i piedi  nei rami troppo fini che potrebbero spezzarsi e farlo cadere! Da qualche tempo, ne aggiungo una terza: stai attendo a non pestare i piedi a tuo fratello, che compiuti i 5 anni si sente pronto a emulare il fratello di 8.
Non possiamo pretendere che gli insegnanti si comportino come il nonno compiaciuto che rifiuta di dare divieti ai nipotini (ci pensano già i genitori) ma vorrei suggerire agli insegnanti di provare a fidarsi un po' di più dei loro alunni, di valutare la situazione ambientale e di accettare l'idea che il rischio zero non esiste. Allora, con la nostra saggezza, di educatori, possiamo anche tollerare che qualcuno possa sbucciarsi un ginocchio a scuola. Non sarà la fine del mondo, al contrario sarà l'inizio di un percorso identitario, che aiuterà l'alunno ad acquisire maggiore consapevolezza dei suoi limiti e della sua personalità.

Andrea Bergamo, dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale di Padova e Rovigo

mercoledì 11 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Stefano Da Ros


Carissimo Francesco,
i tuoi contributi sono sempre pregnanti e preziosi!
Mi fai ricordare il mio primo anno di insegnamento, 1980/81, a Fregona, ai piedi del Cansiglio, in "stanze" della Parrocchia, in attesa della nuova costruzione. Con il regolare arrivo in aula del bidello con secchio di carbone per caricare la stufa...
Con alunni che "in tutta sicurezza" saltavano fossi e si sbucciavano ginocchia e gomiti...
Con ragazzi mattinieri che scendevano dal monte "in autonomia", alimentati da... zabaione con Marsala :-)
E proprio questa mattina, nel corso della riunione che ho tenuto con gli assistenti amministrativi per un riassetto organizzativo degli uffici, ho parlato di fiducia. Ho sottolineato che io non controllo chi fa cosa (nel flusso ordinario delle pratiche) perché "mi fido, so che mi posso fidare di voi, così il tempo che non occupo a fare il controllore lo dedico agli studenti, alle loro famiglie, al supporto della didattica, alle relazioni..."
Grazie ancora Francesco.
Ti auguro il meglio, compreso qualche viaggio vantaggioso con Trenitalia :-)

Stefano Da Ros

lunedì 9 gennaio 2017

DOPO LA CAMPANA DI VETRO – Marcello Costa


Caro Francesco, mi hai fatto ricordare Verecondo Cuoghi (era lui il casaro?), quante volte è venuto a scuola a Curtarolo a fare il formaggio con i ragazzi e ancora a parlare di ambiente con la spontaneità di un innamorato della natura e con le prove fotografiche fatte da vero professionista.
E' triste pensare che adesso per fare il formaggio a scuola (e poi mangiarlo come colazione con il pane: la tosella cotta sul fornellino a gas era deliziosa) comporta una serie di ostacoli, penso insuperabili:
progetto nel Piano triennale dell'offerta formativa;
delibere del Consiglio di classe, 
del Collegio dei docenti,
del Consiglio di istituto;
bando di ricerca dell'esperto esterno;
determina per la gara;
determina per l'assegnazione del laboratorio;
procedura per l'anticorruzione; 
permessi delle famiglie;
controllo dell'igiene delle attrezzature;
controllo della qualità del latte;
HACCP del conduttore del laboratorio;
rispetto della filiera prevista dalle norme di sicurezza;
divieto di consumare cibo non certificato;
presenza della Protezione civile;
....
e, se c'è qualche spesa, alla fine la fattura elettronica!

Però la tosella di Verecondo me la ricordo ancora.

Marcello Costa

venerdì 21 ottobre 2016

LA QUALITA’ DI PRESENZA - Marshall B. Rosenberg (1934-2015)

La qualità di presenza è molto importante nell’empatia e richiede di mettere l’attenzione su quello che sta succedendo ora: che cosa è vivo in questo momento, in questa persona? Se la persona parla del passato, io non metto la mia attenzione sul passato, ma su ciò che di vivo in lei la porta adesso a raccontarmi del passato.
Marshall B. Rosenberg, Comunicazione e potere, Edizioni Esserci, Reggio Emilia 2010, p. 90


mercoledì 19 ottobre 2016

NON POSSIAMO CAMBIARE IL PASSATO - Marshall B. Rosenberg (1934-2015)



Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo fare tanto riguardo alla vita presente! Purtroppo tante persone credono che sia importante raccontare tutta la propria storia per poter guarire. Credo invece che sia una cosa che blocchi la guarigione. Ci sono modi migliori per passare il tempo, che non parlare di quello che è successo in passato!
Marshall B. Rosenberg, Comunicazione e potere, Edizioni Esserci, Reggio Emilia 2010, p. 89


mercoledì 16 marzo 2016

NON SEGATE LA SEGATURA – Dale Carnegie (1888-1955)

Ho sempre ammirato Fred Fuller Shedd per il suo dono di presentare vecchie verità in una forma nuova e pittoresca. Era direttore del Philadelphia Bulletin.
Un giorno, rivolgendosi in aula a degli studenti universitari, chiese: “Quanti di voi hanno mai segato legna? Alzate la mano”. Molti l’avevano fatto.
Poi domandò:”Quanti di voi hanno mai segato della segatura?”. Nessuna mano si alzò.  “Certo, non è possibile segare della segatura”, esclamò Shedd. “E’ già segata. Ed è la stessa cosa col passato. Quando vi tormentate per cose sorpassate e concluse, non fate altro che segare della segatura”.
Dale Carnegie, Come vincere lo stress e cominciare a vivere, 1944, ed. it. Bompiani, Milano 1994/2015, p. 117


sabato 26 dicembre 2015

CANTO DI NATALE – Mariapia Veladiano


È la vigilia di Natale, c’è la nebbia, è buio, fa freddo nel negozio, fa freddo nella strada ma il vero freddo è «il freddo che aveva dentro». «Gli gelava il viso, gli affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, ne induriva l’andatura, gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra, si rivelava nella voce gracchiante. Una brina ghiacciata gli copriva il capo, sopracciglia e mento legnoso; ed egli portava sempre in giro con sé quella sua bassa temperatura, che gelava il suo ufficio anche nei giorni di canicola, e non saliva, sia pure di un grado, neanche al tempo di Natale».
Ebenezer Scrooge è il protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens e trascorre i giorni della sua vita scalpellato in un suo egoismo così compatto che il freddo dell’inverno nemmeno lo sente perché lo emana in proprio lungo tutto l’arco dei mesi e insieme ostinatamente s’impegna a credere che scelta non ci sia, a credere che la vita sia così, questo furioso difendere il proprio tangibile bene, fatto di cose che non si usano per risparmiarle a se stesse, di case che non si riscaldano per accumulare in banca titoli che non si godono perché hanno la missione di aumentare, sempre di più, sempre di più.
Difendere le cose e insieme difendersi dai sentimenti, sia mai che costino un regalo o anche solo una gratitudine, spiffero di vita che ci invade. Per cui l’affetto del nipote ostinatamente cordiale è solo molesto. Ma bisogna difendersi soprattutto dai sensi, «perché un nonnulla basta a turbarli. Un piccolo imbarazzo di stomaco può renderli ingannevoli». Benevolenza da buona digestione, sia mai che dopo ci si debba pentire. E in questo generale totale assoluto viaggiare solo e diffidente, la visita del socio Marley, peraltro del tutto defunto da sette anni, cade inizialmente sotto l’accetta del sospetto, come tutte le relazioni della sua vita circoscritta, serrata, inchiavistellata.
Triste lui, rattristati quelli che gli stanno intorno, come si fa a non vedere? Come facciamo tutti a non vedere la nostra infelicità?
Il socio Jacob Marley che arriva dall’oltretomba carico di una catena da lui stesso costruita in vita, fatta di «chiavi, lucchetti e libri mastri», spiega a Scrooge come a un bambino che non vuol capire. È la vita circoscritta la colpa e la condanna insieme, il non essersi mai allontanato dall’ufficio, mai «oltre gli stretti limiti del nostro minuscolo banco di cambio», gli occhi incollati a terra e ai beni e mai mai alla «stella benedetta che condusse i magi a una capanna».
Al di là del vortice di buoni sentimenti, di un mondo povero ma felice in cui Scrooge viene trasportato dallo spirito del Natale passato e dallo spirito del Natale presente, e anche al di là dell’orrore ormai scontato in cui lo precipita la visione del Natale futuro, che lo immerge nella realtà della sua morte e dello sciacallaggio da cui è circondata, il viaggio natalizio di Scrooge è sostanzialmente un vedere. «Vieni e vedi». Non sono le parole a trasformarlo ma il lineare vedere come ciò che si è scelto ha avuto conseguenze su di noi e sul mondo e come quel che faremo da ora in poi è ancora tutto nelle nostre mani, non è scritto.
Ciò che Scrooge impara è qualcosa che in fondo sappiamo ma dimentichiamo, e cioè che è la solitudine a disseccare la nostra umanità. Non è bene che l’uomo sia solo. Ed è la cecità lo strumento che ci permette di vivere così. Di non vivere così. Caino dov’è tuo fratello? Scrooge che esce dalla notte di Natale vivo dopo aver attraversato il suo funerale è un uomo che vede, improvvisamente vede: il tacchino da regalare, i gentiluomini che aveva cacciato senza fissarli negli occhi il giorno prima, e sente improvvisamente il freddo del negozio e la gioia della festa e la felicità di rendere felici, felice della felicità degli altri.
Chissà se il terribile peccato contro lo Spirito non è semplicemente questo negarsi alla vita, alla ricerca della propria piccola arruffata sgangherata felicità. Movimento rischioso, si può amare e perdere, partire e cadere. «Sono solo un mortale, potrei anche cadere», dice Scrooge al fantasma dei natali passati. La condizione di tutti è questo poter cadere ma permettere alla paura di inchiodarci a un destino che vogliamo credere scolpito è negarsi il bene che la vita disperde lungo gli anni che ci sono consegnati.
Questo movimento può sembrare forse sul principio e anche dopo, a tratti, più difficile e molesto del quieto restare al banco del cambio, che diventa poi faticoso difendere una posizione, arginare la forza del mondo di affetti e relazioni che naturalmente e senza pretese arriva, entra dalla porta nella forma del suono di mani che sbattono l’una contro l’altra per vincere il freddo, o piedi che scivolano sul ghiaccio mescolati alla voce di un bambino che canta canzoni di Natale.
Aprire gli occhi alla vita è realtà prima che metafora e se non cambierà il mondo intero cambierà il nostro mondo e quello di un bel po’ di persone che ci stanno intorno. Non è poco, proprio no.
Mariapia Veladiano, “Il Regno”, 10 (2015)


martedì 1 dicembre 2015

IL GREMBIULE DELLA NONNA – Maurizio Magistri


Ti ricordi del grembiule di tua Nonna ?
Il primo scopo del grembiule delle Nonna era di proteggere i vestiti sotto,
ma, inoltre:
serviva da guanto per ritirare la padella bruciante dal forno;
era meraviglioso per asciugare le lacrime dei bambini ed, in certe occasioni, per pulire le faccine sporche;
dal pollaio, il grembiule serviva a trasportare le uova e, talvolta, i pulcini!;
quando i visitatori arrivavano, il grembiule serviva a proteggere i bambini timidi;
quando faceva freddo, la Nonna se ne imbacuccava le braccia;
questo buon vecchio grembiule faceva da soffietto, agitato sopra il fuoco a legna;
era lui che trasportava le patate e la legna secca in cucina;
dall'orto, esso serviva da paniere per molti ortaggi dopo che i piselli erano stati raccolti era il turno dei cavoli;
a fine stagione, esso era utilizzato per raccogliere le mele cadute dell'albero;
quando dei visitatori arrivavano in modo improvviso, era sorprendente vedere la rapidità con cui questo vecchio grembiule poteva dar giù la polvere;
all'ora di servire i pasti, la Nonna andava sulla scala ad agitare il suo grembiule e gli uomini nei campi sapevano all'istante che dovevano andare a tavola;
la Nonna l'utilizzava anche per posare la torta di mele appena uscita dal forno sul davanzale a raffreddare; ai nostri giorni sua nipote la mette là per scongelarla.

Occorrerà un bel po' d'anni prima che qualche invenzione o qualche oggetto possa rimpiazzare questo vecchio buon grembiule.


Maurizio Magistri

giovedì 13 agosto 2015

ABITARE IL PRESENTE – Irvin Yalom


E’ solo il presente il luogo che dobbiamo abitare. Ieri e domani non esistono. I ricordi passati, i desideri futuri, producono solo inquietudine. 
La via verso l’equanimità sta nell’osservare il presente e nel permettergli di fluire indisturbato lungo il fiume della nostra consapevolezza.

Irvin Yalom, La cura Schopenhauer, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005.

venerdì 19 giugno 2015

ORME SULLA SABBIA – Antoine de Saint Exupery


Sulla spiaggia vergine e sparsa come talco, ho riletto a cose fatte la storia del mio nemico. Poiché un passo è̀ preceduto sempre da un altro passo che lo permette e la catena si snoda d’anello in anello senza che mai ne manchi uno.
Se il vento non si è levato e, tormentando la sabbia, non ne ha asciugato la pagina superbamente scritta come sulla lavagnetta di uno scolaro, io posso risalire di impronta in impronta fino all’origine delle cose, oppure, inseguendo la carovana del mio nemico, sorprenderla in un anfratto in cui ha creduto bene di fare sosta.
Ma, nel corso di questa lettura, io non ricevo alcun insegnamento che mi permetta di precederla nel suo cammino. Perché la verità che la domina è di un’essenza diversa dalla sabbia di cui io dispongo. E la conoscenza delle impronte non è che conoscenza d’un riflesso sterile che non mi istruirà né sull’odio, né sul terrore né sull’amore che innanzitutto governano gli uomini.
Antoine de Saint Exupery, Cittadella, Borla, Roma 1978


giovedì 22 maggio 2014

SUOCERI – Diego De Silva



Il suocero, proprio come genere, è uno che è stato per definizione: lavoratore e lavoratrice, marito e moglie, madre e padre, più una moltitudine di sottofunzioni e vicariati di svariata natura svolti nel corso dell’esistenza. Ha ricoperto così tanti incarichi che quando raggiunge lo status di suocero è un po’ come se diventasse senatore a vita. E’ ex in quanto suocero, insomma. Tant’è che la sua massima (e ultima) aspirazione è diventare nonno (che poi significa raccontare la sua vita ai nipotini e dunque, ancora una volta, comportarsi da ex).
Diego De Silva, Mia suocera beve, Einaudi, Torino 2010.


martedì 4 febbraio 2014

UN CLARINETTO NEL LAGER - Aldo Valerio Cacco



Aldo Valerio Cacco, prigioniero nei campi di concentramento di Fürstenberg e Nordhausen tra il 1943 e il 1945, grazie al suo clarinetto, con cui suonava Lily Marleen e altre arie musicali conosciute, riuscì a sopravvivere e a ritornare a casa.
«Qui più il tempo passa più si allontana la speranza di rimpatriare. Proprio ora entra un soldato del campo e vuole che suoni: ho suonato circa 20 minuti e per premio mi ha dato una razione di pane, un pezzetto di burro e 2 sigarette. Meglio di così non poteva andare. [...] Per adesso il clarino non lo vendo perché è facile che questa settimana mi porti qualche cosa da mangiare».
Ora è il momento di mettere nero su bianco il racconto della sua tragica esperienza… per non dimenticare.

Aldo Valerio Cacco, Un clarinetto nel Lager. Diario di prigionia 1943-1945, a cura di Patrizio Zanella, Padova 2013

Autore

Valerio Cacco (1924), soldato dell'Esercito Italiano, catturato dopo l'8 settembre ’43, fu deportato in Germania e internato nel lager III B di Fürstenberg in Turingia e poi in quello di Nordhausen. Grazie alla musica e al suo clarinetto, che ancora conserva, riuscì a sopravvivere e a tornare a casa. 
Nel 1985 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli conferì il diploma d'onore di «Combattente per la libertà d'Italia 1943-1945», definendolo «internato militare non collaborazionista».

sabato 1 febbraio 2014

IL TEMPO PRESENTE - Blaise Pascal (1623-1662)


Noi non ci atteniamo mai al tempo presente. Anticipiamo il futuro come troppo lento a venire, quasi per affrettarne il corso; oppure ricordiamo il passato per fermarlo come troppo rapido; così imprudenti che vaghiamo nei tempi che non sono nostri, e non pensiamo affatto al solo che realmente ci appartiene; e così vani, che riflettiamo su quelli che non sono più nulla, e fuggiamo senza riflettere quel solo che esiste.
Il fatto è che il presente, di solito, ci ferisce. Lo nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge; se invece per noi è piacevole, rimpiangiamo di vederlo fuggire. Tentiamo di sostenerlo per mezzo dell'avvenire, e ci preoccupiamo di disporre le cose che non sono in nostro potere, in vista di un tempo al quale non siamo per nulla certi di arrivare.
Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre tutti occupati dal passato e dal futuro. Non pensiamo quasi mai al presente; o, se ci pensiamo, è solo per illuminarci circa il futuro. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi, per noi solamente il futuro è il fine.
In questo modo non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, preparandoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai.

Blaise Pascal, Pensieri, n.172 (Brunschvicg)

lunedì 1 luglio 2013

L'ESSENZIALE - Leo Buscaglia


Ecco, non so come la pensiate voi, ma io non penso che l'essenziale sia il mio corpo. Non so come la pensiate voi, ma io non penso che la mia istruzione sia l'essenziale. Non credo che l'essenziale, per me, sia la mia casa o la mia macchina o i miei vestiti. 
Che cos'è l'essenziale, per me? Io credo che l'essenziale sia vivere e abbracciare la vita, ora, dovunque io sia. La stringo tra le braccia! Non perdo tempo a piangere su ieri... ieri è finito! Dimentico il passato. Non voglio passare il resto della mia vita a muovere rimproveri e a puntare l'indice. 
Il presente è il dono che Dio vi ha fatto, e il modo in cui l'usate è il dono che voi fate a Dio. La vita è nelle vostre mani. Potete scegliere la gioia, se volete, oppure potete trovare la disperazione dovunque guardiate. 
E' tutto vostro. 

Leo Buscaglia

giovedì 2 maggio 2013

LA CONFUSIONE DEL TEMPO - Eckart Tolle



Anche i momenti passati o quelli futuri esistono solamente quando li ricordate o li anticipate, e lo fate pensandoli nel solo momento che c’è. Questo. 
Allora perché i momenti sembrano essere molti? Perché il momento presente viene confuso con ciò che accade, confuso con il contenuto.  Lo spazio dell'Adesso viene confuso con ciò che accade in quello spazio. Confondere il momento presente con il suo contenuto genera non solo l'illusione del tempo, ma anche l'illusione dell'ego.
Eckart Tolle, Un nuovo mondo,  p. 172

domenica 21 aprile 2013

IL TEMPO COME DISTENDERSI DELL'ANIMO - Agostino di Ippona (354-430)



Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. 
E’ inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. 
Forse sarebbe più giusto dire che i tempi sono questi tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. 
Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione attuale, il presente del futuro è l’attesa.
AgostinoLe confessioni, XI, 20.

sabato 20 aprile 2013

ESISTE IL TEMPO? - Agostino di Ippona (354-430)



Questo però posso dire, in buona fede, di sapere: se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente.
Ma, in quanto ai due tempi passato e futuro, in quale modo essi esistono, dal momento che il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall'altra, non è ancora?
E quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, dunque, il presente per essere tempo deve tradursi nel passato, come possiamo noi dire che esso esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà?
In realtà, non possiamo parlare di esistenza del tempo se non in quanto tende a non esistere.
AgostinoLe confessioni, XI, 14.

giovedì 18 aprile 2013

PARLACI DEL TEMPO - Kahlil Gibran (1883-1931)



E un astronomo disse: “Maestro, parlaci del Tempo”.
Ed egli rispose:
Voi vorreste misurare il tempo, l'incommensurabile e l'immenso.
Vorreste regolare la vostra condotta e dirigere anche il corso del vostro animo secondo le ore e le stagioni.

Vorreste fare del tempo un fiume, per sedervi sulle sue rive e guardarlo mentre scorre.
Eppure l'eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo,
e sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani non è che il sogno di oggi.
E ciò che in voi è canto e contemplazione dimora ancora entro i confini di quel primo momento in cui le stelle furono disseminate nello spazio.
Chi tra voi non sente che il suo potere d’amare è senza limiti?
E chi non sente tuttavia che questo amore, benché illimitato, è come incastonato nel centro del proprio essere, e che non scorre da un pensiero d’amore a un altro pensiero d’amore, né da un atto d’amore a un altro atto d’amore?
Non è forse il tempo, così come l'amore, indiviso e immoto?
Ma se nella vostra mente volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le altre,
e che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l'attesa.

Kahlil Gibran, Il profeta
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