Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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venerdì 16 settembre 2016

CHI HA PAURA DEL MONDO CATTIVO – Mariapia Veladiano


II pomeriggio del secondo giorno di scuola il genitore di un bambino di prima elementare telefona al preside e gli dice: «Oggi sul pulmino un compagno di mio figlio lo ha spinto. Per questa volta le telefono, la prossima volta le mando gli avvocati». Alla fine di un Consiglio di istituto dedicato ad approvare il piano di sicurezza della scuola il preside ringrazia e saluta una rappresentante dei genitori la cui figlia di quinta superiore sta partendo per un viaggio di istruzione a Berlino: «Ormai sua figlia e i suoi compagni sono maggiorenni e un po' di responsabilità le condividiamo con loro», dice. «Eh no!», risponde la signora. «Se capita qualcosa la colpa è vostra».
Scuola a responsabilità illimitata. La preside di Bergamo che chiede ai genitori di venire a prendere i figli adolescenti alla fine delle lezioni solleva un problema verissimo. Dove arriva la culpa in vigilando della scuola? All'aula, ai bagni, sul pulmino, fino a casa, fino a diciotto anni e fino a Berlino? Ci sono sentenze che dicono di sì. Per la legge la scuola deve provvedere alla sorveglianza dei minorenni "fino al subentro reale o potenziale dei genitori".
Qui c'è un conflitto gigantesco con l'obiettivo primo dell'educazione che è la crescita dell'autonomia personale dei ragazzi ma è talmente cambiata la percezione della sicurezza rispetto a un passato vicino che si vive ( ansiosamente) la scissione: i figli tornano di notte a tutte le ore ma li si consegna alla scuola come a una teca iperprotettiva.
Il livello di rischio del mondo esterno è oggettivamente aumentato. Abbiamo accettato città e paesi costruiti per il traffico e il commercio e né bambini né adulti hanno vita facile. Tutti abbiamo paura e i genitori chiedono alla scuola quella sicurezza che sentono impossibile. Ma è un'illusione crudelissima quella che affida la sicurezza al controllo, che si tratti di insegnanti, poliziotti o telecamere.
La vita è altamente intollerabile se non la si vive in una condivisione di fiducia reciproca e di responsabilità. Esiste una responsabilità in educando, che è anche e soprattutto dei genitori, esiste la fiducia di cui tutti, i figli soprattutto ma anche la scuola, hanno bisogno. E insieme esiste il rischio che rimane dopo aver eliminato quello che dipende dalle nostre scelte sociali, amministrative, culturali.
Però la vita è altamente intollerabile anche se non la si prende almeno un poco all'ingrosso. Cioè così come sta, con il suo essere tremenda e bellissima, spesso le due cose insieme, a volte in sequenza troppo ravvicinata.
Forse la preoccupazione ci fa sentire genitori migliori. La paura riempie bene la vita, copre i sensi di colpa per il tempo non dedicato, per lo sguardo mancato, per lo sgomento di non saper capire o di non poter proprio capire e la paura è più rassicurante dell'impotenza. Ma la paura non è una fatalità da accettare come la grandine che quando cade cade. È anche il risultato di un mondo al quale abbiamo permesso di essere più pericoloso del necessario.
Chiunque sia stato in visita alle scuole olandesi (e danesi e tedesche) ha visto la mattina arrivare sciami di studenti in bicicletta, colorati nei loro impermeabili, li ha visti riporre scarpe e stivali negli armadietti, fare lezione e ripartire alla fine della giornata di scuola. Possono essere rapiti durante il tragitto. Sì, ma si muovono insieme, il rischio è minore. Possono fare un incidente. Sì, ma il gruppo rende più sicuri e viaggiano sulle ciclabili. Possono ammalarsi per la pioggia. Sì, ma molto molto meno dei nostri figli che passano dal letto all'aula dentro un suv preriscaldato. E poi in questo andare nell'aria del mattino forse sperimentano qualcosa del loro poter essere liberi.
Mariapia Veladiano, Chi ha paura del mondo cattivo, “La Repubblica”, 13 settembre 2016


giovedì 16 giugno 2016

RIPENSAMENTI RADICALI 2/3 – Marco Orsi


In Italia negli anni ’90 dello scorso secolo si è posta una grande enfasi sull’autonomia degli istituti scolastici. Si diceva che ciò avrebbe aperto il sistema ad una pluralità di proposte, di sperimentazioni, di novità; avrebbe inserito elementi di fluidità, di innovazione in un organismo che da molte parti veniva visto come fermo, immobile, ingessato.
Tuttavia il cambiamento è stato solo apparente, di facciata.  Si è guardato all’immagine, poco alla sostanza. L’iniziativa degli istituti si è ampliata a dismisura generando, proprio in questi anni, un’inflazione di progetti, di azioni, programmi, ma il nucleo centrale, il modo di essere fondamentale della scuola non è cambiato.  Il modello è rimasto quello. 
Basta entrare in un’aula per cogliere come la rappresentazione della vicenda scolastica, quotidianamente, spesso persegue il medesimo cliché:  un sapere trasmissivo che si avvale della tripletta spiegazione alla cattedra - compito individuale ai banchi – interrogazione:  una relazionalità competitiva e individualistica che ha la sua centratura sulla motivazione estrinseca data dai voti, ove prevale un approccio all’apprendimento logico – formale, non basato sull’esperienza e sulla ricerca, che non promuove attenzione alla dimensione vocazionale e di vita dei soggetti.
Marco Orsi, A scuola senza zaino, Erickson, Trento 2006


giovedì 12 novembre 2015

MAMMA ORSA E IL REGISTRO ELETTRONICO – Nadia Vidale


ll papà infuriato scrive che il figliolo (quarta superiore...) ha dovuto restare a scuola un'ora in più dei compagni perché mancava la spunta di avvenuta lettura da parte del genitore dell'avviso di uscita anticipata, diffuso in un giorno in cui lo studente era assente da scuola. Mi intima
a) di indicargli il riferimento normativo che obbliga il genitore a consultare quotidianamente il registro, obbligo e norma che a lui constano non esistere;
b) se, appunto, obbligo e norma non c'è, di avvertirlo tramite mail o sms ogni volta che nel registro elettronico viene pubblicato qualcosa che lui debba necessariamente leggere.
Che dire?
Il figliolo ha diciassette anni. Perché il papà non lo lascia andare per i fatti suoi e invece si adopera perché gli sia tolto quello che considera il disagio di restare un'ora a scuola, disagio che il ragazzo oltretutto si è procurato da solo per non fare un clic sull'app del registro, fra le centinaia che fa nelle 24 h?
Che memoria corta abbiamo. Quando è entrato in questa scuola, il suo figliolo scriveva le comunicazioni sul libretto - gliele dettava un insegnante, col bidello che girava per le classi a comunicare la variazione di orario. Siccome, anche allora, non esisteva l'obbligo per il genitore di consultare ogni giorno il libretto, se il figliolo dimenticava di dirgli che c'era l'avviso da firmare, il giorno dopo se ne restava a scuola. Se il figliolo era assente il giorno dell'avviso, poteva recuperare l'informazione solo dai compagni di classe - più probabile ancora che restasse a scuola.
Oggi, il genitore può consultare la fonte ufficiale, a qualsiasi ora del giorno e della notte, con il figlio sia assente che, eventualmente, presente a scuola ma smemorato.
Il papà di un diciassettenne anch'io direi che non deve consultare tutti i giorni né il libretto né il diario - che contengono compiti per suo figlio, infatti, mica per lui. Sono compiti di suo figlio, che interpellerà il papà per la parte che eventualmente lo riguarda - per esempio, per acquisire una firma di autorizzazione. Potrebbe dunque chiedersi perché abbia un figlio così negligente nelle cose di scuola. Invece attacca la scuola.
Girava, qualche anno fa, un documentario sugli orsi. Mamma orsa partoriva e poi seguiva gli orsacchiotti insegnando loro varie cose, con un obiettivo chiaro (alte terminus haerens, Lucr. I, 77): renderli autonomi. Così, dopo due anni, lanciava un falso messaggio di allarme e i frugolotti si mettevano al sicuro arrampicandosi su un albero, da cui li avrebbero fatti scendere, molte ore dopo, la fame e la sete, ma la mamma non l’avrebbero trovata più e lei magari non si ricorda nemmeno quanti figli ha fatto. Ah, già! Questo è addestramento, non educazione.
Nadia Vidale, dirigente scolastico

venerdì 15 maggio 2015

CAMBIARE LA SCUOLA DALL’INTERNO – Lizanne Foster


Che cosa facciamo noi insegnanti mentre aspettiamo che i politici ci diano ragione sul fatto che scuole ormai ottocentesche sono inadeguate al ventunesimo secolo e che dovremmo incoraggiare la creatività e non la competizione tra gli studenti?
Cambiamo il sistema dall’interno.
Prima lavoriamo su noi stessi per trovare il coraggio di abbandonare il nostro ruolo di fornitori di contenuti e accettare l’idea di dover cambiare ruolo continuamente nelle nostre classi: a volte dobbiamo essere facilitatori, altre volte mentori, altre ancora padroni di casa che creano uno spazio sicuro per l’apprendimento.
Spostare continuamente il focus del lavoro in classe in questo modo non è un’impresa facile, e non finisce mai. Non è questione di un giorno. Richiede l’umiltà di capire che non dobbiamo necessariamente essere una fonte di saggezza per i nostri alunni. Richiede pazienza e tenacia.
Dobbiamo condividere la nostra idea di cambiare focus con i colleghi, per creare la magia della creatività combinatoria. Prendere qui e lì per trovare il mix più adatto ai nostri studenti. Si procede sempre per tentativi ed errori. E bisogna anche leggere molto.
Sappiamo che è una fatica di Sìsifo, a volte il masso rotola di nuovo giù fino ai piedi della collina. Ma dobbiamo trovare la forza di ricominciare. E ci riusciremo, con l’aiuto dei nostri amici e alleati che capiscono perché lo stiamo facendo e perché ne vale la pena.
Un insegnante non può fare nulla per cambiare il modo in cui è suddivisa la giornata nelle scuole, ma può fare molto per il modo in cui è organizzata la giornata della sua classe. Io insegno lettere agli adolescenti in un quartiere degradato. Abbiamo quattro blocchi di lezioni al giorno: due la mattina e due dopo la pausa pranzo di 40 minuti, ogni blocco è di 77 minuti.
Il tipo di attività che posso svolgere in classe dipende dal momento della giornata. A volte è una lezione frontale, a volte un’attività sperimentale, altre un controllo per vedere a che punto sono gli studenti, altre ancora è un momento di relax o di meditazione prima di cominciare a lavorare. Decido che cosa fare in base ai risultati delle ricerche su come funziona il cervello degli adolescenti. La mattina presto e alla fine della giornata non sono al massimo delle loro capacità, quindi in quelle ore evito le lezioni frontali.
Uso la classe come il ponte degli ologrammi di Star Trek. A volte è un laboratorio, a volte un paese, altre un tribunale o un parlamento e a volte un salotto dove si conversa. Qualche volta, naturalmente, è solo una classe.
Incoraggio gli studenti a farmi domande direttamente, via email o in forma anonima usando la popolarissima Question box. Le loro domande mi fanno capire che cosa li preoccupa e che cosa manca al mio insegnamento. Una collega di matematica ha adottato lo stesso sistema adattandolo alla sua materia, ma la sua scatola si chiama Panic box e gli studenti possono metterci le domande sui contenuti del corso che li mandano nel panico.
Riduco al minimo le lezioni teoriche e cerco per quanto posso di usare i programmi in un modo che consenta ai miei studenti un tipo di apprendimento basato sulla risoluzione di problemi (apprendimento per problemi) e l’esperienza diretta (apprendimento esperienziale). Quando ho cominciato, non sapevo come si chiamassero questi metodi. Nella maggior parte dei casi “costruisco la strada camminando”, cerco solo di creare esperienze di apprendimento significative per gli studenti.
Nei miei sogni, immagino che l’apprendimento basato sulla soluzione di problemi e sull’esperienza diretta sarà al centro di quello che si farà nelle scuole pubbliche in futuro.
E spero veramente, nonostante la campagna per tagliare fondi all’istruzione pubblica, che riusciremo a mantenerla in piedi. Nonostante i loro molti difetti, le scuole pubbliche sono ancora molto importanti. Non sono solo istituzioni che rilasciano un titolo di studio ufficialmente riconosciuto, sono anche spazi sicuri per quegli studenti che a casa hanno una vita difficile, sono oasi nei quartieri più pericolosi, sono i posti in cui molti studenti fanno il loro unico pasto quotidiano e in cui possono parlare con un adulto delle loro paure e preoccupazioni.
Le scuole pubbliche sono tra i pochi luoghi pubblici rimasti che funzionano come comunità, sono spazi per le persone, non per il profitto.
In quale altro posto al mondo un adolescente che per il suo sedicesimo compleanno riceve in regalo un’automobile da 30mila dollari può stare seduto vicino a uno che fa un pasto decente solo tre volte alla settimana?
Con tanti spazi comuni ormai occupati dalle aziende private, la scuola pubblica è vitale per molti studenti. È ancora la grande livellatrice, il luogo dove ragazzi che provengono da classi sociali diverse possono incontrarsi su un terreno comune.
È vero, il sistema dell’istruzione deve cambiare, ma intanto lavoriamo per ridargli slancio. Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca.
Cambiamo il sistema dall’interno.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Lizanne Foster è un’insegnante canadese e ha scritto questo articolo sul suo blog.


venerdì 8 agosto 2014

LE DUE GOCCE D’OLIO – Paulo Coehlo


Un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.
Invece di trovare un sant'uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un'attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c'era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.
Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.
“Nel frattempo, voglio chiederti un favore,” concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d'olio. “Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l'olio.”
Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.
“Allora,” gli domandò questi, “hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?”
Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d'olio che il Saggio gli aveva affidato.
“Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo,” disse il Saggio. “Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.”
Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d'arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d'arte era disposta al proprio posto. Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.
“Ma dove sono le due gocce d'olio che ti ho affidato?” domandò il Saggio.
Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.
“Ebbene, questo è l'unico consiglio che ho da darti,” concluse il più Saggio dei saggi. “Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza mai dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino.”
Paulo Coelho, L’alchimista, 1988, ed. it. Bompiani, Milano 1995, P. 45-47.


venerdì 28 marzo 2014

VUOI VOLARE? – Luis Sepùlveda


«Vuoi volare, signorina?» indagò Zorba.
Fortunata li guardò a uno a uno prima di rispondere.
«Sì. Per favore, insegnatemi a volare».
I gatti miagolarono la loro gioia e subito misero zampa al lavoro. Attendevano quel momento da molto tempo. Con tutta la pazienza che contraddistingue i gatti, avevano aspettato che la gabbianella comunicasse loro il suo desiderio di volare, perché grazie a un'ancestrale saggezza capivano che volare è una decisione molto personale.
Luis Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, 1996


giovedì 27 marzo 2014

SEI UNA GABBIANA – Luis Sepùlveda


Quella sera i gatti si stupirono che la gabbianella non venisse a mangiare il suo piatto preferito: i calamari che Segretario trafugava nella cucina del ristorante.
Molto preoccupati la cercarono, e fu Zorba a trovarla, triste e avvilita, fra gli animali imbalsamati.
«Non hai fame, Fortunata? Ci sono i calamari» spiegò Zorba.
La gabbianella non aprì becco.
«Ti senti male?» insisté preoccupato Zorba. «Sei malata?»
«Vuoi che mangi per farmi ingrassare?» domandò lei senza guardarlo.
«Perché tu cresca sana e forte» rispose Zorba.
«E quando sarò grassa, inviterai i topi a mangiarmi?» stridette con i lucciconi agli occhi.
«Da dove tiri fuori queste sciocchezze?» miagolò deciso Zorba.
Lì lì per scoppiare a piangere, Fortunata gli riferì tutto quello che Mattia le aveva strillato. Zorba le leccò le lacrime e all'improvviso si sentì miagolare come non aveva mai fatto prima.
«Sei una gabbiana. Su questo lo scimpanzé ha ragione, ma solo su questo. Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall'uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l'affetto tra esseri completamente diversi».
«Volare mi fa paura» stridette Fortunata alzandosi.
«Quando succederà, io sarò accanto a te» miagolò Zorba leccandole la testa. «L'ho promesso a tua madre».
La gabbianella e il gatto nero grande e grosso iniziarono a camminare. Lui le leccava teneramente la testa, e lei gli copriva il dorso con una delle sue ali tese.
Luis Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, 1996


lunedì 20 gennaio 2014

15. UN’ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA DELL’ALTRO MONDO – Anna Chiara Fontana



San Cristobal de las Casas - Chiapas
Forse sembreranno banalità ma fanno parte di un sistema diverso, in cui ai bambini si chiede se sono d’accordo rispetto alle attività proposte e li si ringrazia quando fanno qualcosa che gli viene chiesto di fare, anche raccogliere i colori che hanno fatto cadere loro.
Poi, per far vedere la scuola a Maya, facciamo un giro e passiamo dal gruppo dei grandi e da quello dei mediani e chiediamo loro quanti siano, infine andiamo in giardino a raccogliere le foglie per un’altra attività e di ritorno in classe questo diventa un problema per casa: quanti bambini e bambine ci sono nella scuola?
E tutto segue in un fluire che sarebbe impossibile programmare e infatti viene da sé, dalla volontà di far in modo che tutto diventi apprendimento, ma anche dal rispetto per i tempi dei bambini, per cui dopo aver scritto si fa un gioco da cui poi nasce l’attività successiva.
L’obiettivo di questi primi giorni è che si formi il gruppo, quindi ci contiamo, ci nominiamo, ci descriviamo, scriviamo i nostri nomi sulle foglie che abbiamo disegnato prendendo spunto da quelle del giardino e le usiamo per segnare le presenze, poi diamo un nome al gruppo che, per elezione popolare, si chiama “Stelle e lune diamante”.
Si respira un’aria calma di rispetto reciproco in questa scuola, nessuno urla e se qualche bambino alza la voce sono gli altri a chiedergli se per piacere può abbassare il tono. Questi bambini sanno giocare tutti insieme mettendosi d’accordo su ogni cosa senza litigare e sono sempre rimandati alle loro responsabilità. Ogni scelta è una loro responsabilità. Se qualcuno all’assemblea mattutina inizia a disturbare, semplicemente viene richiamato al motivo per cui ci si trova lì e può sempre scegliere di andarsene.
Tutto si decide a maggioranza e chi non è d’accordo, se non accetta, esce dal cerchio tranquillamente. A volte restano, pur un po’ irrequieti, altre volte lasciano il gruppo e aspettano che termini l’assemblea o un’altra accompagnante li porta con sé.

In cerchio la prima cosa che si fa è chiedere “come stai?” e le risposte “bene” o “male” vengono sempre rese più esplicite; poi si ascoltano altre esigenze e si fa un gioco, un canto o si lascia spazio ad un momento di spiritualità prima di dividersi nelle classi o nei saloni, come vengono detti qui, per le attività di scrittura o matematica. 

sabato 18 gennaio 2014

I FIGLI SONO COME GLI AQUILONI - Erma Bombeck (1927-1996)


I figli sono come gli aquiloni,
passi la vita a cercare di farli alzare da terra.

Corri e corri con loro
fino a restare tutti e due senza fiato…
Come gli aquiloni, essi finiscono a terra…
e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni.
Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri
che presto impareranno a volare.

Infine sono in aria:
gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne.
E a ogni metro di corda
che sfugge dalla tua mano
il cuore ti si riempie di gioia
e di tristezza insieme.

Giorno dopo giorno
l’aquilone si allontana sempre più
e tu senti che non passerà molto tempo
prima che quella bella creatura
spezzi il filo che vi unisce e si innalzi,
come è giusto che sia, libera e sola.

Allora soltanto saprai

di avere assolto il tuo compito.

lunedì 30 dicembre 2013

12. NOMI DELL’ALTRO MONDO – Anna Chiara Fontana


San Cristobal de las Casas - Chiapas
Ichi, Ix: questi nomi strani non sono i veri nomi dei bambini, infatti il primo giorno c’è stata una presentazione generale nella quale tutti hanno detto il proprio nome e anche come vogliono essere chiamati. 
Così Nogai ci dice che vuol essere chiamato “Chile empanizado” ossia peperoncino impanato e tutti ricordano il suo nome perché ci fa pure tanto ridere; il giorno successivo è comparso anche un formaggio impanato visto che Ezras, che non aveva scelto un soprannome, si è fatto contagiare dalla popolarità del suo compagno.
Giorni dopo alcuni di questi soprannomi sono caduti in disuso, ma è stato importante aver dato loro spazio.

Ho scoperto invece un nome bellissimo, Ixchel, che in maya è la dea della luna.

mercoledì 23 ottobre 2013

DOPO TONUCCI - Patrizia Malachin


E' ammirevole il messaggio che rivolge, a noi genitori, il dott. Tonucci (vedi post del 15 ottobre 2013).
Una volta le famiglie erano numerose, ogni casa pullulava di pargoli da accudire e da sfamare. I padri lavoravano nei campi fino a sera, le madri governavano la casa, le sorelle maggiori badavano ai fratelli più piccoli, i ragazzini più grandicelli si arrangiavano a rendere avventurosa la loro giornata.
I genitori di un tempo erano meno presenti, meno partecipativi, meno sentinelle asfissianti, ma ugualmente educatori amorevoli.
I figli di un tempo crescevano fra la miseria, la precarietà e la scarsità delle cure mediche, ma ugualmente fanciulli vivaci, forti e carichi di emozioni.
Una volta, i figli erano più liberi, e gli adulti ci tenevano a lasciare loro uno spazio di crescita autonoma. Ma era una libertà nella sicurezza nell'ambiente in cui si viveva.
Oggi siamo genitori antagonisti rispetto ai nostri predecessori: siamo convinti di essere "genitori migliori" e maggiormente responsabili nei confronti della nostra prole solo se estendiamo la nostra presenza, ombra, in ogni loro minimo vissuto.
Se non ci comportassimo così, verremmo additati come educatori irresponsabili, disattenti, menefreghisti.
Così siamo giunti a iperproteggere i figli per proteggerci dai giudizi altrui e dalle nostre esagerate paure.
Proteggendo troppo, li soffochiamo e li priviamo di vivere anche le sensazioni dure, amare e dolorose della vita.

Patrizia Malachin, genitore

martedì 15 ottobre 2013

LASCIAMOLI LIBERI – Francesco Tonucci


Nel 1970 andavano a scuola a piedi e da soli l`80% dei bambini inglesi dai 6 agli 11 anni, nel 1990 solo il 10%.
Da recenti ricerche del CNR risulta che in Italia vanno a scuola a piedi senza essere accompagnati il 12% dei bambini di scuola elementare mentre il 70% viene accompagnato in macchina.
Le percentuali di autonomia calano all`8% al nord e crescono al 30% al sud; sono più basse quando i genitori hanno un titolo di studio più alto. Altre ricerche italiane ci dicono che solo il 50% dei ragazzi di scuola media va a scuola senza l’accompagnamento adulto. Questa situazione dà luogo a situazioni assurde: i nostri ragazzi ricevono il motorino senza mai aver sperimentato la libertà e la responsabilità di spostarsi senza il controllo degli adulti.
I bambini vivono la loro giornata fra scuola, casa, corsi pomeridiani e TV; sono sempre assistiti e vigilati da adulti, sia a scuola che nelle attività pomeridiane. È diventato per loro impossibile vivere esperienze di scoperta, esplorazione e avventura: è quindi per loro impossibile una vera esperienza di gioco. L`adulto che accompagna il bambino nelle varie tappe della sua giornata non può permettergli di correre rischi, ma il rischio è una condizione necessaria per procedere nello sviluppo delle capacità e delle competenze.
Affrontando gli ostacoli e mettendo alla prova le sue competenze, il bambino non si espone mai al di là delle sue capacità e può provare la soddisfazione del superamento delle varie prove. Non potendo mai correre rischi per la presenza vigile degli adulti, il bambino non può verificare e consolidare le sue capacità e competenze e accumula un grande desiderio di rischio inespresso che rischia di esplodere anche in forme pericolose quando il controllo dell`adulto non sarà più possibile.
L`unica possibilità per i bambini di sperimentare le loro capacità, esplorare l’ambiente, scoprire cose nuove, elaborare criteri di controllo del rischio, norme di organizzazione del tempo e dello spazio è che possano avere periodi di tempo nei quali incontrarsi fuori casa, con altri bambini e senza la presenza di adulti incaricati della loro sorveglianza.
Andare a scuola con i compagni e non con i genitori, uscire nel pomeriggio per giocare, andare al negozio per fare compere, andare da soli in piscina, vanno considerate esperienze di grande valore.
È importante che l`autonomia dei bambini cresca con loro a partire dai primi giorni di vita e senza mai interrompersi: meglio una coperta del box, perché dalla coperta si può uscire e dal box no; più tardi uscirà dalla porta di casa per giocare sulle scale o sul pianerottolo, poi in cortile, poi sul marciapiedi e poi sempre più lontano man mano che le sue capacità glielo permetteranno.
Questi momenti di organizzazione autonoma del tempo e dello spazio permetteranno anche di muoversi liberamente evitando il rischio di obesità, di elaborare meccanismi di controllo dello spazio, del tempo e di difesa di fronte ai pericoli, indispensabili per evitare i troppo frequenti incidenti dell`adolescenza.
Francesco Tonucci, “Un pediatra per amico”, n. 4, luglio-agosto 2011


domenica 14 luglio 2013

SAGGEZZA - Farid al-Din 'Attar (1145-1220)


Accettato, non prendere la cosa come un trionfo,
respinto, non ritenerti mai sconfitto.

Farid al-Din 'Attar (1145-1220)

lunedì 19 novembre 2012

LA FUGA DEL CAMMELLO - Arturo Paoli



Andavamo in carovana, guidati da nomadi, buoni conoscitori del deserto, con una truppa di cammelli che portavano gli elementi necessari per innalzare una tenda sotto cui passare la notte, le vettovaglie e l'acqua.
Tutte le mattine - immancabilmente - un cammello a turno fuggiva lontano e si sottraeva al suo lavoro quotidiano. Ci avevano avvisato di non corrergli dietro cercando di acchiapparlo, di non gridare, di lasciarlo partire tra l'indifferenza generale; di considerarlo, insomma, come un turista che si separa dal gruppo organizzato perché vuol vivere una giornata libera da programmi.
Passato il mezzogiorno si scorgeva un punto all'orizzonte che si avvicinava sempre di più: il fuggitivo tornava. Quando, dopo alcune ore dall'apparizione, il fuggitivo era abbastanza vicino al gruppo, un arabo si avvicinava a lui dolcemente, senza grida, senza recriminazioni, senza alzare le mani, e cominciava a camminargli accanto cantando sommessamente. E questo accompagnamento durava fino all'arrivo di tappa.
Il giorno dopo il transfuga di ieri era quello che offriva per primo il suo dorso, e un altro fuggiva.
Arturo Paoli, La pazienza del nulla, Milano 2012, p. 59-60.
Arturo Paoli (Lucca, 30 novembre 1912) è un missionario italiano, appartenente alla congregazione dei Piccoli Fratelli di Gesù. È Giusto tra le Nazioni per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati durante la seconda guerra mondiale.

mercoledì 7 novembre 2012

L'APPRENDIMENTO PER PROBLEMI - Luigi Berlinguer



Essere autonomo significa darsi da fare di più, proporsi un risultato di successo, fondarlo sullo stimolo partecipativo e quindi sul sapere come conquista: in una scuola come permanente laboratorio e permanente innovazione, con un apprendimento per problemi e non per sola articolazione disciplinare.
A questo scopo, la scuola deve essere strumento di ascesa sociale per i cittadini e di promozione del talento di ciascuno. Quindi non solo una “scuola del recupero”, ma anche una scuola di valorizzazione delle capacità personali e delle eccellenze. Uno sforzo molto impegnativo che, oltre a interventi di tipo strutturale e di ridisegno complessivo, richiederà un’azione incisiva dei docenti chiamati a mettere in atto metodologie didattiche innovative.
Credo che un obiettivo assai urgente e necessario sia una campagna di investimento professionale (che brutta parola la “formazione” in servizio) con docenti e dirigenti, fondata sui temi della revisione della metodologia didattico-disciplinare con forti elementi di verifica del risultato e della soddisfazione dei partecipanti, sempre e tempestivamente, cui devono seguire conseguenti misure.
Non aspettiamoci che la scuola cambi dall’alto, di questi tempi. Cambia se le scuole e i loro “territori” si muovono. Anche grazie all’autonomia, che – appunto – è creatività.
D’altro canto, ricordate: ciò che non è espressamente vietato è consentito.
Luigi Berlinguer, L’autonomia incompiuta, “Dirigere la scuola”, XXI (2012), n. 4-5-6 

martedì 6 novembre 2012

VI PUO' ESSERE QUALITA' NELLA SCUOLA DELL'EQUITA'? - Luigi Berlinguer



L’autonomia soffre della discriminazione sociale nella scuola, ma anche della caduta di qualità; soffre se non si realizza l’equità, ma anche se i risultati scolastici non sono buoni. In tal caso i ceti più deboli possono conseguire vantaggi formali, l’illusione di inclusione, ma poi riemergono gli svantaggi; sono ammessi a scuola ma non imparano.
Il segreto sta nel coltivare, assicurare la qualità nella scuola per tutti. Tutti hanno diritto di imparare al massimo delle proprie potenzialità e non al minimo. L’inclusione non è un’elemosina, non è la carità.
Come può realizzarsi questo?
  1. Ponendo al centro l’apprendimento.
  2. Rispettando le diversità degli allievi: vocazioni, attitudini, stili cognitivi, interessi culturali, propensioni professionali. E quindi individualizzando insegnamento e apprendimento.
  3. Moltiplicando la motivazione, e quindi l’impegno e il gradimento studentesco, aumentando così anche la responsabilizzazione.
  4. Modellando gli strumenti didattici su queste diversità e stimolando la partecipazione.

Luigi Berlinguer, L’autonomia incompiuta, “Dirigere la scuola”, XXI (2012), n. 4-5-6 

lunedì 5 novembre 2012

LA CRESCITA NEL RIGORE - Luigi Berlinguer



La grande forza dell’autonomia scolastica sta nell’orientare il corpo docente e dirigente a misurarsi continuativamente con la ricerca didattica e l’innovazione nelle pratiche educative, e non con la pura trasmissione del sapere.
Valutare, verificare il risultato educativo significa non limitarsi al voto, alla promozione o alla bocciatura. Significa affermare la cultura del risultato, e con essa rafforzare la motivazione studentesca, e la disciplina. Il binomio rigore/crescita è un principio universale della società dei liberi e della democrazia partecipativa. Lo studente non è solo chi studia, ma – come diceva la Montessori – chi impara a fare da solo. Questa è l’autonomia.
Le regole di comportamento sono indispensabili. Ma è la partecipazione educativa che le rende più condivise e quindi più accette. La disciplina è innanzitutto responsabilizzazione e corresponsabilizzazione. Ciò non esclude la sanzione, ma la reinserisce in un contesto che le assicura maggiore efficacia, oltre che prevenzione. E la responsabilizzazione diviene effetto di una nuova concezione e pratica gestione della comunità educante, che dà fiducia e sa pretendere.
Luigi Berlinguer, L’autonomia incompiuta, “Dirigere la scuola”, XXI (2012), n. 4-5-6 

mercoledì 27 giugno 2012

IL FALCO PIGRO - Bruno Ferrero


Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.
"E l'altro?" chiese il re.
"Mi dispiace, sire, ma l'altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell'albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli cibo".
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco.
Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull'albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino.
"Portatemi l'autore di questo miracolo", ordinò.
Poco dopo gli presentarono un giovane contadino.
"Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?" gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: "Non è stato difficile, maestà. Io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali e ha incominciato a volare".

Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali
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