Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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lunedì 18 settembre 2017

LA BICICLETTA – Francesco Callegari


Era una delle prime “americane”. Me la ricordo ancora, azzurra, dal grosso telaio metallizzato, con i larghi parafanghi cromati e il cavalletto, portapacchi dappertutto e le manopole di gomma al manubrio.
Erano i primi anni Sessanta e abitavamo da poco nel silenzioso villino di fine Ottocento, con la facciata ricoperta d’edera. Da tanto tempo ormai quella casa non udiva più risa e pianti di bambini, e ora quel luogo sembrava ritornato in vita: gli schiamazzi risuonavano in tutto il palazzo mentre giocavamo a rincorrerci e a perderci, su e giù per le scale in pietra, fra stanze altissime, soffitte e cantine.
Al piano terra, in un locale scuro che sembrava una specie di deposito, erano custodite le biciclette. Lì entravamo per ammirare l’’”americana”, che torreggiava splendida in mezzo alle altre, scialbe e nere, appoggiate al tavolo o lungo le pareti. A occhi aperti, sognavamo viaggi sulle ali del vento, perché una bici così non poteva che andare velocissima. Era la bici nuova della mamma. Mio padre gliel’aveva comprata una volta perse tutte le speranze di farle prendere la patente.
E mamma volava veramente sulla sua bici, lasciando dietro di sé una scia d’azzurro e d’argento. Volava con il suo sorriso di donna giovane, sicura della vita e dell’amore. Volava con i pensieri leggeri volti al suo uomo e ai suoi bambini. Più avanti, la vita le si sarebbe fatta dura e la ruggine avrebbe rovinato le cromature. Più avanti. Ma, per il momento, la bici splendeva e la vita prometteva solo aria fresca tra i capelli al vento. 

Auguri mamma

mercoledì 28 dicembre 2016

STUPORE – Leonardo Lucco


Questo è il sessantesimo Natale che percorro e in questi giorni ho pensato molto al fatto che non mi coinvolge più.  Tutto mi sembra vecchio, trito e ritrito. Al lavoro tutti i clienti devono finire entro Natale quello che si è iniziato da tempo, serpentoni di auto corrono da un centro commerciale all’altro per regali che non vengono in mente e una strana frenesia si impossessa anche di persone normalmente tranquille.
Era così anche per i Natali che ho trascorso?
Da piccolo, il Natale era la Messa di mezzanotte con luci soffuse e cori di Astro del ciel e Adeste Fideles. Al mattino lo stupore di regali che non immaginavo e poi l’odore dei mandarini e quel gran lusso dei bagigi. Tutto era permeato di una magia che il diventare adulto ha a poco a poco scemato.
Quello che vagava nei sogni e nel pensare era solo mio e a volte diventava reale, che Magia!
Se penso oggi a cosa desidero, faccio fatica a focalizzare un oggetto o un sogno, mi sembra di avere tutto e forse non ho niente, ma un niente che mi piace.
Come regalo di Natale vorrei riavere i miei sogni e attraversarli senza ostacoli e cattiverie.
Vorrei ritrovare lo stupore di un dono inaspettato e gli odori dell’infanzia.
Per Natale vorrei mandare un bacio a tutte quelle persone che in una vita sembrano sullo sfondo, i miei zii che non ci sono più, che arrivavano con verdure dell’orto e due salami (sai ne abbiamo fatto in più quest’anno), quando eravamo solo la Mamma e Licia e Mauro e da poco papà ci aveva lasciato. I miei nonni che ho conosciuto poco e poi tutte quelle persone che incontro e che hanno un piccolo gesto gentile, un sorriso, quell’umanità “normale” che sorregge tutti.
Sono tante piccole stelle anonime del firmamento e ti accorgi di loro solo quando si spengono, ma nella mappa del creato rimangono intorno a te.
E poi un caloroso Buon Natale agli amici che spesso non si vedono ma si sentono, stendi una mano di fianco e li tocchi, anche se non sono lì.
Buon Natale, Leonardo (o, come nei sogni di bambino, Nano).

Leonardo Lucco

domenica 3 aprile 2016

AUGURI DA UN AMICO – Leonardo Lucco


Ho girato lo sguardo su Nicolò seduto a fianco e ho visto i suoi occhi da piccolo uomo perdersi nel vuoto, seguendo paesaggi e futuro che io non vedevo. Ho pensato a cosa starà fantasticando, dove sarà la sua mente. Sicuramente in mondi di felicità, giochi e lieve malinconia e tanti futuri possibili.
Quando avevo quattordici anni avevo anch’io lo sguardo perso e pensavo a cosa sarei diventato, che strade avrei percorso, che vita avrei potuto avere. Quale universo avrei vissuto?
Nel 1970 non riuscivo ad immaginare come sarei stato a sessant’anni nel duemilasedici. Pensavo a cosa avrei potuto scegliere , se fossi stato ricco o povero, sposato o no, (a figli non riuscivo proprio ad immaginare) ancora in buona salute e magari se fossi stato ancora vivo.
Oggi posso dire che l’universo in cui vivere era solo questo, le scelte le ho fatte ma tante sono state obbligate dalla catena umana che vive intorno a me, che ti vuole bene, che non ti sopporta, alla quale tu non interessi, quella che ti ama, quella che ti stima, quella che è felice per i tuoi traguardi e quella a cui non frega niente di te e di nessuno.
Fra tutto questo ci sono i punti fermi, la famiglia, i nipoti, le persone che ho amato e non ci sono più, le persone che ho amato e che un universo parallelo ha risucchiato via, le persone che amo e che mi sono attorno. Poi gli amici, pochi, che so essere presenti sempre, anche quando non ci si vede per un po’ di tempo, ma hanno un segno sulla mia anima che vibra ogni volta che un pensiero li sfiora e che ad ogni incontro, nel tempo e nello spazio, portano leggerezza e calore.
Leonardo Lucco, amico


sabato 13 dicembre 2014

IL PERDONO – Massimo Gramellini


Non esiste una gomma per cancellare i ricordi.
Però esiste qualcosa che può ripulirli da tutto il dolore che contengono.

Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, p. 115.

sabato 30 agosto 2014

INTELLIGENZA EMOTIVA 2. ESSERE PRONTI A PERDONARE, MA NON A DIMENTICARE - Travis Bradberry


L e persone emotivamente intelligenti sono pronte a perdonare, ma non per questo dimenticano tutto. Il perdono consente di accantonare quello che è successo in modo da poter andare avanti, ma il ricordo aiuta a non ritrovarsi ancora inutilmente impantanati a causa degli errori altrui.
Travis Bradberry, autore di Intelligenza emotiva 2.0 , ci parla delle nove trappole che le persone emotivamente  intelligenti evitano accuratamente.

Tratto da Forbes

sabato 23 agosto 2014

LE PAROLE DEL FIGLIO (1) - Paulo Coelho


Nell'antica Roma, all'epoca dell'imperatore Tiberio, viveva un uomo di grande bontà, che aveva due figli: uno era militare e, dopo essere entrato nell'esercito, era stato inviato nelle regioni più lontane dell'Impero. L'altro figlio era poeta e incantava tutta Roma con i suoi versi magnifici.
Una notte, il vecchio fece un sogno. Gli apparve un angelo, annunciandogli che le parole di uno dei suoi figli sarebbero state conosciute e ripetute nel mondo intero, per tutte le generazioni a venire. Quella notte, il vecchio si svegliò pieno di gratitudine, piangendo perché la vita era generosa e gli aveva rivelato una cosa che ogni padre sarebbe stato orgoglioso di conoscere.
Poco tempo dopo, il vecchio morì nel tentativo di salvare un bambino che stava per essere schiacciato dalle ruote di un carro. Poiché si era comportato in maniera corretta e giusta per tutta la vita, salì direttamente in cielo, dove incontrò l'angelo che gli era apparso in sogno.
“Sei stato un uomo buono,” gli disse l'angelo. “Hai vissuto la tua vita con amore e sei morto con dignità. Adesso posso realizzare qualunque desiderio tu abbia.”
“Anche la vita è stata buona con me,” rispose il vecchio. “Quando mi sei apparso in sogno, ho avvertito che tutti i miei sforzi erano giustificati. Perché i versi di mio figlio rimarranno fra gli uomini per i secoli futuri. Non ho nulla da chiedere per me: ogni padre, tuttavia, sarebbe orgoglioso di vedere la fama di qualcuno di cui si è preso cura quando quello era bambino, e che ha educato da giovane. Mi piacerebbe conoscere, nel lontano futuro, le parole di mio figlio.”
Paulo Coelho, L’alchimista, 1988, ed. it. Bompiani, Milano 1995, P. 172-173.

continua domani…

giovedì 5 giugno 2014

AGLAURA - Italo Calvino (1923-1985)


Poco saprei dirti di Aglaura fuori delle cose che gli abitanti stessi della città ripetono da sempre: una serie di virtù proverbiali, d'altrettanto proverbiali difetti, qualche bizzarria, qualche puntiglioso ossequio alle regole.
Antichi osservatori, che non c'è ragione di non supporre veritieri, attribuirono ad Aglaura il suo durevole assortimento di qualità, certo confrontandole con altre città dei loro tempi. Né l'Aglaura che si dice né l'Aglaura che si vede sono forse molto cambiate da allora, ma ciò che era eccentrico è diventato usuale, stranezza quello che passava per norma, e le virtù e i difetti hanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtù e difetti diversamente distribuiti.
In questo senso nulla è vero di quanto si dice di Aglaura, eppure se ne trae un'immagine solida e compatta di città, mentre minor consistenza raggiungono gli sparsi giudizi che se ne possono trarre a viverci. Il risultato è questo: la città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno.
Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi a quanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che è una città sbiadita, senza carattere, messa lì come viene viene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore, in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifico; vorresti dire cos'è, ma tutto quello che s'è detto di Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire.
Perciò gli abitanti di Aglaura credono sempre di abitare un'Aglaura che cresce solo sul nome Aglaura e non si accorgono dell'Aglaura che cresce in terra. E anche a me che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell'una, perché il ricordo dell'altra, mancando le parole per fissarlo, s'è disperso. 

Italo Calvino, Le città invisibili, p. 73-74

sabato 24 maggio 2014

NONNO NISTO. CLASSE 1895 – Franco Trevisan


Abbracciami nonno
come non mi ricordo
e raccontami le guerre
che mai ti ho sentito raccontare.

Abbracciami
come non mi ricordo
e raccontami le tue guerre
quelle che ti scorrevano
lente
negli occhi
come il Piave
come il dolore che non trova il mare.

Raccontami
la terra
squarciata
esplosa
la terra arata
la terra del frumento
della salvia del prato.
Terra
accarezzata
graffiata
terra urlata
terra delle ginocchia piegate
delle mani pietose
terra amata
terra del pianto
silenzioso
ignorato.
Dimmi che avevi
il coraggio
dell’assalto
della baionetta.
Dimmi che cercavi
nella luna
la strada di casa.
Dimmi che il sole dell’alba
cancellava le lacrime
che sapevano di latte appena munto.

Abbracciami nonno
come non mi ricordo
e raccontami il fiume che incontra il mare.


Franco Trevisan

giovedì 22 maggio 2014

SUOCERI – Diego De Silva



Il suocero, proprio come genere, è uno che è stato per definizione: lavoratore e lavoratrice, marito e moglie, madre e padre, più una moltitudine di sottofunzioni e vicariati di svariata natura svolti nel corso dell’esistenza. Ha ricoperto così tanti incarichi che quando raggiunge lo status di suocero è un po’ come se diventasse senatore a vita. E’ ex in quanto suocero, insomma. Tant’è che la sua massima (e ultima) aspirazione è diventare nonno (che poi significa raccontare la sua vita ai nipotini e dunque, ancora una volta, comportarsi da ex).
Diego De Silva, Mia suocera beve, Einaudi, Torino 2010.


mercoledì 14 maggio 2014

RIMPIANTO – Mariapia Veladiano


Di non aver detto. Di aver urlato i fatti senza conoscere le ragioni. Di non aver creduto o di aver dissipato il credere d'altri. In noi. Il credere in noi. Di aver giurato, promesso, glissato. Governato una vita prudente, in cui ogni natività prometteva uno sconquasso e non è stato difficile trovare silenziosi Erodi in ogni tempo, nostri compagni di omissione. Di aver pensato male, incatenati a un sentire comune che sa per comune ignoranza.
Di non essere stati abbastanza vivi ogni giorno.
Di non aver confessato a nessuno mai il nostro desiderio. Di aver mentito raccontandoci di non aver visto il desiderio degli altri. Né il bisogno.
E non aver cantato mai nessun canto, per paura, superbia, pigrizia. In difesa noi, per gli altri offesa.
Sobbalzare a ogni affiorare di figura dall'indistinto dell'ombra. Senza saper davvero piangere. E immaginare di poter credere che questo sia forza, concreto tenere i confini del mondo. Tutto intero, colonne per noi stessi.
Ed esser grati al rimpianto, che di colpo ci riconsegna al giorno che viviamo, al riaffiorare non di tutte le possibilità, ma di questa presente, al bene da prendere e dare. A tutto ciò che potremo portare con noi, senza più paura di guardare quel che è stato.
Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti, vita, Torino, Einaudi, 2013, p. 14.


lunedì 17 marzo 2014

IL TRENO DELLA VITA - Anonimo


La vita è come un viaggio in treno con le sue stazioni, i suoi cambi, i binari, i suoi incidenti. Nel nascere saliamo in treno e ci troviamo con i nostri genitori e crediamo che sempre viaggeranno al nostro fianco, ma in qualche stazione loro scenderanno lasciandoci viaggiare da soli.
Nello stesso modo nel nostro treno saliranno altre persone significative: i nostri fratelli, amici, figli e anche l'amore della nostra vita. Molti scenderanno e lasceranno un vuoto permanente... altri passeranno inosservati!
Questo viaggio sarà ricco di gioie, dispiaceri, fantasie, attese e saluti. La riuscita di questo viaggio consiste nell’avere una buona relazione con tutti passeggeri, nel dare il meglio di noi stessi.

Il grande mistero è che non sappiamo in quale stazione scenderemo, per questo dobbiamo vivere nel migliore dei modi, amare, perdonare, offrire il meglio di noi. Così quando arriverà il momento di scendere lasceremo dei bei ricordi agli altri passeggeri.

martedì 4 febbraio 2014

UN CLARINETTO NEL LAGER - Aldo Valerio Cacco



Aldo Valerio Cacco, prigioniero nei campi di concentramento di Fürstenberg e Nordhausen tra il 1943 e il 1945, grazie al suo clarinetto, con cui suonava Lily Marleen e altre arie musicali conosciute, riuscì a sopravvivere e a ritornare a casa.
«Qui più il tempo passa più si allontana la speranza di rimpatriare. Proprio ora entra un soldato del campo e vuole che suoni: ho suonato circa 20 minuti e per premio mi ha dato una razione di pane, un pezzetto di burro e 2 sigarette. Meglio di così non poteva andare. [...] Per adesso il clarino non lo vendo perché è facile che questa settimana mi porti qualche cosa da mangiare».
Ora è il momento di mettere nero su bianco il racconto della sua tragica esperienza… per non dimenticare.

Aldo Valerio Cacco, Un clarinetto nel Lager. Diario di prigionia 1943-1945, a cura di Patrizio Zanella, Padova 2013

Autore

Valerio Cacco (1924), soldato dell'Esercito Italiano, catturato dopo l'8 settembre ’43, fu deportato in Germania e internato nel lager III B di Fürstenberg in Turingia e poi in quello di Nordhausen. Grazie alla musica e al suo clarinetto, che ancora conserva, riuscì a sopravvivere e a tornare a casa. 
Nel 1985 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli conferì il diploma d'onore di «Combattente per la libertà d'Italia 1943-1945», definendolo «internato militare non collaborazionista».

LAGER - Francesco Guccini




Cos'è un lager?
E' una cosa nata in tempi tristi, dove dopo passano i turisti,
occhi increduli agli orrori visti... "non gettar la pelle del salame!"...
Cos'è un lager?
E' una cosa come un monumento e il ricordo assieme agli anni è spento,
non ce n'è mai stati, solo in quel momento, l'uomo in fondo è buono, meno il nazi infame!
Ma ce n'è, ma c'è chi li ha veduti o son balle di sopravvissuti?
Illegali i testimoni muti, non si facciano nemmen parlare!
Cos'è un lager?

Sono mille e mille occhiaie vuote, sono mani magre abbarbicate ai fili,
son baracche, uffici, orari, timbri e ruote, son routine e risa dietro a dei fucili,
sono la paura, l'unica emozione, sono angoscia d'anni dove il niente è tutto,
sono una pazzia ed un'allucinazione che la nostra noia sembra quasi un rutto,
sono il lato buio della nostra mente, sono un qualche cosa da dimenticare,
sono eternità di risa di demente, sono un manifesto che si può firmare...

E un lager, cos'è un lager?
Il fenomeno ci fu. E' finito! Li commemoriamo, il resto è un mito!
l'hanno confermato ieri giù al partito, chi lo afferma è un qualunquista cane!
Cos'è un lager?
E' una cosa sporca, cosa dei padroni, cosa vergognosa di certe nazioni,
noi ammazziamo solo per motivi buoni... quando sono buoni? Sta a noi giudicare!
Cos'è un lager?
E' una fede certa e salverà la gente, l'utopia che un giorno si farà presente
millenaria idea, gran purga d' occidente, chi si oppone è un giuda e lo dovrai schiacciare!
Cos'è un lager?

Son recinti e stalli di animali strani, gambe che per anni fan gli stessi passi,
esseri diversi, scarsamente umani, cosa fra le cose, l'erba, i mitra, i sassi,
ironia per quella che chiamiam ragione, sbagli ammessi solo sempre troppo dopo,
prima sventolanti giustificazioni, una causa santa, un luminoso scopo,
sono la furiosa prassi del terrore sempre per qualcosa, sempre per la pace,
sono un posto in cui spesso la gente muore, sono un posto in cui, peggio, la gente nasce...

E’ un lager...
E' una cosa stata,
cosa che sarà, può essere in un ghetto, fabbrica, città,
contro queste cose o chi non lo vorrà, contro chi va contro o le difenderà,
prima per chi perde e poi chi vincerà, uno ne finisce ed uno sorgerà
sempre per il bene dell'umanità, chi fra voi kapò, chi vittima sarà
in un lager?

Francesco Guccini, Lager!, “Metropolis”, 1981

venerdì 17 gennaio 2014

IMPARA LA VISPA TERESA - Umberto Eco


Caro nipotino mio,
non vorrei che questa lettera natalizia suonasse troppo deamicisiana, ed esibisse consigli circa l’amore per i nostri simili, per la patria, per il mondo, e cose del genere. Non vi daresti ascolto e, al momento di metterla in pratica (tu adulto e io trapassato) il sistema di valori sarà così cambiato che probabilmente le mie raccomandazioni risulterebbero datate.
Quindi vorrei soffermarmi su una sola raccomandazione, che sarai in grado di mettere in pratica anche ora, mentre navighi sul tuo iPad, né commetterò l’errore di sconsigliartelo, non tanto perché sembrerei un nonno barbogio ma perché lo faccio anch’io. 
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