Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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giovedì 6 ottobre 2016

L’ULTIMO ATTO SULLA TERRA - Carlos Castaneda (1925-1998)


“Gli atti hanno potere”, disse. “Specialmente quando la persona che agisce sa che quegli atti sono la sua ultima battaglia. C’è una strana e struggente felicità nell’agire sapendo perfettamente che tutto quello che si fa può essere l’ultimo atto sulla terra. Ti raccomando di riconsiderare la tua vita e forse i tuoi atti in questa luce”.
Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan. Le lezioni di don Juan, Astrolabio, Roma 1973, 86.


venerdì 30 settembre 2016

IL PIU’ SAGGIO CONSIGLIERE - Carlos Castaneda (1925-1998)



La morte è il solo saggio consigliere che abbiamo. Ogni volta che senti, come a te capita sempre, che tutto va male e stai per essere annientato, rivolgiti alla tua morte e chiedile se è proprio così. Lei ti dirà che stai sbagliando, che in realtà niente conta al di fuori del suo tocco. La morte ti dirà “Non ti ho ancora toccato”.
Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan. Le lezioni di don Juan, Astrolabio, Roma 1973, 43.


mercoledì 18 novembre 2015

LE STESSE LACRIME - Francesco Callegari


Lo stesso piombo di Beirut e di Parigi ha lacerato la nostra mente 
e il nostro cuore.

Mogli e fratelli, figlie e mariti sono pianti da lacrime 
dello stesso colore.


giovedì 7 maggio 2015

TIENI STRETTA OGNI ORA - Seneca


Chi potrai indicarmi che attribuisca un giusto valore al tempo, che tenga in pregio la giornata, che capisca di morire un po’ ogni giorno? In questo ci inganniamo: vediamo la morte davanti a noi: gran parte di essa, invece, è già dietro di noi; ogni momento passato è nel dominio della morte. Lucilio mio, fa così come mi scrivi che stai facendo: tieni stretta ogni ora; dipenderai meno dal domani, se ti impadronirai dell’oggi. Mentre si continua a rimandare, la vita se ne va.

Seneca, Lettere a Lucilio in Seneca, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani 2000.

venerdì 6 febbraio 2015

QUANDO TI BRUCIANO VIVO – Deborah Dirani


C'erano questi nuotatori dell'aria che muovevano braccia e gambe in una lotta già persa con la terra che li aspettava. Era l'11 settembre 2001 e loro erano i lavoratori dei piani alti delle Twin Towers: uomini e donne che usando tutta la razionalità che rimaneva ancora loro sceglievano (accidenti, sceglievano) di fiondarsi giù da una finestra e morire schiantati con la faccia al suolo piuttosto che bruciare vivi.
Sceglievano una morte certa a una che, forse, lo era meno. Sapevano cosa li attendeva parecchie decine di metri più sotto. Intuivano cosa li aspettava se fossero rimasti chiusi nelle loro stanze col fuoco che, un minuto dopo l'altro, si mangiava le pareti.
Io quei corpi che nuotavano in quella vasca fumosa che era il cielo di New York non sono mai riuscita a dimenticarli. Non riesco a dimenticare la disperazione di chi arriva a scegliere una morte piuttosto che un'altra. E oggi, cercando di incrociare i miei occhi con quelli che mi offriva il fotogramma di un ragazzo giordano di cui fino a un mese fa ignoravo l'esistenza, ho pensato a quei nuotatori che hanno preferito il vuoto alle fiamme.
Provate, io l'ho appena fatto, a passare un dito sopra il fuoco di un accendino: un male infame. Basta la frazione di un secondo per tirare giù il cielo di sacramenti, dal male che fa.
E adesso chiudete gli occhi e provate a immaginare quel dolore replicato all'infinito. Quel dolore che parte dai vostri piedi, si arrampica veloce su per i vostri vestiti imbevuti di un accelerante qualsiasi, che vi avvolge le gambe. Iniziando dalle caviglie si insinua fino alle cosce e poi su agli organi genitali. Brucia i vostri peli, uno dopo l'altro ma voi non potete distinguerne la sequenza temporale. Sentite quel male infame e la puzza che lo accompagna. Se la fortuna (a volerla proprio chiamare così) vi viene in soccorso i vostri neurorecettori del dolore mandano tutto a quel paese e vi regalano il sollievo dello stato di shock. Se invece la vostra soglia di sopportazione del dolore è drammaticamente alta, avrete modo di sentire il fuoco che vi trapassa la carne, ve la strappa via un lembo dopo l'altro e continua a salire arrivando alla pancia, alla schiena, al petto, al collo. Le mani ve le ha già prese: ve le ha prese quasi subito perché quel poco di istinto di sopravvivenza che vi rimane, dopo avervi fatto piegare sulle ginocchia, vi spingerà a cercare di fermare il dolore delle fiamme premendo le mani sulle parti del vostro corpo che bruciano. L'istinto di sopravvivenza si arrende all'evidenza: le vostre mani sono infuocate. Proverete a rotolarvi a terra, meglio se sabbiosa, ma quella terra sarà imbevuta di quello stesso liquido accelerante che avete addosso e così anche l'ultimo tentativo di sopravvivere al fuoco si spegnerà (solo lui, il fuoco no).
Per tutto il tempo di questa inconcepibile agonia avrete urlato con una voce sconosciuta: non può certo essere la vostra voce quel suono belluino che nasce dalle viscere più profonde. Urla senza lacrime, o se ci saranno, le lacrime saranno quelle provocate dal fumo che nasce da voi e vi avvolge.
E ora riaprite gli occhi e pregate che ogni guerra finisca. Che finiscano le rappresaglie veterotestamentarie che oggi hanno appeso per il collo una donna senza dio, giustiziata in fretta e furia: per uno dei miei, uno dei tuoi.
Perché se continueremo così a uno dei miei, uno dei tuoi, un giorno dopo l'altro, potrà arrivare il giorno in cui a bruciare (a occhi aperti) saremo noi.
Che riposi in pace quel ragazzo, che riposi in pace la donna uccisa per pareggiare una contabilità diabolica. Che riposino in pace tutti: perché io non riesco a vedere l'origine di questo ennesimo male dell'umanità. E non so distribuire colpe o ragioni. So solo contare i morti.
Deborah Dirani, Quando ti bruciano vivo, “L’Huffington Post”, 4 febbraio 2015


giovedì 27 novembre 2014

SOLO ANDATA - Erri De Luca


Le coste del Mediterraneo si dividono in due,
di partenza e di arrivo, però senza pareggio:
più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco,
toccano Italia meno vite, di quante salirono a bordo.
A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa.
Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria.

Erri De Luca, Solo andata, Feltrinelli, Milano 2005-2014

giovedì 25 settembre 2014

CONTRO TUTTE LE GUERRE - Papa Francesco


La guerra è solo una sconfitta per l'umanità, la guerra porta solo morte. 
In ogni violenza e in ogni guerra facciamo rinascere Caino.
Finisca il rumore delle armi! Abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata.

Papa Francesco, San Pietro, 7 settembre 2013

lunedì 4 agosto 2014

IL RE CHE DOVEVA MORIRE – Gianni Rodari (1920-1980)


Una volta un re doveva morire. Era un re assai potente, ma era malato a morte e si disperava: - Possibile che un re tanto potente debba morire? Che fanno i miei maghi? Perché non mi salvano?
Ma i maghi erano scappati per paura di perdere la testa. Ne era rimasto uno solo, un vecchio mago a cui nessuno dava retta, perché era piuttosto bislacco e forse anche un po' matto. Da molti anni il re non lo consultava, ma stavolta lo mandò a chiamare.
- Puoi salvarti, - disse il mago, - ma a un patto: che tu ceda per un giorno il tuo trono all'uomo che ti somiglia più di tutti gli altri. Lui, poi, morirà al tuo posto.
Subito venne fatto un bando in tutto il reame: - Coloro che somigliano al re si presentino a Corte entro ventiquattr'ore, pena la vita.
Se ne presentarono molti: alcuni avevano la barba uguale a quella del re, ma avevano il naso un tantino più lungo o più corto, e il mago li scartava; altri somigliavano al re come un'arancia somiglia a un'altra nella cassetta del fruttivendolo, ma il mago li scartava perché gli mancava un dente, o perché avevano un neo sulla schiena.
- Ma tu li scarti tutti, - protestava il re col suo mago. - Lasciami provare con uno di loro, per cominciare.
- Non ti servirà a niente, - ribatteva il mago.
Una sera il re e il suo mago passeggiavano sui bastioni della città, e a un tratto il mago gridò: - Ecco, ecco l'uomo che ti somiglia più di tutti gli altri!
E così dicendo indicava un mendicante storpio, gobbo, mezzo cieco, sporco e pieno di croste.
- Ma com'è possibile, - protestò il re, - tra noi due c'è un abisso.
- Un re che deve morire, - insisteva il mago, - somiglia soltanto al più povero, al più disgraziato della città. Presto, cambia i tuoi vestiti con i suoi per un giorno, mettilo sul trono e sarai salvo.
Ma il re non volle assolutamente ammettere di assomigliare al mendicante. Tornò al palazzo tutto imbronciato e quella sera stessa morì, con la corona in testa e lo scettro in pugno.
Gianni Rodari, Favole al telefono, p. 64-65.


sabato 19 aprile 2014

TRE MADRI – Fabrizio De André




Madre di Tito:
"Tito, non sei figlio di Dio,
ma c'è chi muore nel dirti addio".

Madre di Dimaco:
"Dimaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre".

Le due madri:
"Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l'immagine d'un'agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia noi piangere, un po' più forte,
chi non risorgerà più dalla morte".

Madre di Gesù:
"Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.

Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama - Nostro Signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.

Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.

Non fossi stato figlio di Dio
t'avrei ancora per figlio mio".


Fabrizio De André, La buona novella (1970)

venerdì 18 aprile 2014

VIA DELLA CROCE – Fabrizio De André




"Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav'uomo di nome Pilato."

Ben più della morte che oggi ti vuole,
t'uccide il veleno di queste parole:
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode per te trucidati.

Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
misurano a gocce il dolore che provi;
trent'anni hanno atteso col fegato in mano,
i rantoli d'un ciarlatano.

Si muovono curve le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore
ma filtra dai veli il dolore:

fedeli umiliate da un credo inumano
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò a Maddalena,

di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d'un redentore.

Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti al pensiero che tu li saluti:
"A redimere il mondo" gli serve pensare,
il tuo sangue può certo bastare.

La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.

Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.

Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.

Il potere vestito d'umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.

Ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l'ingresso
a chi ti ama come se stesso.

Sono pallidi al volto, scavati al torace,
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore,
eppure hanno un posto d'onore.

Non hanno negli occhi scintille di pena.
Non sono stupiti a vederti la schiena
piegata dal legno che a stento trascini,
eppure ti stanno vicini.

Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morir sulla croce anche loro,
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo, son solo due ladri.
Fabrizio De André, La buona novella (1970)
Le immagini sono tratte dal film "L'ultima tentazione di Cristo" (1988), regia di Martin Scorsese.


domenica 13 aprile 2014

CHI SEMINA RACCOGLIE - Anonimo


Un giorno un'insegnante chiese ai suoi studenti di fare una lista dei nomi dei loro compagni su dei fogli di carta, lasciando un po' di spazio sotto ogni nome. Poi disse loro di pensare la cosa più bella che potevano dire su ciascuno dei loro compagni di classe e scriverla. Ci volle tutto il resto dell'ora per finire il lavoro, ma all'uscita ciascuno degli studenti consegnò il suo foglio.
Quel sabato, l'insegnante scrisse il nome di ognuno su un foglio separato, e vi aggiunse la lista di tutto ciò che gli altri avevano detto su di lui/lei. Il lunedì successivo diede a ogni studente la propria lista. Poco dopo, l'intera classe stava sorridendo. "Davvero ?" sentì sussurrare."Non sapevo di contare così tanto per qualcuno !" e "Non pensavo di piacere tanto agli altri" erano le frasi più pronunciate. Nessuno parlò più di quei fogli in classe, e la prof non seppe se i ragazzi l'avessero discussa dopo le lezioni o con i genitori, ma non aveva importanza: l'esercizio era servito al suo scopo. Gli studenti erano felici di se stessi e divennero sempre più uniti.
Molti anni più tardi, uno degli studenti venne ucciso in Vietnam e la sua insegnante partecipò al funerale. La chiesa era riempita dai suoi amici. Uno ad uno quelli che lo amavano si avvicinarono alla bara, e l'insegnante fu l'ultima a salutare la salma. Mentre stava lì, uno dei soldati presenti le domandò: "Lei era l'insegnante di matematica di Mark?". Lei annuì, dopodiché lui le disse: "Mark parlava di lei spessissimo".
Dopo il funerale, molti degli ex compagni di classe di Mark andarono insieme al rinfresco. I genitori di Mark stavano lì, ovviamente in attesa di parlare con la sua insegnante. " Vogliamo mostrarle una cosa ", disse il padre, estraendo un portafoglio dalla sua tasca. " Lo hanno trovato nella sua giacca quando venne ucciso. Pensiamo che possa riconoscerlo ". Aprendo il portafoglio, estrasse con attenzione due pezzi di carta che erano stati ovviamente piegati, aperti e ripiegati molte volte. L'insegnante seppe ancora prima di guardare che quei fogli erano quelli in cui lei aveva scritto tutti i complimenti che i compagni di classe di Mark avevano scritto su di lui. "Grazie mille per averlo fatto", disse la madre di Mark. " Come può vedere, Mark lo conservò come un tesoro ".
Tutti gli ex compagni di classe di Mark iniziarono ad avvicinarsi. Charlie sorrise timidamente e disse "Io ho ancora la mia lista. E' nel primo cassetto della mia scrivania a casa". La moglie di Chuck disse che il marito le aveva chiesto di metterla nell'album di nozze, e Marilyn aggiunse che la sua era conservata nel suo diario. Poi Vicki, un'altra compagna, aprì la sua agenda e tirò fuori la sua lista un po' consumata, mostrandola al gruppo: "La porto sempre con me, penso che tutti l'abbiamo conservata".
In quel momento l'insegnante si sedette, e pianse.


domenica 30 marzo 2014

ADDIO, FRATELLO LADRO - Tonino Bello


Sulla tua fossa senza fiori, accenderò una lampada.
Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina, e sono venuto di buon’ora al cimitero a celebrare le esequie per te. Ma non ho potuto pronunciare l’omelia. Perché alla mia messa non c’era nessuno. Solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni. E il vento gelido che scuoteva le vetrate. Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.
Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, e durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: «Gesù, ricordati di me!...». Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a 22 anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che è rotolata nel fango con te! Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome. Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello. Oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto. Ma non per la tua morte. Perché, stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale, forse te la meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente. E lui si è difeso. E stamattina, quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo. No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita. Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva Ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di Ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco! Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che, si, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non pro-muovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l’icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbrutito e fosco come il tuo, che ha cessato di batter per sempre.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch’io che, l’altro giorno, quando c’era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo. Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo. Perdonaci per l’indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire. Perdonaci se, ad appena otto giorni dall’inizio solenne dell’anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.
Domani verrò di nuovo al camposanto. E sulla tua fossa senza fiori, in segno di espiazione e di speranza, accenderò una lampada.

+ Tonino Bello

lunedì 17 marzo 2014

IL TRENO DELLA VITA - Anonimo


La vita è come un viaggio in treno con le sue stazioni, i suoi cambi, i binari, i suoi incidenti. Nel nascere saliamo in treno e ci troviamo con i nostri genitori e crediamo che sempre viaggeranno al nostro fianco, ma in qualche stazione loro scenderanno lasciandoci viaggiare da soli.
Nello stesso modo nel nostro treno saliranno altre persone significative: i nostri fratelli, amici, figli e anche l'amore della nostra vita. Molti scenderanno e lasceranno un vuoto permanente... altri passeranno inosservati!
Questo viaggio sarà ricco di gioie, dispiaceri, fantasie, attese e saluti. La riuscita di questo viaggio consiste nell’avere una buona relazione con tutti passeggeri, nel dare il meglio di noi stessi.

Il grande mistero è che non sappiamo in quale stazione scenderemo, per questo dobbiamo vivere nel migliore dei modi, amare, perdonare, offrire il meglio di noi. Così quando arriverà il momento di scendere lasceremo dei bei ricordi agli altri passeggeri.

venerdì 14 marzo 2014

LA POTENZA DELL’ABBRACCIO – Franco Marcoaldi


Che dici? Se ti abbraccio forte

forte, ho qualche chance in più

di scampare alla morte?

Franco Marcoaldi, Il tempo ormai breve, Torino, Einaudi, 2008, p. 61

giovedì 13 marzo 2014

QUANDO E’ L’ORA DI PARTIRE – Paulo Coelho


Quando arriva l'ordine di trasferimento, il guerriero guarda tutti gli amici che si è fatto durante il cammino. Ad alcuni ha insegnato a udire le campane di un tempio sommerso, ad altri ha raccontato storie intorno al fuoco.
Il suo cuore si rattrista, ma egli sa che la sua spada è sacra, e che deve obbedire agli ordini di Colui al quale ha offerto la sua lotta.
Allora il guerriero della luce ringrazia i compagni di viaggio, trae un profondo respiro e va avanti, portando con sé i ricordi di un viaggio indimenticabile.

Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce, p. 153

venerdì 21 febbraio 2014

IL GIARDINO DEL MAGO - Banco del mutuo soccorso


...Stan cantando al mio funerale, Chi mi piange forse non lo sa che per anni ho cercato me e passo dopo passo con le spine ormai nei piedi tanto stanco stanco... Io sono arrivato nel giardino del mago.

martedì 4 febbraio 2014

LAGER - Francesco Guccini




Cos'è un lager?
E' una cosa nata in tempi tristi, dove dopo passano i turisti,
occhi increduli agli orrori visti... "non gettar la pelle del salame!"...
Cos'è un lager?
E' una cosa come un monumento e il ricordo assieme agli anni è spento,
non ce n'è mai stati, solo in quel momento, l'uomo in fondo è buono, meno il nazi infame!
Ma ce n'è, ma c'è chi li ha veduti o son balle di sopravvissuti?
Illegali i testimoni muti, non si facciano nemmen parlare!
Cos'è un lager?

Sono mille e mille occhiaie vuote, sono mani magre abbarbicate ai fili,
son baracche, uffici, orari, timbri e ruote, son routine e risa dietro a dei fucili,
sono la paura, l'unica emozione, sono angoscia d'anni dove il niente è tutto,
sono una pazzia ed un'allucinazione che la nostra noia sembra quasi un rutto,
sono il lato buio della nostra mente, sono un qualche cosa da dimenticare,
sono eternità di risa di demente, sono un manifesto che si può firmare...

E un lager, cos'è un lager?
Il fenomeno ci fu. E' finito! Li commemoriamo, il resto è un mito!
l'hanno confermato ieri giù al partito, chi lo afferma è un qualunquista cane!
Cos'è un lager?
E' una cosa sporca, cosa dei padroni, cosa vergognosa di certe nazioni,
noi ammazziamo solo per motivi buoni... quando sono buoni? Sta a noi giudicare!
Cos'è un lager?
E' una fede certa e salverà la gente, l'utopia che un giorno si farà presente
millenaria idea, gran purga d' occidente, chi si oppone è un giuda e lo dovrai schiacciare!
Cos'è un lager?

Son recinti e stalli di animali strani, gambe che per anni fan gli stessi passi,
esseri diversi, scarsamente umani, cosa fra le cose, l'erba, i mitra, i sassi,
ironia per quella che chiamiam ragione, sbagli ammessi solo sempre troppo dopo,
prima sventolanti giustificazioni, una causa santa, un luminoso scopo,
sono la furiosa prassi del terrore sempre per qualcosa, sempre per la pace,
sono un posto in cui spesso la gente muore, sono un posto in cui, peggio, la gente nasce...

E’ un lager...
E' una cosa stata,
cosa che sarà, può essere in un ghetto, fabbrica, città,
contro queste cose o chi non lo vorrà, contro chi va contro o le difenderà,
prima per chi perde e poi chi vincerà, uno ne finisce ed uno sorgerà
sempre per il bene dell'umanità, chi fra voi kapò, chi vittima sarà
in un lager?

Francesco Guccini, Lager!, “Metropolis”, 1981

domenica 2 febbraio 2014

UNA SEDIA SPECIALE – Tiziano Terzani


Eknath Easwaran, un mistico indiano morto nel 1999, che per quarant’anni ha insegnato prima letteratura inglese poi meditazione all'Università di Berkeley, raccontava come sua nonna, che era stata la sua guida spirituale, gli aveva dato una semplice, ma importante lezione.
Quando, ancora bambino, era rimasto colpito dalla morte di un familiare, lei lo aveva fatto sedere su una grande sedia di legno e gli aveva detto di reggersi a quella con tutte le sue forze. Lui s'era aggrappato ai braccioli, ma lei era riuscita lo stesso a strapparlo via. Nel resistere lui aveva sentito male. La nonna gli aveva poi chiesto di sedersi di nuovo, ma questa volta senza fare alcuna resistenza. Lei lo aveva allora tolto dalla sedia gentilmente, prendendolo in braccio. «Così avviene con la morte. Sta a te scegliere come vuoi andartene. Ricordatelo.»

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, p. 286-287

venerdì 10 gennaio 2014

OGNI VITA E’ PARTE DI UN TUTTO – Tiziano Terzani


In India non ci si sente mai soli, mai completamente separati dal resto. E qui sta il suo fascino.
Alcuni millenni fa i suoi saggi, i rishi, «coloro che vedono», ebbero l'intuizione che la vita è una, e questa esperienza, rinnovata religiosamente di generazione in generazione, è il nocciolo del grande contributo dell'India all'incivilimento dell'uomo e allo sviluppo della sua coscienza. Ogni vita, la mia e quella di un albero, è parte di un tutto dalle mille forme che è la vita.
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