Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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venerdì 3 giugno 2016

IL PONTE DI LUCIANO 5/5 – Mario Lancisi


L’Ape fece due viaggi. Portò su due longarine di ferro lunghe 6 metri, su una era già saldato il parapetto, poi tabelloni, cemento e rena. Con la treggia fu portato tutto fino al fosso. Ci vollero 4 viaggi. La sera dopo, la passerella, come dicevano loro, era già finita. Lunga, stretta, sicura. Luciano era raggiante. Per la prima volta aveva una cosa tutta sua: allora se la dedicò, scrivendo con il dito sul cemento fresco «a me».
Il ponte è stato recuperato nell’agosto 2007 con un campo di lavoro e studio di due gruppi scout di Arezzo e Salsomaggiore. Hanno lavorato tre giorni per liberarlo dai rovi, vitalbe e boscaglia che lo avevano seppellito durante gli anni. Ora è tornato a parlare e raccontare del pastorello che tutti i giorni lo attraversava per andare a scuola. L’ultima sera, gli scout lo vollero vegliare: accesero le lanterne e con i canti ruppero il silenzio che da anni dominava quel fosso isolato e buio. Il gruppo scout di Salsomaggiore quella sera decise di cambiare nome: si chiamerà clan «Il Ponte di Luciano».

Mario Lancisi, dal blog Altratoscana.info

giovedì 2 giugno 2016

IL PONTE DI LUCIANO 4/5 – Mario Lancisi


La gente incuriosita cominciò a fermarsi e a commentare: «Cosa vogliono i ragazzi di quel prete?». «Vogliono un ponte su quei poggi, chissà per fare cosa!». Di lì a poco uscì dal Comune il sindaco: «Cos’è questo chiasso? Sembrate un branco di anatre rincorse dalla volpe!», disse dall’alto della sua autorità. Agli occhi dei ragazzi il sindaco appariva un omone grande e grosso. Loro gli andarono incontro: «Siamo di Barbiana» cominciarono. «L’ho visto – interruppe lui – ma cos’è questo chiasso?».
«Vogliamo il ponte per Luciano, perché non è giusto che i ragazzi di Vicchio abbiano il pulmino, la mensa, il riscaldamento, mentre Luciano per venire a scuola cammina per più di un’ora solo nel bosco e non ha neppure un ponte per attraversare il fosso del Fatino. Anche noi paghiamo le tasse come quelli di Vicchio». Di fronte al sindaco il discorsetto preparato era saltato. A voce tutto era più difficile.
Inizialmente il sindaco non capì. Quando poi afferrò la richiesta disse: «E per una passerella tutto questo chiasso?». Fece chiamare il capo stradino e gli ordinò di andare a vedere di cosa si trattasse e di accertarsi della fattibilità della passerella. I barbianesi rimasero stupiti e delusi. Innanzitutto perché il sindaco minimizzò, chiamò il loro ponte «passerella» e poi perché si aspettavano una lotta molto più difficile, più lunga, con arresti, ordini di sgombro, intervento dei carabinieri, invece il sindaco aveva subito risposto positivamente.
Il giorno dopo piovve e a Barbiana non si vide nessuno. Ma quando il tempo si rimise salirono su il capo stradino e un muratore, per vedere di cosa si trattasse. I ragazzi chiassosi e anche un po’ eccitati li accompagnarono fino al fosso. Loro guardarono, misurarono e poi dissero: «Si può fare. Torneremo nei prossimi giorni. Ma come si fa a portare il materiale fin quaggiù in questa buca? Con l’ape non ci si arriva e a spalla non ce la facciamo perché il materiale è troppo pesante». «Ci penso io – disse Giancarlo – veniamo io e il babbo con la treggia, tirata dai nostri buoi e vi portiamo la roba fin dove volete».
Mario Lancisi, dal blog Altratoscana.info


mercoledì 1 giugno 2016

IL PONTE DI LUCIANO 3/5 – Mario Lancisi


I ragazzi rimasero sorpresi dalla reazione di don Lorenzo, perché i barbianesi come tutti i montanari del mondo erano abituati ad arrangiarsi da soli; l’Istituzione pubblica, da sempre, era assente dalla loro vita e dai loro bisogni. Figuriamoci se il Comune sarebbe intervenuto per un ponticello per consentire a un montanarotto di attraversare un ruscello per venire a scuola.
Don Lorenzo colse invece quell’occasione per insegnare come si imposta una lotta sociale per una causa giusta. Da quel momento la scuola di Barbiana fu impegnata per alcuni mesi a studiare il diritto sindacale, furono chiamati sindacalisti per insegnare le tecniche delle manifestazioni, come si scriveva un cartello, come comportarsi per evitare di essere denunciati per una manifestazione non autorizzata, come comportarsi se i carabinieri avessero ordinato di non sostare di fronte al Comune.
Quando i ragazzi ritennero di essere pronti, un giovedì, coi loro cartelli arrotolati sotto il braccio, scesero a Vicchio a piedi. Era la prima loro esperienza di lotta sindacale e scendevano verso Vicchio carichi di timori di essere ricacciati sui loro monti senza risultati, ma anche con la determinatezza di non arrendersi di fronte a una battaglia giusta.
Don Lorenzo non scese con loro, dovevano vedersela da soli. Per questo scelsero il portavoce e si prepararono il discorso da fare al sindaco. Gli otto ragazzi passarono inosservati fino a quando di fronte al Comune aprirono i loro cartelli al grido ritmato: «Ponte…ponte…ponte».
Mario Lancisi, dal blog Altratoscana.info


martedì 31 maggio 2016

IL PONTE DI LUCIANO 2/5 – Mario Lancisi


Luciano, per venire a scuola, doveva scendere giù fino al fosso dove c’era un ruscello da attraversare per poi risalire dall’altra parte verso Barbiana. Era un ruscelletto di montagna, di quelli che scorrono raso terra lasciando scoperti i sassi più grossi. Lui l’attraversava saltando di sasso in sasso. Durante i mesi invernali però l’acqua cresceva un po’ e ricopriva i sassi. Allora i ragazzi della scuola misero attraverso il ruscello un tronco di castagno fermato a valle e a monte con dei pioli perché la corrente non lo portasse via. Luciano passava dall’altra parte camminandoci sopra.
Un anno di febbraio la pioggia fu più abbondante del solito, l’acqua si alzò facendo galleggiare il tronco e, mentre Luciano lo stava attraversando, girò su se stesso; il ragazzo perse l’equilibrio e cascò nell’acqua. Si rialzò tutto inzuppato e di corsa salì a Barbiana dove arrivò tremando dal freddo, con le labbra quasi viola e i vestiti ghiacciati addosso. I ragazzi della scuola gli si strinsero intorno e rinforzarono il fuoco della stufa per asciugarlo. L’Eda trovò un po’ di roba asciutta di casa, poi fu avvolto nel mantello di don Lorenzo mentre i suoi vestiti si asciugavano stesi davanti alla stufa. Quando il ragazzo si fu completamente ripreso e raccontò cosa era successo, don Lorenzo rifletté un po’ e disse: «Non è mica giusto che i ragazzi di Vicchio abbiano il pulmino sotto casa per andare a scuola, le aule riscaldate e la refezione, mentre il mio bambino nemmeno un ponticello per venire a scuola senza rischiare di cadere nell’acqua. Ragazzi prepariamoci, andremo a Vicchio a manifestare di fronte al Comune per chiedere al sindaco di costruire il ponte per Luciano».
Mario Lancisi, dal blog Altratoscana.info


lunedì 30 maggio 2016

IL PONTE DI LUCIANO 1/5 – Mario Lancisi


Volevo scrivere un post sulla Costituzione, la giustizia, le lotte sindacali, ma mi sono imbattuto in questo bellissimo racconto di Michele Gesualdi, allievo di don Milani, pubblicato nel 2008 da Avvenire (l’intera storia è in un libro). Ve lo propongo. (Mario Lancisi)

«Ho un bambino se voi lo vedeste, piangereste tutti, perché è piccino, uno scricciolino di 11 anni. Fa un’ora e mezza di strada, solo, per venire a scuola. Viene da lontanissimo, col suo lanternino a petrolio per la notte. Avreste tutti paura a fare la strada che fa lui di notte con la neve».
Così don Lorenzo Milani parla di Luciano durante un convegno dove fu invitato a parlare della sua scuola. Luciano non era della parrocchia di Barbiana. Non era neppure di una parrocchia confinante. Abitava di là dal poggio in una casa isolata nel bosco. Arrivò a Barbiana un pomeriggio di fine giugno. Era con la mamma, una donna ancora giovane, ma invecchiata prima del tempo dal lavoro dei campi. La donna teneva il bambino per mano ed esitava a varcare il cancello della corte ove don Lorenzo stava facendo scuola sotto la pergola. Quando il priore la vide la incoraggiò sorridendo, e lei: «Sor Priore noi non siamo del suo popolo. Stiamo di là dal poggio, sono venuta a chiederle se mi prende Luciano a scuola, perché non voglio che venga su come noi, poveri ‘meschini’, che si sa fare a malapena l’O con il culo del bicchiere».
Fu così che il giorno dopo Luciano cominciò a venire a scuola a Barbiana. Il primo giorno arrivò prima di tutti. Era un po’ accaldato per la salita e reggeva sulla spalla un bastone con appeso un fagottino con dentro il desinare che la mamma gli aveva preparato, e che lui mangiava sui tavoli di scuola. Aveva camminato solo solo per un’ora e mezza nel bosco per essere lì puntuale alle 8. Luciano conosceva bene il bosco, la sua vita, i suoi segreti, i suoi rumori, le sue figure, i suoi pericoli. Sapeva che se incontrava una vipera doveva evitarla, se si imbatteva in una famiglia di cinghiali si doveva fermare e aspettare che si allontanassero, perché i cinghiali quando hanno i piccoli diventano aggressivi. Se c’era un temporale non doveva fermarsi sotto gli alberi, ma allungare il passo per uscire prima possibile dal bosco. Però, per un bambino di 11 anni, il bosco nasconde sempre qualche pericolo inaspettato. Per questo, i primi giorni, la mamma dal punto più alto vicino a casa lo accompagnava con lo sguardo fino a quando non spariva nel folto. Lo stesso la sera scrutava l’uscita del bosco fino a quando non appariva il bambino.
Mario Lancisi, dal blog Altratoscana.info


martedì 2 settembre 2014

TI REGALERO’ UNA ROSA – Claudia Pepe


“Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Così diceva Don Milani nelle “Lettere ad una Professoressa”, e mai come in  questo momento queste parole mi sembrano così attuali e così potenti. Cosa dovrebbe fare  una scuola, un gruppo d’insegnanti di fronte ai ragazzi difficili, quelli che formeranno l’esercito dei dispersi e di cui noi, anche se per un breve tratto della loro vita, siamo stati chiamati a educarli, a dar loro una riva su cui appoggiarsi per prendere fiato, marchiati da persone che forse non hanno volto il loro sguardo sul loro viso, all’interezza del loro essere.
Prima di scrivere “Promosso” o “Bocciato”, siamo sicuri di aver dato loro tutte le opportunità di esser stati protagonisti della loro vita, oppure abbiamo scelto la via più facile; quella retorica lezione che si ripete da secoli in cui spieghiamo, facciamo fare esercizi, interroghiamo e poi giudichiamo?
Abbiamo mai provato a mettere al primo posto l’amore, il prendersi cura, (non l’assistenzialismo), ma l’osservazione quotidiana, i gesti interrotti, i punti di forza dei nostri allievi e non sempre la mancanza, i loro deficit, il loro abbandono che nasce ancor prima di loro?
Abbiamo mai provato a capovolgere la solita frase:” Vedi va bene in Musica, in Arte e in Fisica, tutte materie che non hanno bisogno di studio, è proprio limitato!”
Quanta pochezza in queste parole mal riposte da insegnanti che insegnano a ripetere a memoria e non hanno mai provato a vedere gli stessi ragazzi interpretare, creare, rompere le barriere che hanno costruito intorno a loro, e ascoltarli mentre cantano una canzone che li rappresenta, che parla  di una solitudine di cui sono prigionieri e di cui non riescono a trovare la chiave per uscirne?
Vedere questi ragazzi, quelli difficili come dicono loro, emergere, sentire la loro emozione della prima volta, gli occhi lucidi mentre dicono: “I matti sono punti di domanda senza frase migliaia di astronavi che non tornano alla base sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole i matti sono apostoli di un Dio che non li vuole mi fabbrico la neve col polistirolo la mia patologia è che son rimasto solo. Ora prendete un telescopio misurate le distanze e guardate tra me e voi chi è più pericoloso?” (Ti regalerò una rosa di Simone Cristicchi).
Chi è più pericoloso? Loro a cui non abbiamo dato l’amore che cercavano da noi, o loro che già vivono della disistima di tutti, della loro giovane vita inefficace, del loro dolore che abbiamo già catalogato come patologia?
Non nascondiamoci dietro a una sindrome; non esistono più sindromi, perché siamo diventati tutti portatori di mal-essere, di a-normalità, prefissi da mettere davanti alla nostra incapacità di ascoltare, di interagire, di assolvere per mancanza di prove. L’empatia, quel sentimento passato di moda perché così difficile da mettere in pratica in un mondo dove non ci si saluta neanche tra coinquilini, quel sentimento che dovrebbe farci capire, recepire il loro mondo, è finito tra squallidi voti, in squallidi registri elettronici, dove non usiamo neppure la nostra mano, ma un mouse, per respingere un ragazzo a cui la vita disonestamente gli ha rubato un’infanzia tradita.
Noi non siamo un Ospedale, ma una Scuola che ha il dovere di aiutare gli ultimi, per farli credere che ai loro punti di domanda noi diventiamo le loro frasi e la neve non è solo per chi può toccarla.
La neve è di tutti e soprattutto ai ragazzi difficili piace sentirla sulla faccia. Per sentire una carezza da quel Dio che li ha sempre amati e ci ha creati tutti uguali.
Come diceva Don Milani: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.  Prima di farli ammalare ancor più, cerchiamo tutte le cure che solo noi insegnanti possediamo. Tra la testa e il cuore.

Claudia Pepe, in Questione di classe

martedì 11 marzo 2014

34. LA NOSTRA PIU’ PREZIOSA CONSEGNA – Francesco Callegari


LA NOSTRA PIU’ PREZIOSA CONSEGNA

LETTERA APERTA AL NUOVO MINISTRO DELL’ISTRUZIONE - 11 marzo 2014

Nelle nuove “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, a pagina 9 si legge:
“La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di disabilità o di svantaggio”.
E ancora: “Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende”.
Una scuola che ricerca quotidianamente il senso della propria esistenza nella centralità dell’alunno, senza se e senza ma, legge queste parole con grande favore.  Soprattutto perché la nostra è una scuola che da sempre considera l’alunno con disabilità come la sua più preziosa consegna.
Il 5 agosto 2009 sono state emanate le “Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” e lì leggiamo che:
“La presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso, un’emergenza da presidiare, ma un evento che richiede una riorganizzazione del sistema e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti”.
E proprio questo, noi abbiamo cercato di fare in questi anni: organizzarci in modo da offrire ai ragazzi con disabilità il meglio della nostra competenza, delle nostre energie, della nostra didattica, della nostra capacità di accogliere e di creare benessere.
“L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si pèrdono loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati, diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo?”
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 20.
A complicare le cose, negli ultimi tempi, è venuta la carenza di personale specializzato nel sostegno. Gli alunni con le necessità più particolari, quelli che avrebbero più bisogno di docenti di grande competenza ed esperienza, vengono ora affidati a insegnanti precari, spesso senza alcuna preparazione specifica e attinti dalle graduatorie delle varie discipline: tecnologia, musica, educazione fisica…, sulla base del loro punteggio. Insegnanti con tanta buona volontà, ma nessuna specializzazione sul sostegno.
Quando, anziché l’alunno, a essere privilegiata è la “Graduatoria” o addirittura l’Intergraduatoria, che è la “Graduatoria delle graduatorie”, tutto può succedere. E così, di anno in anno, all’insegnante di musica subentra l’architetto, il docente di educazione fisica sostituisce l’insegnante di lingua straniera, e così via...  
Noi crediamo che, prima di ogni altra considerazione, il ragazzo con disabilità abbia il diritto di avere accanto a sé un esperto che sappia cogliere le sue difficoltà e le sappia gestire con competenza professionale. In caso contrario, corriamo il rischio che uno più uno non faccia due.
Gian Antonio Stella sul Corriere del 31 gennaio 2013, alla fine di un articolo dal titolo “Bocciare il merito, la scuola non cambia mai, parlando dei modi in cui vengono assunti i docenti, scriveva:
“…ti senti sperduto in un'intricatissima foresta in cui ancora una volta è stata smarrita la strada che porta a quel «merito, merito, merito» di cui tutti si riempiono la bocca. E in cui i diritti fondamentali da difendere sembrano comunque essere ancora quelli dei professori e solo dopo (molto dopo) quelli degli studenti.”

Sperando in un futuro dove nella scuola italiana il primo “avente diritto” sia realmente l’alunno, Le porgo i più sinceri auguri di buon lavoro.

Francesco Callegari
Dirigente scolastico

lunedì 7 maggio 2012

SCUOLA MALATA, E' ORA DI TORNARE A BARBIANA - Marco Rossi Doria



“L’azione pedagogica diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli approcci profondi e sa indicare vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò don Milani diceva: «Verrà un giorno in cui coloro che vogliono guarire le scuole malate dovranno salire a Barbiana».
È ora di ripartire da una scuola a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben organizzata sul mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la meraviglia del sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e costante di un luogo accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato.”

lunedì 31 ottobre 2011

DIVENTARE SOVRANI - Scuola di Barbiana


Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata: “I capaci e meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34 Cost.)
Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 96

domenica 30 ottobre 2011

IL PRIMATO DELLA LINGUA - Scuola di Barbiana


Il fine immediato [della scuola], da ricordare minuto per minuto, è quello d’intendere gli altri e farsi intendere.
E non basta certo l’italiano, che nel mondo non conta nulla. Gli uomini hanno bisogno d’amarsi anche al di là delle frontiere. Dunque bisogna studiare molte lingue e tutte vive.
La lingua poi è formata dai vocaboli d’ogni materia. Per cui bisogna sfiorare tutte le materie un po’ alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare.
S’ha bisogno di lingua d’oggi e non di ieri, di lingua e non di specializzazioni.
Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 94-95

sabato 29 ottobre 2011

L'OSPEDALE DI DON MILANI - Scuola di Barbiana


Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete.
L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perdono loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.
E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passare per pazzi.
Meglio passare per pazzi che essere strumento di razzismo.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 20

venerdì 28 ottobre 2011

LA COMPETENZA - Scuola di Barbiana


Agli esami di ginnastica, il professore ci buttò un pallone e ci disse: “Giocate a pallacanestro”. Noi non si sapeva. Il professore ci guardò con disprezzo: “Ragazzi infelici”.
Anche lui come voi. L’abilità in un rito convenzionale gli pareva importante. Disse al preside che non avevamo “educazione fisica” e voleva rimandarci a settembre.
Ognuno di noi era capace di arrampicarsi su una quercia. Lassù lasciare andare le mani e a colpi d’accetta buttare giù un ramo d’un quintale. Poi trascinarlo sulla neve fin sulla soglia di casa ai piedi della mamma.
M’hanno raccontato di un signore a Firenze che sale in casa sua con l’ascensore. Poi s’è comprato un altro aggeggio costoso e fa finta di remare. Voi in educazione fisica gli dareste dieci.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 29-30

giovedì 27 ottobre 2011

TRA SUMMERHILL E BARBIANA - Francesco Callegari


Le parole di Anthony De Mello hanno veramente il potere di scompaginare i nostri modelli, mandando all’aria abitudini e certezze. Accoglierne la sfida non è facile, anche se la voglia di provarci è tanta.
Abbiamo probabilmente provato la stessa impressione leggendo di Alexander Neill e della sua scuola di Summerhill.
Forse è questo il segreto delle persone di valore: agire con una consapevolezza tale da rendere uniche e preziose le piccole cose d’ogni giorno. Un po’ come la magia suggerita da Thomas Gordon quando parla dell’insegnante-alchimista, che è in grado di cogliere il meglio da ciascun allievo. Lo vedremo insieme nei prossimi giorni.
Ripensando alla scuola di Summerhill, non possiamo non scorgere diverse analogie con quella di Barbiana:
“Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica ad accorgersi che uno era più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io”. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 12.
A suo modo, la scuola di Barbiana, come quella di Summerhill, rende felici i ragazzi. Perché la conoscenza ruota intorno a loro, anziché il contrario:
“La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente il programma. Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose restano le stesse, ma cambia lui. Gianni non sapeva mettere l’acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Voi con i greci e i romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi, sull’ultima guerra si teneva quattr’ore senza respirare”. Ibidem, p. 17.


Tutto questo mi suggerisce un'immagine. Mi vengono in mente gli splendidi mosaici di Gaudì in Parc Guell a Barcellona: una distesa variopinta di cocci irregolari, frammenti di piastrelle colorate e pezzi di vetro frantumato. Ma, grazie alla mano dell'artista, quale spettacolo alla fine!
Francesco Callegari

giovedì 28 luglio 2011

SPARARE IN UN CESPUGLIO - Scuola di Barbiana



Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo.
Fino all'ottobre seguente non sapete cosa avete fatto. E' andato a lavorare o ripete? E se ripete, gli farà bene o male? Si farà le basi per seguitare meglio o invecchierà malamente su programmi non adatti per lui?


Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana, p. 39

mercoledì 27 luglio 2011

MOLTI BOCCIATI, MOLTO ONORE! - Aluisi Tosolini



I primi dati del ministero dell'Istruzione sull'anno scolastico appena concluso parlano chiaro: ci sono più bocciati alle scuole medie e aumentano gli studenti che a settembre dovranno recuperare. Gli studenti non ammessi nei soli primi due anni delle medie potrebbero arrivare a circa 70.000 rispetto ai 45.000 dell'anno scorso.
Alla scuola superiore il 42,2 % degli studenti non è stato promosso: il 28,6% è stato sospeso con debiti e il 13,6% non è stato ammesso.
Il 18,1% degli studenti del primo anno e il 12% del secondo non sono stati ammessi alla classe successiva.

Parlando alla trasmissione RAI Uno Mattina il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini ha detto che «La scuola buonista del '68 è stata archiviata».
I dati richiedono qualche ulteriore e rapida riflessione
1. Una qualunque umana “impresa” che misuri il proprio successo dai propri fallimenti dovrebbe preoccupare. Se Marchionne sostenesse che la Fiat va bene perché produce il 30% di macchine difettose verrebbe licenziato in tronco. Lo stesso accadrebbe per un direttore sanitario che sostenesse che l’ospedale è andato alla grande perché sono aumentati gli interventi sbagliati ed inutili.
2. Considerare che l’aumento dei bocciati sia un indice di successo della scuola o della società significa negare alla radice il significato Costituzionale della scuola che consiste non nell’essere buonista o cattivista quanto piuttosto nel “rimuovere ostacoli …..”(art. 3)
3. Una conseguenza contro-intuitiva dell’aumento delle bocciature è l’aumento di spesa (in un momento in cui la scuola è impegnata a tagliare 8 miliardi di euro in tre anni): più bocciati, infatti, vuol dire più classi e per più anni.
4. Da ultimo siamo felici di sapere che il ’68 è archiviato (a scanso di equivoci, di sessanttotini, per motivi anagrafici, ce ne sono ormai davvero pochi a scuola..). Quello che non mi pare archiviato è l’anno prima, il ’67. L’anno in cui uscì "Lettera a una professoressa" di don Milani.

Da I dibattiti di PavoneRisorse, 1 luglio 2009

venerdì 21 gennaio 2011

FIDUCIA NEI RAGAZZI - Don Lorenzo Milani

Ho passato un momento di depressione perché mi pareva che tutti i ragazzi mi crollassero da tutte le parti e che non ci fosse più da fidarsi di nessuno, poi mi è passato subito. Non si può fare l'educatore e non fidarsi. Prima di tutto perché è un obbligo morale, un impegno verso i ragazzi e un'onestà davanti a Dio, perché anche l'educatore ha da farsi perdonare cioè da pretendere un'infinita fiducia che si rinnova a bischero sciolto anche quando tutte le prove sarebbero contro. E poi perché un educatore ha sempre delle soddisfazioni piccole o grandi e sa vedere i segni di speranza e di onestà dove gli altri non vedono. Prenderlo in tasca è il suo destino e il suo dovere, ma non sempre, qualche volta lo prendono in tasca gli altri e il ragazzo malvisto da tutti si rivela un gran galantuomo, un uomo adulto generoso e leale. Tanto più che spesso il tempo gioca a favore dell'educatore perché, crescendo, il ragazzo è più facile che faccia meno ragazzate, e non di più.

Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, p. 237-238

giovedì 9 dicembre 2010

ROVESCIARE DON MILANI - Marcello Veneziani

Anche se parla con parole che toccano il cuore e stimolano la mente, non tutti la pensano come Domenico Starnone. E allora credo sia giusto dare voce anche a coloro che propongono idee dissonanti, elaborano pensieri sferzanti, seguono strade desuete rispetto alla nostra sensibilità. Persone con le quali possiamo anche non essere d’accordo, ma che rispettiamo sino in fondo perché siamo convinti che le loro posizioni siano dettate dalla più assoluta buona fede e perché solamente una riflessione senza pregiudizi ci può condurre un poco alla volta a trovare il “nostro” pensiero, la “nostra” idea su un determinato argomento.
Marcello Veneziani, giornalista, propone una lettura diversa rispetto a quella di Domenico Starnone, individuando nella pedagogia di don Lorenzo Milani le cause remote del marasma e del disorientamento in cui oggi la scuola vive. Il brano che segue è tratto dal libro: Rovesciare il ’68, scritto da Marcello Veneziani un paio d’anni fa.

Morì un anno prima che scoppiasse il 68, ma ne fu un appassionato precursore. Don Lorenzo Milani fu il mistico affondatore della scuola italiana. Il parroco della Barbiana con la sua celebrata Lettera a una professoressa, voleva cambiare radicalmente e generosamente la scuola, ma contribuì a distruggerla. Don Milani merita il rispetto che si deve agli idealisti in buona fede; ma insieme merita la diffidenza che si deve al devastante idealismo. Pie intenzioni e disastrosi effetti.
Tutti idealisti, in buona fede, convinti di liberare l'umanità e migliorarla. Tra questi spicca don Milani. Che per giunta era prete, applicava la carità, si dedicava ai ragazzi con tutto il cuore, agiva nella Firenze dei La Pira, padre Balducci e padre Turoldo, ed è morto pure giovane. Lasciando a noi posteri i danni bestiali della sua sublime utopia. Don Milani sognava una scuola non dei ricchi ma di tutti, con il professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature né autorità, perché "l'obbedienza non è una virtù". Don Milani delineò il modello della scuola assembleare e finse persino di aver scritto la sua lettera-libro insieme ai ragazzi, che in realtà assentivano soltanto. Nobili propositi, ma poi vennero gli esiti. La scuola che non premia i meriti e le capacità, che non seleziona e non è fondata sull'autorevolezza del docente, prepara sempre meno alla vita, non educa, non migliora; non produce alunni più liberi e uguali ma più bulli e prepotenti. È una scuola che non ha ridotto le distanze tra ricchi e poveri ma le ha ingigantite. Non a caso prima del 68 gran parte dei benestanti mandavano ancora i loro figli nelle scuole pubbliche; ora invece li mandano alle private. Compresi gli estimatori di don Milani: i loro figli vanno al college, non si confondono con plebaglia e gli immigrati.
"La selezione è un peccato contro Dio e contro gli uomini" scrisse don Milani; una bestialità che ha distrutto la scuola mentre i ragazzi si allontanavano da Dio e dagli altri uomini. La selezione non era classista ma al contrario faceva saltare le classi sociali perché faceva risaltare le capacità personali, il valore del singolo rispetto alla provenienza e all'appartenenza. Se togli i meriti restano il censo e quel che ti dà la famiglia. Al mio liceo il preside era figlio di contadini e da ragazzo faceva il contadino pure lui; e il professore di lettere era figlio di trovatelli. Con la loro tenacia e le loro capacità si erano fatti strada; il latino per loro non era una forma di oppressione di classe, come sostenevano i seguaci di Don Milani, ma una leva per emanciparsi, persino un mezzo di rivalsa rispetto ai ricchi, pigri e viziati, che non erano abituati ai sacrifici. La selezione dei più bravi aveva permesso il loro riscatto sociale.
La fine delle bocciature ha coinciso con la fine della meritocrazia; così si va avanti più di ieri per affiliazione, se si è figli o protetti dai potenti.
La brutta scuola d'oggi è figlia dei begli ideali di ieri.

Marcello Veneziani, Rovesciare il ’68, Mondadori, Milano 2008, p. 41-43.

domenica 31 ottobre 2010

19. IL DONO DEL SOLE - Francesco Callegari

Questo l’ho imparato dal sole, che di ricchezza sovrabbonda, quando va giù:
attingendo da tesori 
inesauribili ricolma d’oro il mare,
così che anche il più povero dei pescatori rema con remi d’oro!

Questo io vidi, infatti, una volta, né mi saziai di lacrime al vederlo."
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Di antiche tavole e nuove.
  
C
he fatica! Sembra quasi di scalare una montagna salendo lungo un ghiaione: pensiamo di aver fatto un bel pezzo di salita insieme quando all’improvviso il terreno ci manca sotto ai piedi e scivoliamo rovinosamente a valle. E dobbiamo ricominciare tutto daccapo.
Sapevamo tutti, due anni fa, che mettere d’accordo tante esperienze diverse in un nuovo unico e grande istituto comprensivo non sarebbe stata cosa facile, ma allo stesso tempo eravamo convinti che lo sforzo generoso di ciascuno avrebbe consentito anche al più povero tra noi pescatori, me per primo, di remare con remi d’oro. 
 Il Piano dell’Offerta Formativa dovrebbe rappresentare il concentrato di quanto ciascuno di noi si sforza di mettere in campo in termini di idee, di competenze, di disponibilità per il bene di tutti, e in particolare dei nostri ragazzi. E’ il momento forte in cui ciascuno contribuisce in prima persona a progettare il futuro della nostra scuola e, allo stesso tempo, del nostro lavoro. E’ il momento gratificante in cui posso manifestare competenze personali in cui sono particolarmente versato e che non riesco a esprimere al meglio nella faticosa quotidiana routine curricolare. E’ il momento in cui mi viene data la possibilità, anche nel lavoro, di mostrare il grande e il bello che c’è in me.
Nel P.O.F. di quest’anno abbiamo presentato grandi progetti ad ampio respiro verticale e orizzontale per fare amare la musica ai nostri ragazzi e progetti di teatro studiati appositamente per risolvere specifici casi di ragazzi a rischio dispersione; abbiamo proposto progetti ad altissimo contenuto tecnologico in collaborazione con le scuole superiori e progetti di laboratorio per imparare a usare il tornio per la creta; abbiamo pensato di arricchire le competenze linguistiche dei nostri ragazzi con l’intervento di docenti di madrelingua straniera e abbiamo progettato collaborazioni con le università per poter accedere allo stato dell’arte della conoscenza. E tanto e tanto altro…
 E, alla fine, abbiamo rischiato di gettare tutto questo alle ortiche per le quattro “palanche” del fondo di Istituto!
Certo, il P.O.F. è stato approvato dalla maggioranza, i progetti partiranno, le attività si faranno. Ma con l’amaro in bocca.
Chiedo, veramente con tanto rispetto e semplicità, a quei colleghi che per motivi del tutto estranei alle competenze del Collegio si sono dichiarati contrari al P.O.F., di poter considerare la loro decisione non come momento di lacerazione, ma come desiderio forte di equità, anche se manifestato in modi forse inappropriati.
Tutti noi siamo consapevoli delle motivazioni profonde che ci hanno fatto abbracciare questo lavoro, che è sicuramente uno tra i più difficili e malpagati, ma che è anche uno tra i più belli ed entusiasmanti del mondo. Quello che ci rende orgogliosi nel nostro lavoro è, secondo me, l’intima convinzione che tanto di ciò che offriamo in termini di tempo, energie, competenze, affetti è del tutto impagabile.
Quando ormai la malattia lo aveva profondamente minato, don Lorenzo Milani aveva ancora la forza e il coraggio di scrivere queste parole: 
“Sto disfacendo la scuola. Ho mandato i più grandi a lavorare. Non prendo più ragazzi nuovi. Ho ancora una decina di ragazzi a cui faccio scuola qui in camera. Oppure quando son stanco si fanno scuola l'un l'altro nell'aula che comunica con questa camera. Allora la mia attività pedagogica consiste solo in qualche urlaccio per tenerli buoni. Ho una leucemia e non voglio morire stupidamente sulla breccia con ragazzi immaturi mezzo educati e mezzo no. Così sto organizzando da un anno un ragionevole e riposante tramonto. Mi godo i figlioli riusciti e i loro bambini. Ricevo con commozione i prodighi che tornano. Tengo lontani i prodighi che non tornano. Insomma vivo come un nonno amato e mi godo questa vita. Abbiamo scritto la lettera ai giudici come un'opera d'arte. Purtroppo nelle centinaia di lettere che ci arrivano dall'Italia e dall'estero ci accorgiamo che pochissimi se ne sono accorti. Tutti pensano che abbiamo delle bellissime idee. Pochi, forse due o tre persone in tutto, si sono accorti che per schiarire le idee così a noi stessi e agli altri bisogna mettersi a lavorare tutti insieme per mesi su poche pagine. [..] Alla fine la cosa diventa chiara per chi la scrive e per chi la legge. La lettera ai giudici è stato un dono che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto. Prima di scriverla né io né i ragazzi sapevamo quelle cose. […]
Il desiderio d'esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l'amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s'intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”.
 In queste parole, è racchiusa la stessa ricchezza del sole al tramonto che con il suo dono semplice, ripetuto e gratuito rende d’oro anche il remo del più povero tra i pescatori.
Altro non so dire.                    
  Francesco  Callegari 
Dirigente  Scolastico

giovedì 2 settembre 2010

DALLA SCUOLA DEL FARE A QUELLA DELL'ESSERE - Don Lorenzo Milani

"Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena.
Insistono perchè io scriva per loro un metodo, precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica.

Sbagliano domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola"

Lorenzo Milani, Esperienze Pastorali, LEF, Firenze 1957, p. 234

mercoledì 19 maggio 2010

PARTI UGUALI TRA DISUGUALI - Don Lorenzo Milani

Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l'avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l'avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Né l'uno né l'altro avevano intenzione di ripetere l'anno. Erano ridotti a desiderare l'officina. Sono venuti da noi solo perché noi [a Barbiana] ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E' stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. Sandro se ne ricorderà per sempre. Gianni se ne ricorda un giorno sì e uno no.
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma. Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose restano le stesse, ma cambia lui. Gli diventano puerili tra le mani.
Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull'ultima guerra si teneva quattro ore senza respirare. A geografia gli avreste fatto l'Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo. Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale.
Sandro in poco tempo s'appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il “cretino”; si presentò alla licenza e vi toccò passarlo.
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l'odio per i libri. Noi per lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi a fargli amare anche il resto. Ma agli esami una professoressa gli disse:- perché vai a scuola privata [a Barbiana]? Lo vedi che non ti sai esprimere?
Lo so anch'io che il Gianni non si sa esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l'avete buttato fuori di scuola l'anno prima. Bella cura la vostra.
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio:- Non si dice lalla, si dice aradio.
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.
"Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua"; . L'ha detto la Costituzione pensando a lui.

(da Lorenzo Milani, Lettera ad una professoressa, LIBRERIA ed. Fiorentine, Firenze, pp 16-19)
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