Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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lunedì 5 giugno 2017

IL TAPPETO E LA POLVERE – Nadia Vidale


E quest’anno fa dieci. Il prossimo sarà il mio undicesimo Esame di Stato da Presidente. Mi pare esperienza sufficiente per poter dire con cognizione di causa che potremmo pure smettere, risparmiare le diarie e le trasferte e lasciare che almeno i dirigenti restino nelle loro scuole a lavorare. Lo sento, il brusio che l’Esame è un momento simbolico al punto che poi si sogna per tutta la vita. Vorrà dire che sogneremo qualcos’altro… 
Il fatto è che io amo i distinguo, perché solo distinguendo c’è speranza di capire. A fare di ogni erba un fascio, non si capisce nulla. È vero che l’Esame di Stato può essere, secondariamente, svariate cose: rito di passaggio, occasione per feste in famiglia, integrazione dei guadagni per la commissione, piccolo mercato per i fabbricanti di tesine. In primo luogo, però, rilascia un titolo con valore legale, appunto perciò è di Stato. Ma siccome è proprio inadeguato a certificare alcunché, tutto il resto per me dovrebbe andar giù a cascata, o almeno non gravare sul bilancio dello Stato e avere come interlocutori possibili i TAR. 
Tra pochissimo inizierà pure l’informazione battente su cosa mangiare e come dormire e come ripassare e se assumere integratori di fosforo - tutte preoccupazioni che nascono dall’ansia della prestazione, come se ci fosse un vero obiettivo da raggiungere. 
Ma l’Esame è una liturgia dall’esito generalmente scontato, mentre capriccioso e incerto è il punteggio finale, stabilito da commissioni senza alcuno standard di riferimento.
Dieci anni così, un nuovo Esame davanti, alcune cose bisognerà che io cominci a dirle…


Nadia VidaleIl tappeto e la polvere, Brevi osservazioni sull’Esame di Stato, Cleup Editore, 2017.

giovedì 31 dicembre 2015

UN PREZZO DA PAGARE – Nadia Vidale


Entro in ufficio, biglietto anonimo sulla scrivania: "Ha telefonato un genitore dicendo che dalla classe 4 X è stato rimosso il crocifisso a seguito di votazione". La segnalazione è chiaro indice di riprovazione. Nel territorio, come si dice, e dato il periodo, il tema è di quelli caldissimi. Se il genitore ha telefonato, pretende un intervento, e intervento sia, e vediamo di essere precisi.
Vado in classe, riferisco la notizia, chiedo se corrisponda al vero, gli studenti confermano.
"Ma, scusate, era forse VOSTRO???". Disorientamento tra i ragazzi, che questa no, che non se l'aspettavano, perché a scuola si fanno tante cose, ma i fondamentali vengono - ed è un problema grave, su cui dovremmo riflettere - sovente mancati.
I ragazzi capiscono al volo. Quel pezzo di legno lì non era loro, come non lo sono infissi, cattedra e porte delle aule. Bene pubblico, indisponibile ovviamente al capriccio dei singoli, ma esiste pure l'abuso della democrazia.
Si scusano: "Non lo abbiamo distrutto, solo messo sul ripiano sotto la cattedra!". Bene, ci siamo capiti, il crocifisso torna al suo posto. Ok, ok.
Si giustifica il rappresentante: "Sono stato io, ho chiesto se a qualcuno desse fastidio che il crocifisso venisse tolto, visto che qua ci sono alcuni atei e due musulmani. I cristiani - mi corre un brivido lungo la schiena, i cristiani, alla loro età se uno di noi parlava così poteva essere solo perché lo stavano interrogando in storia romana... - i cristiani hanno detto che loro non si formalizzano, non si tratta del pezzo di legno e in fondo siamo una classe multietnica - e qui forse ci sarebbe stato anche l'invito a consultare il vocabolario, ma ci avrebbe portato fuori tema, per stavolta lasciamo... - e una sola persona ha votato contro. Ora abbiamo capito che non potevamo farlo".
"Bene, ragazzi, alla prossima. Ah, comunque... quel signore lì che avete rimosso, ricorderei a onor del vero che non ha torto un capello ad alcuno e tuttavia è finito, come appunto dice il suo nome, crocifisso. Vedete un po' se non ci sia qualcos'altro che si potrebbe rimuovere prima...". Altro pensiero che mi accompagna, no? Io sono per la rimozione degli insegnanti di RC dall’organico della scuola pubblica, ma ho una croce minimalista in ufficio, che sta bene lì non perché non sia mia né per il R.D.1924 né per le radici cristiane eccetera eccetera.
Sta bene lì perché mi ricorda che può esserci un prezzo da pagare per chi non sta al luogo comune, e qualcuno ogni giorno lo paga.

Nadia Vidale, dirigente scolastico

giovedì 19 novembre 2015

IMPARATE PAROLE - Nadia Vidale


Cari ragazzi,
a pochi mesi dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, i fatti di Parigi della scorsa notte hanno rinnovato in Europa l’esperienza della barbarie.
Stavolta, però, i terroristi hanno colpito uomini e donne riuniti in luoghi di pace e bellezza: ciò prova che lo “scontro di civiltà”, che alcuni temono, non c’è.
La civiltà sul pianeta è una soltanto: ne fanno parte i credenti, di tutte le fedi, che rifiutano che, in nome di Dio, possa giustificarsi il disprezzo dell’uomo, e i non credenti che rifiutano, in nome dell’intelligenza che a nessuno è negata, che una strage di innocenti possa mai rappresentare la soluzione a un qualsiasi problema. Ma che dire dei giovani che, a questa illusione atroce, sacrificano la vita propria e altrui? Quale arroganza li nutre?
La civiltà, unica sul pianeta, è di tutti e soli coloro che accettano di affrontare i conflitti, le crisi, le difficoltà con l’arma della parola, che però, come tutte le armi, occorre imparare a maneggiare.
Nella tristezza di questa giornata, si fa dunque strada la considerazione che, oggi, il vostro compito è più chiaro: leggete, ragazzi, imparate parole, imparatene tantissime, in tutte le lingue: ce n’è una per ogni sfumatura del vostro cuore e dei vostri pensieri, una per ogni sfumatura del cuore e dei pensieri degli altri; senza la sfumatura, tutto diventa piatto e l’infinita ricchezza di sé e dell’incontro con l’altro si perde, perché la comunicazione viene semplificata, banalizzata, abolita.
Imparate moltissime parole e esercitatevi a usarle: scoprirete che capirsi non è facile, che il malinteso è dietro l’angolo e il chiarimento arriva solo dopo, se ci diamo il tempo di arrivarci, se abbiamo o siamo disposti a cercare le parole per farlo. Sforzatevi di essere precisi, state attenti al dettaglio, siate pazienti se non capite subito o se qualcuno non vi capisce subito.
È un cammino che può essere lunghissimo e molte volte frustrante, ma una è la via della pace e non ammette scorciatoie. La pace non è andare tutti d’accordo: è capire che ciò che è radicalmente diverso può non essere nemico, pur restando diverso. È scoprire che non occorre annientare nessuno perché si compiano o il volere di Dio o il progetto della nostra vita.
Nadia Vidale, dirigente scolastico


giovedì 12 novembre 2015

MAMMA ORSA E IL REGISTRO ELETTRONICO – Nadia Vidale


ll papà infuriato scrive che il figliolo (quarta superiore...) ha dovuto restare a scuola un'ora in più dei compagni perché mancava la spunta di avvenuta lettura da parte del genitore dell'avviso di uscita anticipata, diffuso in un giorno in cui lo studente era assente da scuola. Mi intima
a) di indicargli il riferimento normativo che obbliga il genitore a consultare quotidianamente il registro, obbligo e norma che a lui constano non esistere;
b) se, appunto, obbligo e norma non c'è, di avvertirlo tramite mail o sms ogni volta che nel registro elettronico viene pubblicato qualcosa che lui debba necessariamente leggere.
Che dire?
Il figliolo ha diciassette anni. Perché il papà non lo lascia andare per i fatti suoi e invece si adopera perché gli sia tolto quello che considera il disagio di restare un'ora a scuola, disagio che il ragazzo oltretutto si è procurato da solo per non fare un clic sull'app del registro, fra le centinaia che fa nelle 24 h?
Che memoria corta abbiamo. Quando è entrato in questa scuola, il suo figliolo scriveva le comunicazioni sul libretto - gliele dettava un insegnante, col bidello che girava per le classi a comunicare la variazione di orario. Siccome, anche allora, non esisteva l'obbligo per il genitore di consultare ogni giorno il libretto, se il figliolo dimenticava di dirgli che c'era l'avviso da firmare, il giorno dopo se ne restava a scuola. Se il figliolo era assente il giorno dell'avviso, poteva recuperare l'informazione solo dai compagni di classe - più probabile ancora che restasse a scuola.
Oggi, il genitore può consultare la fonte ufficiale, a qualsiasi ora del giorno e della notte, con il figlio sia assente che, eventualmente, presente a scuola ma smemorato.
Il papà di un diciassettenne anch'io direi che non deve consultare tutti i giorni né il libretto né il diario - che contengono compiti per suo figlio, infatti, mica per lui. Sono compiti di suo figlio, che interpellerà il papà per la parte che eventualmente lo riguarda - per esempio, per acquisire una firma di autorizzazione. Potrebbe dunque chiedersi perché abbia un figlio così negligente nelle cose di scuola. Invece attacca la scuola.
Girava, qualche anno fa, un documentario sugli orsi. Mamma orsa partoriva e poi seguiva gli orsacchiotti insegnando loro varie cose, con un obiettivo chiaro (alte terminus haerens, Lucr. I, 77): renderli autonomi. Così, dopo due anni, lanciava un falso messaggio di allarme e i frugolotti si mettevano al sicuro arrampicandosi su un albero, da cui li avrebbero fatti scendere, molte ore dopo, la fame e la sete, ma la mamma non l’avrebbero trovata più e lei magari non si ricorda nemmeno quanti figli ha fatto. Ah, già! Questo è addestramento, non educazione.
Nadia Vidale, dirigente scolastico

martedì 3 febbraio 2015

LONDON APPLE EUROPEAN SUMMIT – Nadia Vidale


Parlare dei tre giorni di Londra come di una esperienza non mi riesce, e sono giorni che ci provo. Forse è perché le mie relazioni nascono sempre in costanza dell’evento, sorta di commentari che raccolgono note a mano a mano che le cose avvengono, e poi qualche volta vengono cuciti insieme. Qui non ho avuto il tempo di farlo, perché non sono mai stata abbastanza sola, se non il tempo, sempre insufficiente, per dormire.
Sola, lo sono stata soltanto nel lungo viaggio di andata, iniziato alle 5.30 del mattino e concluso intorno alle 14.00 del pomeriggio di giovedì, passando per vari mezzi (treno, autobus, aereo, metro) col sonno che a tratti reclamava un risarcimento e sempre - se si eccettua l’emozionante ricerca mestrina della stazione del bus, in tutto forse cinque minuti - del tutto tranquilla.
Scrivere da subito non si fa, occorre pur cominciare a raccogliere elementi della cosa. Il mio racconto di Londra comincia dunque all’uscita dalla metro, stazione di Paddington, l’aria frizzante sul viso e intorno un panorama di edifici inconsueto. E, subito, non c’e più tempo per abbandonarsi alla stanchezza. Siamo qui, abbiamo una manciata di ore. Bisogna prendere tutto quel che riusciamo a afferrare, non ci sarà un’altra volta a recupero di questa. (Non c’è mai, neanche nella vita quotidiana, dove però ci illudiamo di sperimentare di continuo la ripetizione).
Westminster Abbey, dimora delle glorie della monarchia - anche delle glorie civili, ma soprattutto delle teste coronate e dei loro satelliti. Costruita nel tempo, ampliata nei secoli e perciò contraddittoria, enorme, scura, orribili papaveri finti per il milite ignoto, lo splendido coro a scavalco dei secoli. Mi danno l’audioguida in italiano, la prendo perché, dove c’è spessore di storia e le conoscenze e la memoria cedono, lo sguardo non basta a suggerirci dove siamo. Ci fu anche un tempo in cui pensavo che fosse necessario sapere di cosa realmente si trattava nelle cose. Qualcuno dice che è un luogo di tombe, ma io non ne ho avvertita nemmeno una. L’ho vissuta come raccolta di omaggi - riconoscenza, devozione, sfarzo - nel monumento in cui si riconosce la nazione: noi siamo questi, noi siamo grazie a costoro. Noi siamo il Paese che ha espresso questo contributo alla civiltà (Isaac Newton, il Poet’s corner,…) di cui andiamo orgogliosi. Se sono corpi, sono conservati nella gloria.
Ha un che di artificiale da sempre, nella mia vita, l’esperienza estetica. Ci fu un tempo in cui mi pareva di assorbire: mi impegnavo con attenzione a guardare, cercando di imprimere da qualche parte, dentro di me, le immagini che ritenevo preziose. Adesso cammino e quello che vedo mi fluisce intorno e lo lascio andare, mi sfiora appena eppure mi accorgo che c’è: e qualcosa rimane.
Di Westminster mi è mancato il colpo d’occhio, la visione d’insieme, un po’ perché gli altari interrompono la navata e un po’ perché l’audioguida conduce di particolare in particolare. Dalla neutralità della descrizione emergono i costoloni del gotico avvolti verso l’alto come tende annodate, le trine del soffitto - pietra resa leggera e morbida come fosse tessuto - il raffinato pavimento italiano dell’incoronazione, le memori tombe di Elisabetta e Maria Stuarda.
All’uscita è freddissimo - ho lasciato sciarpa, guanti e berretto in hotel, ingannata da un sole che non ci mancherà mai, ma al tramonto riposa… -, doccia bollente, scendiamo per cena, arrivano tutti. Non c’è il tempo di costruire un gruppo affiatato, forse non siamo qui per questo, per cosa, invece?
A cena col pollo, gente nuova, storie soprattutto vecchie di scuola, entusiasmi nuovi di proposta. Come mi sento? Ascolto: dov’è che stiamo andando e cosa stiamo facendo? Che ci faccio qui, io che in vita mia mi sono occupata veramente poco di didattica, un po’ per disprezzo della pedagogia che tratta il bambino come un animale, un po’ perché a lungo dominata dall’idea che il sapere fosse cosa diversa e più importante del fare?
La scuola italiana è una grande macchina elefantiaca, come un popolo in marcia disorganizzata verso un dove che ognuno immagina a modo suo e a cui si reca nella condizione che gli è propria, perché si è unito alla marcia così come stava, quando gli è passata accanto - e chi aveva le scarpe giuste e chi no, e chi era ben provvisto di scorte sufficienti e chi, dopo un po’, si trova che gli manca questo e quello e ha perso i compagni o ne ha trovati di nuovi. Chi si ritira, chi protesta, chi pensa che sia l’occasione della sua vita, chi, altrimenti, non avrebbe saputo che fare.
Dopo cena, il grosso del gruppo va a dormire. Anch’io penso che sono in piedi da tanto e mi attende una giornata intera di seminario. Sarebbe saggio riposare, magari mi risparmio un mal di testa da sonno rubato.
Il gruppo piccolo resta fuori. Se si va a bere da qualche parte, non mi interessa. Facciamo invece due passi, ancora un’ora! Domani, se ci sarà il mal di testa, prenderò una pastiglia: ne prendo da settimane, per i postumi di una sciocca caduta in casa. Posso dedicarne una a una passeggiata nel buio dell’avventura in questa città.
Tower of London, Tower Bridge color celeste giocattolo, le imbarcazioni nella darsena. C’è qualcuno che, nella sua vita, si compra una barca e la ormeggia nel Tamigi. Come si fa parlare di “umanità”? Il bene dell’umanità, l’interesse, il progresso dell’umanità… Nome collettivo che assembla individui così tanto diversi e lontani che forse esige di chiarirsi ogni volta, all’uso, quale sia il sottoinsieme di riferimento.
Ho dormito benissimo e profondamente. L’avrei fatto, credo, ovunque non fosse troppo freddo. Il freddo mi atterra. Le grandi tragedie in cui ha avuto una parte decisiva- le ritirate di Russia, i lager polacchi - mi avrebbero fatto poco danno, perché la lotta sarebbe stata breve.
Venerdì, giornata Apple. Non avrebbe avuto senso arrivare fin qui per l’infilata di dimostrazioni in inglese - che in Italia si seguono comodamente in italiano. Tanto meno per il pistolotto finale del prestigioso motivatore. Ce l’ha invece perché la bellezza ha merito: e qui, dal luogo (che, all’indomani di Westminster, mi evoca un tempio laico), al ritmo degli incontri, alla moderazione dello slancio negli interventi (sempre trattenuto da una regola che al tempo stesso sembra sostenerlo), fino alla distribuzione del buffet, ovunque rimbalzano ordine eleganza sobrietà. Ma più ancora merita, perché la regia impeccabile lascia filtrare un appello inquieto, che corre per lo più sottotono ma, a tratti, emerge con prepotenza: il movimento (la ricerca, la scoperta, l’avvenire) non è mai scontato. Gli lotta contro l’inerzia, travestita da ogni sapere negativo sul limite delle risorse, proprie e altrui: mancanza di capacità, di mezzi, di tempo. Sarebbe una buona idea, se non fosse che…
Fuori, verso il tramonto, un’altra darsena, intanto che mi si costruisce a poco a poco una percezione di mondo che cambia e di cui io non mi ero accorta ancora.
Serata pub, volume di voci altissime che doppia la dimostrazione di scienze, in cui quattro erano scattati a parlare insieme e per un attimo mi ero chiesta se fosse un effetto voluto. Serata di pensieri avvolti dal rumore, ma dove stiamo veramente andando e da dove veniamo? Quando è cominciato? Dal pc. Ah, sì, è vero, il pc. Una potenza di calcolo spaventosa sulla scrivania di casa. Non ci faccio quasi nulla di ciò che ci potrei fare. Ma io conto poco. Conta quello che è realmente diventato possibile, che non lo era. Come lo è stato solcare i cieli in volo, come spostare un guardaroba pesante perché adesso le valigie hanno le ruote. Rivoluzioni, a cui non è facile applicare l’appropriato ordine di grandezza, perché varia a seconda di chi colpiscono e qualcuno non ne è toccato affatto e qualcuno ne ha la vita del tutto sconvolta.
Prima della notte, poche gocce di pioggia intorno al Big Ben. Stavolta resto al coperto, il ponte l’ho percorso ieri, resto a tentare un ritratto della House of Parliament che rassomigli a un maniero nella nebbia. Andate pure, io resto qui, che volete che mi succeda? La tranquillità senza la paura che, a sera tarda, avrei nel centro di Padova quasi a ogni angolo di strada.
Terzo giorno, lo choc al momento della colazione, tutt’a un tratto mi accorgo che ho al tavolo persone che lavorano tutte nella scuola primaria e nel primo grado… e tentano, e applicano! la didattica con le nuove tecnologie, intanto che noi ci attardiamo pigramente a considerare se fare una classe Ipad, se farne due… che in capo a quarant’anni copriremo tutta la scuola. Lo choc che il tempo stringe tantissimo e io lo capisco soltanto adesso e a scuola da me non lo sa nessuno… Arriveranno ragazzi che hanno imparato a usare altri strumenti, e noi cosa diremo loro? Di attendere quando saranno in terza che, se saranno fortunati, finiranno nella sezione sperimentale? Spiegando che troppo wifi nell’età della crescita fa male, che gli strumenti non servono se non si impara a ragionare e per quello intanto vanno bene carta e penna, che non abbiamo finanziamenti per dotazione e manutenzione e una formazione come si deve, la quale comunque non potrebbe essere obbligatoria se non con l’esonero dall’insegnamento o a fronte di una remunerazione, perché lavoriamo già così tanto?
Dopo colazione, il British Museum. Ho cercato di nuovo la sorpresa dei bassorilievi assiro-babilonesi, che mi aveva toccato così tanto la volta precedente. Gli assiro-babilonesi, nella scuola del sistema delle conoscenze, me li ero persi, o, per la verità, non c’erano mai entrati. Il libro parlava di figure rigide - i dignitari del re. Non raccontava la crudeltà della caccia in cui si scontravano il re degli uomini e quello delle belve, la ferocia del leone ruggente e colpito, vinto, infine, nei vari modi dell’uccisione e sempre col suggello della freccia in corpo, perché nemmeno il leone può essere, mai, superiore al re. Racconto che si squaderna in punta di cesello, finissimo nel tratto e drammatico nella narrazione - e i dignitari immobili stiano pure altrove, nei libri di storia.
Il Partenone. Dopo molti anni, smetto per sempre l’abito ortodosso. Oggi riconosco in me tutta romantica, ideale l’emozione di fronte a torsi mutili, splendida bellezza di cui sopravvive il ricordo, molto più che la traccia. Se penso allo sforzo che ho fatto a convincere Stefania di quanto fossero preziosi… Cos’era, poi? Seminagione del rispetto preconcetto per la reliquia… Che in tanto ha valore, in quanto fu parte…
Passaggio al Covent Garden con l’equivoco sull'Apple Market, perché le parole cambiano senso e il contesto si prestava a fraintendere e perciò nessuna traccia di Ipad fra bancarelle e artisti di strada. Però, neanche più le mele abbiamo trovato, solo l’insegna che mantiene il nome…
Passaggio in altro pub, quasi già consuetudine. Lasciamo la città su un autobus che sfiora l’Islamic Bank of Britain e mi percorre un brivido di scandalo, qualche risentimento dai fatti di Parigi ancora attivo, teocrazia è anche questo, un istituto laico sottoposto a un principio divino. Ma in tempo breve la memoria mi riconsegna l’immagine della banca affacciata sulla piazza della città natale, quando ero bambina Banca Cattolica del Veneto. Memoria labile.
Il luogo in cui ho sentito più vicino l’abbraccio della città è stato Piccadilly Circus. Piccadilly, dove le strade convergono su una piccola piazza e le insegne pubblicitarie incombono e tutto si concentra intorno alla fontana e si mette sotto la protezione dell’angelo, cuore di un posto pieno di gente: quanta gente ho visto in questi giorni che si muoveva andando ognuno per i fatti propri, e riempiva in su e e in giù le scale della metropolitana e innumeri negozi in Oxford Street, gente e soldi che vanno dappertutto, e per lo più credono di sapere dove…
Abbiamo preso l’aereo al volo (metafora appropriata). I prossimi giorni, settimane, mesi, a cominciare da subito, annoteranno la scrittura dellevento nella vita e nel lavoro.
Il ritorno, sappiamo, non esiste.

Nadia Vidale

venerdì 7 novembre 2014

LA PIOGGIA NEL COLLEGIO – Nadia Vidale


Pensavo di cavarmela rapidamente, oggi, da un Collegio andato direi insolitamente lineare. Invece, quasi in capo alla discussione, è arrivata la grandine e i professori, bilanciando Collegio e automobili, hanno ritenuto di mettere al coperto le macchine.
Così almeno immagino sia andata, perché ho visto uno sciame uscire per poi rientrare con difficoltà e forse qualcuno non è più rientrato.
Poi invece ha cominciato a entrare l’acqua in auditorium, un rivolo lungo il lato esposto, che ha destato un grandissimo interesse e allora anche quelli che non avevano le macchine si sono affrettati a raggiungere le uscite di emergenza per guardare fuori e qualcuno, per giustificarsi, diceva che voleva vedere dove andava l’acqua…
Sicché c’era grandissima cagione di distrazione nell’aula e inoltre cominciavano a spegnersi le luci.
Io avevo la parolina magica: “O tornate a sedere o io sospendo il collegio e lo riconvoco domani alle tre, così non piove”, ma stentavo a dirla perché il radiomicrofono dava segnali di cedimento e non era facile sentirmi.
Il punto più alto è stato raggiunto quando i soliti geni hanno cominciato a protestare che, a microfono spento, non si sentiva… restando seduti sparsamente qua e là, perché all’oratore è pericoloso avvicinarsi (ti ascolto, sì, se mi fai arrivare la voce fin dove sono io, sennò vedi di alzare il volume che non sarò mai io ad alzare le…).
A un certo punto si è capito che facevo sul serio e, col telefono senza fili, la notizia della riconvocazione ha preso consistenza e indotto anche i più restii e affascinati dalla potenza della natura che si accaniva con successo contro l’edificio della scuola a riprendere posto.
Il mio vero timore era che le luci partissero tutte e a quel punto il guaio era grosso, perché la delibera era importante e per approvarla per alzata di mano, le mani, occorre che si vedano.

Una Preside, durante il Collegio dei docenti

giovedì 23 ottobre 2014

LA VERA STORIA DEL DILUVIO UNIVERSALE – Nadia Vidale



La vera storia del diluvio è che tutti stavano lavorando all'arca, perché il patto di Dio con Noè era che ci sarebbe stato un grande evento dimostrativo, un prova di potenza dell'Infinitamente Paziente, per dare ai peccatori la seconda possibilità.
E infatti pensa tu se Noè poteva farcela da solo, nonostante figli e nipoti, a costruire un'arca del genere...
Orbene, l'opera era pressoché ultimata, cominciano a cadere i primi goccioloni: chi molla la mazza, chi la pialla, la pece e se ne vanno a testa all'aria, chi a vedere il fiume che ingrossa negli argini, chi a casa a ritirare il bucato steso, gli scienziati sulla montagna, a interrogarsi se l'acqua scenda dal cielo perché pure esso è in pendio e così via.
E Noè a sgolarsi: Venite dentro, che piove! ma niente da fare, annegarono tutti... solo le bestie gli hanno dato retta perché, si sa, gli uomini, quanto a cervello, sta tutto sulla luna, come scoprì de visu il mai abbastanza celebrato Astolfo.

Nadia Vidale
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