Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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domenica 23 aprile 2017

LE COSE CAMBIANO IN CONTINUAZIONE – Pema Chodron


Le cose cambiano in continuazione, se solo potessimo rendercene conto. Nulla diventa come vorremmo, come lo sogniamo. Lo stato non centrato, intermedio è una situazione ideale, una situazione in cui non veniamo catturati e possiamo aprire i nostri cuori e le nostre menti oltre il limite. E' uno stato delle cose molto tenero, non aggressivo, senza confini precisi.
Stare con quella instabilità - stare con un cuore spezzato, con uno stomaco che brontola, con un senso di disperazione e la voglia di rivincita - questa è la via del vero risveglio. Rimanere con quell'incertezza, imparare il trucco di rilassarsi nel mezzo del caos, imparare a non farsi prendere dal panico - questa è la via spirituale.
Imparare il trucco di afferrare noi stessi in modo gentile e compassionevole è la via del guerriero. Noi afferriamo noi stessi migliaia di volte ancora, che ci piaccia o no, ci irrigidiamo nel rancore, nell'amarezza, nella giusta indignazione - ci irrigidiamo in ogni modo, anche in un senso di sollievo, un senso di ispirazione.
Ogni giorno potremmo pensare all'aggressività nel mondo, a New York, Los Angeles, Halifax, Taiwan, Beirut, Kuwait, Somalia, Iraq, dappertutto. In tutto il mondo ciascuno attacca sempre il proprio nemico e il dolore si intensifica di continuo.
Ogni giorno potremmo riflettere su questo e chiederci: "Voglio aggiungere anche io aggressività al mondo?" Ogni giorno, quando la situazione si fa tesa, potremmo semplicemente chiederci: "Voglio praticare la pace o voglio andare in guerra?".
Pema Chodron, Se il mondo ti crolla addosso. Consigli dal cuore per tempi difficili, Feltrinelli, Milano 2012


sabato 21 novembre 2015

SCAPPARE – Mariapia Veladiano


E come si fa?
La terra è una. La vita è una. La nostra umanità è una. Scappare vuol dire lasciare indietro qualcosa. Cosa lasciamo? Quale lontano possiamo raggiungere se la vita ci precede, ci avvolge, ci abita?
Certo è una tentazione e come tutte le tentazioni è un'illusione. Sembra una via d'uscita: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40).
È la croce il problema. La struggente chiarezza del male che tocca le nostre vite. E la tentazione di scappare è forse di chi più sente e ha sentito, e per contagio di comune umanità continua a sentire che non c'è riparo al dolore. Perché il dolore è mistero da sempre e nel suo mistero non preferisce i malvagi, a nostra consolazione.
Gli altri non ci pensano neanche a scappare e la calcano bene la terra, con falcate lunghe che lasciano il solco, e a gambe larghe fanno sosta davanti alle croci sbracciandosi a dire che quelli se la son voluta, che basta saper vivere. E non sanno la vergogna di sé.
È il nostro restare, insieme e non divisi, che sfida ogni giorno la barbarie di tutte le croci. Qui in terra. Sperando il giorno, ma saldi a passare insieme la notte.
«Può darsi che domani spunti l'alba del giudizio universale: allora, non prima, noi deporremo volentieri l'opera per un futuro migliore». (Dietrich Bonhoeffer)
Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti, vita, p. 60-61.


mercoledì 18 novembre 2015

LE STESSE LACRIME - Francesco Callegari


Lo stesso piombo di Beirut e di Parigi ha lacerato la nostra mente 
e il nostro cuore.

Mogli e fratelli, figlie e mariti sono pianti da lacrime 
dello stesso colore.


venerdì 9 ottobre 2015

IL DONO DELLA TERAPIA – Irvin D. Yalom


«I consigli di questo libro - scrive Irvin Yalom nell’introduzione al volume - sono tratti da annotazioni relative a quarantacinque anni di pratica clinica. Esso rappresenta un mèlange particolare di idee e tecniche che ho trovato utili nel mio lavoro. Queste idee sono così personali, presuntuose e qualche volta originali che difficilmente il lettore potrà trovarle altrove».
La terapia e il rapporto analista-paziente sono, come indica il titolo, l’argomento proprio di questo libro, ma in una maniera appunto così originale che l’esperienza terapeutica vi appare come una sorta di avventura, e analisti e pazienti vi sono raffigurati come singolari «compagni di viaggio» anziché come distaccati guaritori e infelici che soffrono.
Il dono della terapia è un viaggio unico ed emozionante al termine del quale la terapia apparirà come un itinerario complesso, un cammino arduo e non privo di trappole, tuttavia sempre ricco di soste appaganti e affascinanti scoperte. Un’intima collaborazione che, citando le parole di Reiner Maria Rilke, poeta caro a Yalom, è in grado di dare a tutti noi gli strumenti per affrontare «ciò che c'è di irrisolto nei nostri cuori».
Irvin D. Yalom, Il dono della terapia, Neri Pozza, Vicenza 2014.


lunedì 5 ottobre 2015

L'ANCORA - Rabbi Nackman di Braslav


Se capita che, malgrado la vostra fame di felicità, tocchiate il fondo, richiamate a voi la forza attinta in tempi più felici. Non è escluso che la gioia ritorni.

Rabbi Nackman di Braslav

sabato 13 giugno 2015

QUANDO I GIAPPONESI RIPARANO UN OGGETTO ROTTO - Jim Butcher


Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. Questa tecnica è chiamata “Kintsugi.”
Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente.
E la differenza è tutta qui: occultare l’integrità perduta o esaltare la storia della ricomposizione?
Chi vive in Occidente fa fatica a fare pace con le crepe. “Spaccatura, frattura, ferita” sono percepiti come l’effetto meccanicistico di una colpa, perché il pensiero digitale ci ha addestrati a percorrere sempre e solo una delle biforcazioni: o è intatto, o è rotto. Se è rotto, è colpa di qualcuno.
Il pensiero analogico -arcaico, mitico, simbolico- invece, rifiuta le dicotomie e ci riporta alla compresenza degli opposti, che smettono di essere tali nel continuo osmotico fluire della vita.
La Vita è integrità e rottura insieme, perché è ri-composizione costante ed eterna. Rendere belle e preziose le “persone” che hanno sofferto… questa tecnica si chiama “amore”.
Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle, della musica profonda, del grande gioco. Il dolore fa due cose: Ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio, a volte. In alcuni casi ti lascia più forte. In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro
I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi l’hanno capito più di sei secoli fa – e ce lo ricordano sottolineandolo in oro.

Jim Butcher (giornalista del New York Times)

sabato 13 dicembre 2014

IL PERDONO – Massimo Gramellini


Non esiste una gomma per cancellare i ricordi.
Però esiste qualcosa che può ripulirli da tutto il dolore che contengono.

Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, p. 115.

sabato 1 novembre 2014

DISPERAZIONE - Mariapia Veladiano


C'è questo stupore che il tempo continui, continui oltre il nostro dolore. Com'è possibile che le persone abbiano ancora un'intenzione, una meta da raggiungere, un'incombenza da sbrigare, magari di corsa, senza niente pensare. E c’è un governo con un decreto astratto e maldestro da votare, assenti tutti dai banchi, tranne gli interessati. Perché ancora sono convinti che un interesse, il loro interesse, valga la pena. Mentre il mondo è tutta una pena. E tutti fan finta di credere a qualcosa: la cena da preparare, il bollo da incollare.
Bisogna averla conosciuta la disperazione. Toccato la fine del nostro mondo, addossati al confine ultimo, niente più in là. Non il caldo di un desiderio che ci aspetta almeno come promessa, non le mani che ci sfioravano e che abbiamo perduto, nemmeno la fantasia, la più bugiarda delle promesse. Niente.
E niente si può dire perché la disperazione sente solo parole insincere, che dicono la consolazione senza conoscerla, e fanno male come una predica distratta a un funerale.
Che ci trovino accanto. Silenziose presenze senza pretesa. Senza giudizi. Senza soluzioni. Dove trovar pace. Una vastità accogliente. Che non giudica. Che offre riposo. Non siamo soli, non siamo soli.

Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti vita, Einaudi, Torino 2013, p. 17.

domenica 24 agosto 2014

LE PAROLE DEL FIGLIO (2) - Paulo Coelho


L'angelo sfiorò la spalla del vecchio e tutti e due furono proiettati in un futuro lontano. Comparve intorno a loro un luogo immenso, gremito di migliaia di persone, che parlavano una strana lingua.
Il vecchio pianse di gioia. “Sapevo che i versi di mio figlio poeta erano belli e immortali,” disse rivolto all'angelo, fra le lacrime. “Vorrei che mi dicessi quale delle sue poesie queste persone stanno recitando.”
L'angelo, allora, si avvicinò al vecchio con affetto: si sedettero entrambi su una delle panchine che si trovavano in quel luogo immenso. “I versi del tuo figliolo poeta sono stati molto popolari a Roma,” disse l'angelo. “Piacevano a tutti, e tutti si divertivano. Ma quando il regno di Tiberio ebbe fine, anche i suoi versi furono dimenticati. Queste parole sono quelle del tuo figliolo che è entrato nell'esercito.”
Il vecchio guardò l'angelo con sorpresa.
“Tuo figlio è andato militare in un luogo distante ed è divenuto centurione. Era anche un uomo giusto e buono. Un pomeriggio, uno dei suoi servi cadde ammalato e stava per morire. Tuo figlio, allora, avendo sentito parlare di un Maestro che guariva gli ammalati, camminò per giorni e giorni in cerca di quell’uomo. Strada facendo, scoprì che l'uomo di cui andava in cerca era il Figlio di Dio. Incontrò altre persone che erano state guarite da lui, apprese i suoi insegnamenti e, pur essendo un centurione romano, si convertì alla sua fede. Finché, una mattina, giunse al cospetto del Maestro. Gli raccontò del servo ammalato. E il Maestro si offrì di riaccompagnarlo fino a casa. Ma il centurione era un uomo di fede e, guardandolo nel profondo degli occhi, capì di trovarsi al cospetto del Figlio di Dio, quando tutti intorno a loro si alzarono. ”
“Queste sono le parole di tuo figlio,” disse l'angelo al vecchio. “Sono le parole che pronunciò davanti al Maestro in quel momento e che non furono mai più dimenticate: Signore, io non sono degno che entri nella mia casa, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà salvo.”

Paulo Coelho, L’alchimista, 1988, ed. it. Bompiani, Milano 1995, P. 173-174.

domenica 29 giugno 2014

TU… – Valentina Zanconato


Questa la dedico a te,
tu, che da piccina mi guardavi,
mi scrutavi, mi studiavi con i tuoi occhi cupi.
Tu, che per un’ora restavi lì ad osservarmi.
Cosa c’era che non andava? Ero io il problema?
Non ti piaceva il paesaggio?
Le persone che parlavano troppo?
E se tutte queste cose non ti piacevano,
e non ti facevano sentire te stessa,
perché dare quell’ “addio”,
a me che sono tua figlia?
Io che sono stata il tuo “spero”,
il tuo “voglio una bimba”.
Io ti cerco, ma tu non ci sei…
Mai!

Valentina Zanconato, classe III D, Istituto Comprensivo di Grantorto (Padova). 

sabato 19 aprile 2014

TRE MADRI – Fabrizio De André




Madre di Tito:
"Tito, non sei figlio di Dio,
ma c'è chi muore nel dirti addio".

Madre di Dimaco:
"Dimaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre".

Le due madri:
"Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l'immagine d'un'agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia noi piangere, un po' più forte,
chi non risorgerà più dalla morte".

Madre di Gesù:
"Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.

Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama - Nostro Signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.

Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.

Non fossi stato figlio di Dio
t'avrei ancora per figlio mio".


Fabrizio De André, La buona novella (1970)

venerdì 18 aprile 2014

VIA DELLA CROCE – Fabrizio De André




"Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav'uomo di nome Pilato."

Ben più della morte che oggi ti vuole,
t'uccide il veleno di queste parole:
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode per te trucidati.

Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
misurano a gocce il dolore che provi;
trent'anni hanno atteso col fegato in mano,
i rantoli d'un ciarlatano.

Si muovono curve le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore
ma filtra dai veli il dolore:

fedeli umiliate da un credo inumano
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò a Maddalena,

di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d'un redentore.

Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti al pensiero che tu li saluti:
"A redimere il mondo" gli serve pensare,
il tuo sangue può certo bastare.

La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.

Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.

Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.

Il potere vestito d'umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.

Ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l'ingresso
a chi ti ama come se stesso.

Sono pallidi al volto, scavati al torace,
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore,
eppure hanno un posto d'onore.

Non hanno negli occhi scintille di pena.
Non sono stupiti a vederti la schiena
piegata dal legno che a stento trascini,
eppure ti stanno vicini.

Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morir sulla croce anche loro,
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo, son solo due ladri.
Fabrizio De André, La buona novella (1970)
Le immagini sono tratte dal film "L'ultima tentazione di Cristo" (1988), regia di Martin Scorsese.


giovedì 17 aprile 2014

MARIA NELLA BOTTEGA D’UN FALEGNAME – Fabrizio De André




Maria:
"Falegname col martello
perché fai den den?
Con la pialla su quel legno
perché fai fren fren?
Costruisci le stampelle
per chi in guerra andò?
Dalla Nubia sulle mani
a casa ritornò?"

Il falegname:
"Mio martello non colpisce,
pialla mia non taglia
per foggiare gambe nuove
a chi le offrì in battaglia,
ma tre croci, due per chi
disertò per rubare,
la più grande per chi guerra
insegnò a disertare".

La gente:
"Alle tempie addormentate
di questa città
pulsa il cuore di un martello,
quando smetterà?
Falegname, su quel legno,
quanti corpi ormai,
quanto ancora con la pialla
lo assottiglierai?"

Maria:
"Alle piaghe, alle ferite
che sul legno fai,
falegname su quei tagli
manca il sangue, ormai,
perché spieghino da soli,
con le loro voci,
quali volti sbiancheranno
sopra le tue croci".

Il falegname:
"Questi ceppi che han portato
perché il mio sudore
li trasformi nell'immagine
di tre dolori,
vedran lacrime di Dimaco
e di Tito al ciglio
il più grande che tu guardi
abbraccerà tuo figlio".

La gente:
"Dalla strada alla montagna
sale il tuo den den
ogni valle di Giordania
impara il tuo fren fren;
qualche gruppo di dolore
muove il passo inquieto,
altri aspettan di far bere
a quelle seti aceto".
Fabrizio De André, La buona novella (1970)


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