Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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sabato 15 settembre 2018

CHE SENSO HA? - Anna Asti



Un’estate a Kampala è l’esperienza che, del tutto impreparata, mi sono trovata a vivere lo scorso agosto. È nato tutto da un incontro, quello con Daniele che mi aveva affascinata parlando della sua esperienza in “Italia Uganda onlus”.

Cosa ci fa una “preside”, come qualcuno ancora mi definisce, a Kampala? Impara!
Impara perché si trova a lavorare in varie scuole così diverse da quelle in cui ha sempre lavorato.

Impara dai bambini della primaria BCK l'accoglienza, il rispetto, il sorriso. Vederli alzarsi al termine di ogni lezione per ringraziare il docente che ha lavorato con loro è un’emozione unica. Sentire che, alla richiesta di descrivere come si sentono quando pensano alla scuola, rispondono felice, sereno, grato è da lasciare senza parole. Niente è noia, niente è scontato. Impara dai ragazzi della secondaria l'impegno, la determinazione, la voglia di costruire un futuro migliore per sé, ma soprattutto per gli altri.

Il contrasto tra la povertà diffusa e la ricchezza interiore è stridente, un po’ come le sensazioni vissute al rientro in Italia. L’inizio dell’anno scolastico porta, per chi come me coordina una scuola, tante situazioni difficili da affrontare: l’inevitabile cambio di docenti, i funambolismi per far quadrare le cose, le lamentele. Potrebbe venire la tentazione di rinunciare a tutto.

Una cosa, però, ci salva sempre ed è chiedersi che senso abbia tutto quello che si fa. Il senso sono loro, sono i bambini e i ragazzi che ogni giorno ci vengono affidati. Che sia in Uganda o in Italia sono loro la bussola che deve orientare il nostro lavoro. Non ci toglierà la fatica, ma sarà il loro sorriso grato ad illuminare le nostre giornate.

Anna Asti, dirigente scolastico

martedì 3 maggio 2016

IL VERO ASCOLTO PORTA CON SE’ LA LIBERTA’ - Jiddu Krishnamurti (1895-1986)


L'atto di ascoltare è completo in se stesso; il semplice atto di ascoltare porta con sé la libertà. Ma a voi interessa veramente ascoltare? Oppure quello che vi importa è intervenire per tentare di modificare la confusione che vi portate dentro?
Se ascoltaste... cioè se vi rendeste conto delle vostre contraddizioni, dei vostri conflitti, senza preoccuparvi di costringerli a entrare in un particolare schema di pensiero, forse questi finirebbero.
Vedete, noi stiamo sempre cercando di essere qualcosa, di raggiungere uno stato particolare; vorremmo fare determinate esperienze ed evitarne accuratamente altre. Ma in questo modo la nostra mente rimane sempre occupata, non è mai tranquilla, non è mai in grado di ascoltare il rumore delle sue lotte e delle sue pene.
Siate semplici... non cercate di diventare qualcosa o di aggrapparvi a qualche esperienza.
Jiddu Krishnamurti


venerdì 18 marzo 2016

SIATE CIO’ CHE SIETE – Dale Carnegie (1888-1955)


Voi siete qualcosa di assolutamente nuovo e originale sulla faccia della terra. Siatene fieri. Cercate di sfruttare le doti che la natura vi ha elargito. In ultima analisi, ogni arte è autobiografica. Potete cantare soltanto quello che siete. Potete dipingere solo quello che siete. Dovete essere ciò che le vostre esperienze, il vostro ambiente e quello che avete ereditato hanno fatto di voi. Bene o male, siete costretti a coltivare il vostro orticello. Bene o male, siete costretti a suonare il vostro piccolo strumento nell’orchestra della vita.
Dale Carnegie, Come vincere lo stress e cominciare a vivere, 1944, ed. it. Bompiani, Milano 1994/2015, p. 168


lunedì 12 ottobre 2015

ESPERIENZE DI CONFINE - Irvin D. Yalom


Ma come passare dal modo di tutti i giorni al modo ontologico? I filosofi parlano spesso di «esperienze di confine» – episodi urgenti che ci scuotono via dalla «quotidianità» e inchiodano la nostra attenzione sull’«essere» in sé. L’esperienza di confine più potente è il confronto con la propria morte.
Irvin D. Yalom, Il dono della terapia, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 131.


venerdì 15 maggio 2015

CAMBIARE LA SCUOLA DALL’INTERNO – Lizanne Foster


Che cosa facciamo noi insegnanti mentre aspettiamo che i politici ci diano ragione sul fatto che scuole ormai ottocentesche sono inadeguate al ventunesimo secolo e che dovremmo incoraggiare la creatività e non la competizione tra gli studenti?
Cambiamo il sistema dall’interno.
Prima lavoriamo su noi stessi per trovare il coraggio di abbandonare il nostro ruolo di fornitori di contenuti e accettare l’idea di dover cambiare ruolo continuamente nelle nostre classi: a volte dobbiamo essere facilitatori, altre volte mentori, altre ancora padroni di casa che creano uno spazio sicuro per l’apprendimento.
Spostare continuamente il focus del lavoro in classe in questo modo non è un’impresa facile, e non finisce mai. Non è questione di un giorno. Richiede l’umiltà di capire che non dobbiamo necessariamente essere una fonte di saggezza per i nostri alunni. Richiede pazienza e tenacia.
Dobbiamo condividere la nostra idea di cambiare focus con i colleghi, per creare la magia della creatività combinatoria. Prendere qui e lì per trovare il mix più adatto ai nostri studenti. Si procede sempre per tentativi ed errori. E bisogna anche leggere molto.
Sappiamo che è una fatica di Sìsifo, a volte il masso rotola di nuovo giù fino ai piedi della collina. Ma dobbiamo trovare la forza di ricominciare. E ci riusciremo, con l’aiuto dei nostri amici e alleati che capiscono perché lo stiamo facendo e perché ne vale la pena.
Un insegnante non può fare nulla per cambiare il modo in cui è suddivisa la giornata nelle scuole, ma può fare molto per il modo in cui è organizzata la giornata della sua classe. Io insegno lettere agli adolescenti in un quartiere degradato. Abbiamo quattro blocchi di lezioni al giorno: due la mattina e due dopo la pausa pranzo di 40 minuti, ogni blocco è di 77 minuti.
Il tipo di attività che posso svolgere in classe dipende dal momento della giornata. A volte è una lezione frontale, a volte un’attività sperimentale, altre un controllo per vedere a che punto sono gli studenti, altre ancora è un momento di relax o di meditazione prima di cominciare a lavorare. Decido che cosa fare in base ai risultati delle ricerche su come funziona il cervello degli adolescenti. La mattina presto e alla fine della giornata non sono al massimo delle loro capacità, quindi in quelle ore evito le lezioni frontali.
Uso la classe come il ponte degli ologrammi di Star Trek. A volte è un laboratorio, a volte un paese, altre un tribunale o un parlamento e a volte un salotto dove si conversa. Qualche volta, naturalmente, è solo una classe.
Incoraggio gli studenti a farmi domande direttamente, via email o in forma anonima usando la popolarissima Question box. Le loro domande mi fanno capire che cosa li preoccupa e che cosa manca al mio insegnamento. Una collega di matematica ha adottato lo stesso sistema adattandolo alla sua materia, ma la sua scatola si chiama Panic box e gli studenti possono metterci le domande sui contenuti del corso che li mandano nel panico.
Riduco al minimo le lezioni teoriche e cerco per quanto posso di usare i programmi in un modo che consenta ai miei studenti un tipo di apprendimento basato sulla risoluzione di problemi (apprendimento per problemi) e l’esperienza diretta (apprendimento esperienziale). Quando ho cominciato, non sapevo come si chiamassero questi metodi. Nella maggior parte dei casi “costruisco la strada camminando”, cerco solo di creare esperienze di apprendimento significative per gli studenti.
Nei miei sogni, immagino che l’apprendimento basato sulla soluzione di problemi e sull’esperienza diretta sarà al centro di quello che si farà nelle scuole pubbliche in futuro.
E spero veramente, nonostante la campagna per tagliare fondi all’istruzione pubblica, che riusciremo a mantenerla in piedi. Nonostante i loro molti difetti, le scuole pubbliche sono ancora molto importanti. Non sono solo istituzioni che rilasciano un titolo di studio ufficialmente riconosciuto, sono anche spazi sicuri per quegli studenti che a casa hanno una vita difficile, sono oasi nei quartieri più pericolosi, sono i posti in cui molti studenti fanno il loro unico pasto quotidiano e in cui possono parlare con un adulto delle loro paure e preoccupazioni.
Le scuole pubbliche sono tra i pochi luoghi pubblici rimasti che funzionano come comunità, sono spazi per le persone, non per il profitto.
In quale altro posto al mondo un adolescente che per il suo sedicesimo compleanno riceve in regalo un’automobile da 30mila dollari può stare seduto vicino a uno che fa un pasto decente solo tre volte alla settimana?
Con tanti spazi comuni ormai occupati dalle aziende private, la scuola pubblica è vitale per molti studenti. È ancora la grande livellatrice, il luogo dove ragazzi che provengono da classi sociali diverse possono incontrarsi su un terreno comune.
È vero, il sistema dell’istruzione deve cambiare, ma intanto lavoriamo per ridargli slancio. Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca.
Cambiamo il sistema dall’interno.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Lizanne Foster è un’insegnante canadese e ha scritto questo articolo sul suo blog.


giovedì 14 maggio 2015

SONO UN’INSEGNANTE E VI CHIEDO SCUSA - Lizanne Foster


Cari studenti delle superiori del ventunesimo secolo,
la settimana prossima comincerà un nuovo semestre e mi sento costretta a chiedervi scusa.
Nonostante tutti i nostri sforzi, noi insegnanti non siamo riusciti a persuadere quelli che hanno il potere politico a cambiare il nostro sistema educativo. A quanto sembra, non siamo capaci di convincere il nostro premier che investire sulla vostra istruzione andrebbe a vantaggio di tutti noi e non inquinerebbe né l’acqua né l’aria.
Perciò, finché i vostri bisogni educativi non prevarranno su quelli delle multinazionali straniere, vi prego di accettare le mie scuse.
Mi dispiace che dobbiate venire a scuola così presto la mattina, anche se varie ricerche nel campo delle neuroscienze hanno appurato che il cervello degli adolescenti non funziona in modo ottimale prima delle dieci.
Mi dispiace che dobbiate chiedermi il permesso di uscire dalla classe per andare a fare pipì anche se avete già la patente, un lavoro part-time e state prendendo decisioni importanti per il vostro futuro dopo la scuola.
Mi dispiace che ogni giorno siate costretti a stare seduti per sei ore anche se molti studi hanno dimostrato che stare seduti troppo a lungo danneggia sia le capacità cognitive sia la salute.
Mi dispiace che siate divisi per età e costretti a procedere attraverso il sistema scolastico con i vostri coetanei come se l’età anagrafica avesse qualcosa a che vedere con l’intelletto, la maturità, le competenze o l’abilità.
Mi dispiace che quelli di voi che incontrano difficoltà a scuola non ricevano il giusto sostegno perché finanziare i vostri bisogni non è tra le priorità dell’attuale politica economica.
Mi dispiace che dobbiate studiare materie che non vi interessano in un’epoca in cui la somma totale delle conoscenze umane raddoppia ogni dodici mesi.
Mi dispiace che vi facciano credere che per ottenere il massimo dei voti dovete competere tra voi, quando i progressi umani sono sempre stati frutto di una collaborazione che spesso a scuola viene considerata “imbrogliare”.
Mi dispiace che siate costretti a usare dei libri di testo che contengono informazioni superate e troviate a scuola tecnologie obsolete della cui manutenzione nessuno si occupa.
Mi dispiace che quello che chiamano insegnamento personalizzato in realtà non lo sia affatto. L’insegnamento veramente personalizzato costa troppo, lo capite?
Mi dispiace che sia improbabile che la Strategia innovativa, la riforma scolastica della British Columbia tanto strombazzata dal governo attuale, produca cambiamenti significativi a parte un nuovo modo per calcolare quello che si fa a scuola.
Ma, soprattutto, mi dispiace che il sistema educativo vi costringa a far parte di un’economia estrattiva quando il nostro ambiente, senza il quale non ci sarebbe nessuna economia, sta subendo una crisi climatica che ci imporrà una rapida riconfigurazione di tutto quello che stiamo facendo in campo sociale, politico ed economico, e per la quale siamo del tutto impreparati.
Mi dispiace moltissimo.
Vorrei che la vostra curiosità non fosse soffocata dal conformismo scolastico.
Vorrei avere una bacchetta magica per darvi il tipo di scuola in cui ci sono spazi per analizzare ed esplorare, sperimentare e apprendere in modo diverso.
Vorrei avere il potere di riaccendere la passione e il desiderio di imparare che leggo nei vostri occhi prima che entriate a scuola.
Vorrei potervi aiutare a ricordare che prima di essere studenti eravate scienziati che sperimentavano, scoprivano, si ponevano domande e facevano collegamenti.
Eravate anche poeti… vi ricordate quanto divertiva e sorprendeva gli adulti intorno a voi il modo in cui descrivevate le cose?
Siete nati per imparare. Non potete non imparare.
Mi dispiace che vi facciano credere che l’unico apprendimento che conta sia quello che avviene a scuola. Anzi, poi, solo quello che avviene in classe. E nemmeno conta tutto quello che si impara in classe: alla fine conta solo quello che troverete nei test.
Vorrei potervi portare in altri posti dove il sistema educativo pubblico è una priorità di politici convinti che la futura società del loro paese dipenderà dalle caratteristiche del sistema educativo.
In un’epoca in cui la nostra vita dipende dall’ingegnosità nel risolvere i problemi più difficili, sprechiamo le potenzialità che ha la nostra mente di trovare soluzioni creative. L’adolescenza è il periodo in cui gli esseri umani raggiungono il culmine del loro sviluppo cognitivo. Le prove della vostra capacità di pensare “fuori degli schemi” e di trovare soluzioni creative sono ovunque intorno a noi.
Vorrei poter mostrare alle autorità ciò che dovrebbero vedere per rendersi conto di quello che siete capaci di fare, se solo ve ne dessero la possibilità.
Se solo…
Con sincero affetto.
Un’insegnante
(Traduzione di Bruna Tortorella)


Lizanne Foster è un’insegnante canadese e ha scritto questo articolo sul suo blog.

sabato 22 novembre 2014

LA PROPRIA VIA – Enzo Bianchi


Ognuno ha una sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza, abbandonando la concezione della vita come accumulo di esperienze diverse: la decisione deve essere forte e risolutiva, senza tributi pagati al mito delle esperienze diverse e molteplici che produce solo dilettantismo.
Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e la si persegue con fedeltà e perseveranza, alla fine si conosce la gioia, la bellezza, la pienezza.
Enzo Bianchi, prefazione a M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1990, p. 9.


mercoledì 12 novembre 2014

MIA MOGLIE ILLESA DOPO UN ICTUS - Stefano Aurighi


“Non sto tanto bene.  Ci vedo male, un po’ offuscato ”.
Mi dici così, mentre mi baci e sposti indietro i capelli in un gesto che ti ho vista fare tante volte.  Sei bellissima Ilaria, lo penso tutte le volte che ti vedo, anche se siamo sposati da 17 anni e ci conosciamo dai tempi dell’università.
Sono le cinque e mezzo del pomeriggio e a Bologna è buio. D’altro canto è il 14 gennaio, siamo nel cuore dell’inverno, le giornate sono ancora cortissime.  L’aria è secca, ma non c’è il freddo che ti aspetteresti.
Mi avevi  telefonato da Modena un paio d’ore prima: “Ho il pomeriggio libero, quasi quasi prendo il treno, vengo a Bologna, guardo qualche vetrina e poi torniamo insieme a Modena quando finisci di lavorare. Ok?”.
“Ok”, ti avevo risposto. “Alle cinque devo intervistare uno. Finisco di fare l’intervista e poi ci vediamo in via San Carlo”.
Alle cinque e mezzo ci vediamo sotto il portico, proprio di fronte al fornaio. 
“Non sto tanto bene.  Ci vedo male, un po’ offuscato ”, mi dici appena mi vedi.
“Sarai un po’ stanca, sarà un calo di pressione”.  Boh, che ne so. 
“Ma si, si. E poi ho mangiato poco a pranzo”, dici tra te e te, a bassa voce. E cammini di fianco a me, guardando per terra. 
“Vuoi che facciamo qualche ripresa”?, ti chiedo. “Ho la telecamera nello zainetto, se vuoi ci mettiamo pochi minuti”.
Lavoro da un anno a un documentario su via San Carlo. Questa cosa del documentario più di una volta ti ha fatta incazzare: “Già sei poco a casa, in più ti fermi anche a fare ‘sta roba”, mi hai detto un paio di volte.  
So che non c’entra via San Carlo, è solo che sono poco a casa. Pochissimo. E questa cosa ti pesa, devi pensare a tutto tu. Alla casa. Alle ragazze, Francesca, Giulia, le nostre meravigliose bimbe,  anche se sono già grandi, nell’imbuto dell’adolescenza. Ma un giorno mi hai spiazzato:
“Mi piacerebbe esserci”. 
“Dove”?
“Nel documentario. Mi riprendi mentre cammino sotto i portici”, mi hai detto qualche settimana fa.
E adesso ci siamo, in via San Carlo. Me lo chiedi di nuovo: “Mi riprendi mentre cammino?”.
“Si, tu fai finta che io non ci sia. Cammina senza guardare l’obiettivo della telecamera, ignorala. Guarda avanti, come se io non ci fossi e mi passi di fianco, ok?”.
Fai qualche passo e ti allontani, poi ti giri. Sei sotto le volte del portico, male illuminato.
“Ok, adesso cammina verso di me”, ti dico.
Fai qualche passo, mi passi di fianco e poi ti fermi.
“Facciamo un’altra ripresa per sicurezza”, ti dico.
Prima di spegnere la telecamera guardiamo come sono venute le immagini: “Non mi si vede neanche in faccia”, dici. E in effetti è così, luce alle spalle, il tuo viso rimane nell’ombra.
“Vuoi che rifacciamo?", ti chiedo.
“No, dai, andiamo a casa. Ho questo fastidio che non passa, andiamo a casa, facciamo un’altra volta”.
Ci prendiamo per mano, ti racconto piccole cose insignificanti mentre ci avviamo verso la stazione, ma vedo che sei da qualche altra parte con la testa. “E se ho qualcosa di grave”?, dici improvvisamente.
“Ma dai, figurati”.
“C’è questa cosa strana, non ci vedo bene, ma in un modo che non so spiegarti. Vedo come delle macchie. E poi nel mezzo c’è qualcosa, vedo un po’ male nel mezzo. Vedo tutto un po’ sfocato. E ho mal di testa”.
“Ma si, dai, sarai stanca. Andiamo a casa e stasera ci prendiamo una pizza, puro polleggio, senza cucinare”.
“Va bene, riusciamo a prendere il treno delle 6 e 52?”.
“Se ci diamo una mossa prendiamo quello prima, quello delle 6 e 28”, ti dico.
Acceleriamo un po’ il passo, ma l’ansia non molla la presa, te lo leggo in faccia. ”Senti Ila , chiama Valeria e le racconti cosa ti sta succedendo, così almeno non rimani con questo pensiero”. Valeria è tua sorella, è un medico, lavora in un Pronto Soccorso. E’ brava, e naturalmente tu ti fidi doppiamente di lei, dato che è tua sorella.
La chiami mentre siamo quasi in vista della stazione, ascolto quel che le dici mentre camminiamo, ti sento ridere, sei più tranquilla.
“Mi ha detto di andare al pronto soccorso se questa cosa non smette entro mezz’ora”.
“Beh, fermiamoci qui a Bologna”, propongo.
“Ma no, andiamo a Modena, mi passerà”.
“Sei sicura? Non vuoi che ci fermiamo almeno in farmacia per chiedere qualcosa?”.
“No, dai, andiamo, sono stanca”.
Sul piazzale della stazione di Bologna incontriamo anche Patrizia, una collega di lavoro. Un saluto veloce, due chiacchiere al volo, poi noi ci dirigiamo al piazzale Ovest. 
E lì mi dici: “E se ho un ictus”?
“Un ictus? Beh, prima devi firmare i documenti per l’eredità, così finalmente posso comperarmi la villa con la piscina. Poi fatti pure venire l’ictus”. 
Ci facciamo due risate,  in 17 anni di matrimonio il mio umorismo nero ha fatto breccia, in qualche caso è stato l’unico sistema per sciogliere i nodi delle tensioni. Ma poi torni seria: “Se prima o poi dovesse succedermi  qualcosa, stacca tutti i fili, io non voglio rimanere un vegetale”.
“Vai tranquilla Ila, passo io e stacco tutto”.
Saliamo sul treno, io sfoglio il giornale e tu mandi un messaggio alle tue amiche per dire che quella sera non andrai in palestra. Poi infili gli occhiali da vista e il tuo viso si illumina: “Con gli occhiali ci vedo molto meglio, è tutto più nitido”. 
“Ma si, vedrai, è solo questione di stanchezza. E poi stai invecchiando, stai diventando una talpa, come me, che senza occhiali non vado da nessuna parte”. 
La Repubblica, il martedì, ha un inserto dedicato alla salute che io di solito cestino senza neanche leggerne una riga, perché è pieno di tutte le possibili sfighe che ti possono capitare e io, da buon ipocondriaco, preferisco altre letture. Lo butto sempre  via.  Quel giorno, però,  non lo faccio, me ne dimentico, perciò mi imbatto senza volerlo nella pagina di apertura del fascicolo, dove si parla della possibilità di ridare la vista – con un occhio elettronico – a chi l’ha persa o a chi non l’ha mai avuta.
Giro il giornale verso di te: “Anche se ci vedi male sei a posto, visto? Mal che vada ti mettiamo un occhio bionico”. Ridi, mi mandi a cagare.
Mentre il treno supera Castelfranco rispondi al telefono, è Giulia che ti saluta. Chiudi la telefonata, poi suona il mio cellulare: è sempre Giulia: “Ciao papi, tutto bene”? 
“Si, certo, tu tutto bene? Ma non hai appena chiamato la mamma?”
“Si, come fai a saperlo”?
“Sono qui con lei sul treno, tra poco arriviamo a casa”.
“Papi, io però vado in palestra,  mi vieni a prendere alle otto e mezzo”?
“Si, stasera mangiamo la pizza”.
“Wow!”
“Ci vediamo dopo, ciao”.
Chiudo la telefonata mentre il treno entra nella stazione di Modena e il mio cellulare squilla di nuovo. Questa volta è Andrea, mio fratello. 
Scendiamo dal treno, tu mi precedi sul marciapiedi mentre io chiacchiero al telefono. Ti vedo un po’ indecisa prima di imboccare il sottopassaggio, come se non sapessi da che parte andare. 
E’ un segnale, ma non lo colgo.
Ti indico con un dito  le scale mentre continuo a parlare al cellulare. 
Scendiamo nel sottopassaggio, poi risaliamo e usciamo sul piazzale. 
Siamo a Modena, sono quasi le sette di sera. Non lo sappiamo, ma stanno per iniziare i momenti più terrificanti della nostra vita.
Mentre camminiamo sotto al portico che conduce alla rotatoria di piazzale Natale Bruni, ti volti qualche volta indietro. Cammini qualche passo avanti a me. C’è più freddo rispetto a Bologna e tu, per ripararti, ti stringi in te stessa,  con le mani che in un abbraccio vanno a coprire le spalle. E, più di una volta, ti giri indietro.  Io non ci faccio caso, ma quel semplice movimento, quel guardare indietro è invece un segno inequivocabile di quello che sta per accadere. Lo avremmo capito solo nei giorni successivi, rimettendo in ordine i ricordi di quei momenti.
Attraversiamo le strisce pedonali ai piedi del cavalcavia. Dobbiamo andare verso sinistra, ma tu tiri dritto, sei una decina di metri più avanti di me. Io, che sono ancora al telefono, ti chiamo: “Ila”. Tu non ti giri. Ti chiamo con più insistenza. “Ilaa, Ilaaa”. Niente, non ti giri. 
Dico a mio fratello al telefono: “Aspetta un attimo”, poi dico più forte. “Ilaaaaa”. E dai,penso, muoviti, ma dove stai andando?
Ti giri solo per un attimo verso di me e poi ti volti, dandomi nuovamente le spalle.  
Io rimango pietrificato.  
Non sono sicuro di avere visto bene.  
In un secondo ti raggiungo, ti giro verso di me e il mondo finisce in quel momento.
Il tuo viso è deformato, l’occhio sinistro e la bocca hanno una piega completamente innaturale, che ti cambia il volto. 
Tutto si fa buio intorno a me,  tutto ciò che ci circonda in quel momento scompare e rimani tu che mi fissi smarrita mentre riesco solo a dire “oh, cazzo, cazzo!”. Mio fratello, è ancora lì ad aspettare che riprenda la telefonata: “Andrea, ti mollo”, urlo. E immediatamente chiamo il 118, mentre tu mi guardi senza capire.
“Presto, venite, mia moglie ha un ictus in atto. Siamo in piazzale Natale Bruni”. Dico proprio così: un ictus in atto, come se avessi appena sfogliato un dizionario medico alla voce “ictus”. Tu mi guardi e mi dici: “Ma che cavolo stai dicendo”?? Anzi, provi a dirlo, perché non riesci a parlare. E te ne rendi conto solo in quel momento. Non ti eri resa conto di cosa stava succedendo neanche quando tutto stava succedendo.  
Sul tuo viso alterato non si muove niente, l’ictus ti ha paralizzata in un’espressione fissa che mette una distanza abissale tra noi due, tra te e il mondo.  Provi a parlare, ma ti esce solo un suono indefinito, monocorde, mmmmmmmmmmm, mmmmmmm.  
“Venite, presto”, continuo al telefono. La sensazione della catastrofe mi avvolge, ma da qualche parte ci dev’essere una riserva di lucidità che mi spinge a mantenere la calma, a parlarti tranquillamente. Ti prendo sottobraccio mentre tu continui a guardarmi con quell’espressione bloccata e provi a parlare, senza riuscirci. Spiego al 118 dove siamo, in quale punto del marciapiedi che circonda la grande rotatoria. Mi incasino, ovviamente, perché dico che siamo dal lato della stazione, anche se siamo dalla parte della chiesa. 
Decido di avvicinarmi al semaforo pedonale mentre ti tengo stretta. Camminiamo piano e io ti ripeto con calma quello che sta succedendo, cercando di minimizzare le cose:  “Hai l’occhio un po’ chiuso”, mento, “ma per fortuna siamo arrivati in tempo, non ti preoccupare”. Sparo cazzate a raffica, non ho la minima idea di quel che sta succedendo, vedo solo che il tuo viso è deformato, la tua voce non c’è più. E tu cominci a non reggerti in piedi, la parte sinistra del tuo corpo comincia a non rispondere. “Tranquilla Ila, tutto ok, tutto ok, per fortuna siamo arrivati in tempo”, continuo a dire.  Ma parlo da solo. Ti tengo stretta, ma non reagisci, mi guardi con quell’espressione che non dice niente. Io comincio a credere che tu non ci sia più, che tu non abbia coscienza di quello che sta succedendo, che tu  ti stia allontanando con la mente verso chissà quale lido da cui potresti non tornare mai. 
Suona il cellulare, è il 118 che mi ricontatta per chiedermi dettagli. Mi chiedono se sei cosciente. "Si. È cosciente", rispondo. Mi chiedono se cammini. "Si, cammina, ma fa sempre più fatica, la sto sorreggendo". Mi dicono di tenerti tranquilla, o almeno credo di capire questo. 
Arriviamo in pochi passi al semaforo pedonale, io non riesco più a tenerti, il tuo corpo non risponde e ti devo tenere quasi in braccio. Al semaforo ci sono altre persone, che non colgono quello che sta succedendo, vedono solo una coppia malamente abbracciata, con lei quasi appesa a lui. Non so dove trovi la lucidità, ma improvvisamente metti la mano destra nella tasca della giacca,  estrai le chiavi della macchina e me le dai provando a dire qualcosa, provando a stare in piedi. Ma ormai non stai più in piedi, ti sorreggo e chiedo a un uomo lì di fianco di aiutarmi: “Mi può aiutare? Mia moglie sta male”, dico. E ti stendo sull’asfalto, con il viso rivolto al cielo, la schiena sulle strisce pedonali. 
Qualche persona comincia a farsi intorno a noi, io mi chino su di te, continuo a parlarti anche se non capisco se riesci a sentirmi, se capisci. Ma il fatto che tu mi abbia dato le chiavi della macchina mi fa pensare che tu sia lucidissima, anche se totalmente inerme. 
Il traffico scorre veloce a mezzo metro da noi, qualcuno si mette in mezzo alla strada a deviare leggermente le auto per evitare che possano travolgerci. E io ti tengo la mano continuando a dirti che per fortuna abbiamo preso questa cosa in tempo. Ma è solo per darti coraggio, perché io comincio ad avere la sensazione di averti persa. Tu guardi da qualche parte, indefinita. Io ti guardo ma non so cosa fare. Siamo due mondi completamente separati, non c’è possibilità di comunicazione.
Comincio a pensare a cose pratiche, alle ragazze che ci aspettano a casa, a cosa dirò, al fatto che stanotte la passerò certamente all’ospedale con te e con le ragazze, a cosa ci aspetta da qui alle prossime ore. A come finirà.
Si sentono le sirene dell’ambulanza in lontananza, ti faccio coraggio: “Ecco, sono già qui”. Mi alzo in piedi, guardo in direzione delle sirene, ma non vedo niente. Quasi contemporaneamente mi cercano di nuovo al cellulare. E' il 118, mi dicono che non riescono a trovarmi e allora spiego dove sono, dico che siamo di fronte al Tempio, che siamo proprio in corrispondenza del semaforo pedonale prima del cavalcavia. L’ambulanza fa un giro a vuoto nella rotatoria, passa a pochi metri da noi e esce dalla parte opposta. Cazzo no, non da quella parte, non da quella parte!! 
Urlo per la prima volta, urlo alle persone che sono lì intorno di fermare l’ambulanza, di fare qualcosa. E in tre corrono al centro della rotatoria, fermano il traffico, si sbracciano per farsi notare dall’ambulanza che intanto si è riavvicinata. E’ questione di pochi secondi. L’ambulanza nota il trambusto nella nostra zona, si ferma immediatamente proprio di fronte al Tempio e subito scendono due addetti che corrono veloci verso di noi.
Si  chinano su di te, ti chiamano. “Ci sente? Ci sente?”, ti chiedono. Tu non rispondi, sei immobile anche se hai gli occhi aperti. “Faccia un cenno con la testa”, ti dicono. E tu rispondi con un cenno. Si, li senti. “Come si chiama”?
Se ci fosse una parte comica, questo sarebbe il momento. Uno dei due medici, chino su di te, si gira verso di me e mi chiede: “E’ sua figlia”?
Beh, vabbè che la mia stempiatura ha raggiunto un livello record e che i pochi capelli che mi sono rimasti virano al grigio senza pietà, ma che dimostrassimo trent’anni di differenza proprio non me l’aspettavo.  Ma i tuoi capelli biondi stesi come un foulard lì sull’asfalto e i tuoi occhi azzurri, ti danno evidentemente un’aria da ragazzina. “E’ mia moglie”, rispondo, e dentro di me un po’ rido e penso: “Questa domani la racconto a Paolo e Davide”. 
Ti prendono la mano destra e ti dicono di stringerla. La stringi.
Ti prendono la mano sinistra e ti dicono di stringerla. Tu pensi: “Dov’è la mia mano sinistra? Dov’è il mio braccio sinistro? Dov’è la mia parte sinistra”? Non c’è. Il tuo cervello l’ha cancellata. 
“Stringa la mano sinistra”, ti ripetono.
Niente. 
“Stringa la mano destra”. E tu la stringi. 
“Adesso la sinistra”. Niente, la sinistra non c’è. 
Nel frattempo è arrivata una seconda ambulanza, un’auto medica, credo.
Ti fanno ancora qualche prova, sono in tre su di te. Mi chiedono di mettermi un po’ in disparte.
“E’ un ictus”, dice uno dei medici.
“Ecco”, penso io. 
Ti caricano velocissimi  sulla barella e ti portano  verso l’ambulanza. Sento uno dei medici che dice di avvisare il Pronto Soccorso che stanno arrivando con un ictus. Io ti seguo a piedi per qualche metro, entro nell’ambulanza, ma il medico mi dice di scendere, che li dovrò seguire con la macchina, andranno all’ospedale di Baggiovara, il Sant’Agostino Estense, alle porte di Modena. 
Una donna, un medico, scende dall’ambulanza e mi chiede di rispondere a qualche domanda. Come ti chiami, dove e quando sei nata. Poi mi chiede quando hai iniziato ad avere i sintomi: “E’ fondamentale essere precisi nei tempi”, mi dice. Lo ripete: fondamentale. Io dico che ci siamo visti intorno alle cinque e mezzo e che tu mi avevi detto che da una mezz’oretta non stavi bene. Lei indossa i guanti monouso, azzurri. Scrive sulla superficie di quello che indossa sulla mano sinistra. “E’ allergica a qualche farmaco”? “No”, rispondo sicuro. Mi chiede se prendi farmaci, poi insiste di nuovo sull’eventuale allergia a qualche medicinale, bisogna essere sicuri. Io rispondo a tutto. Poi sale sull’ambulanza e chiude la portiera.
Dal momento in cui ho chiamato il 118 a quando se ne vanno a sirene spiegate, dopo aver fatto tutti i test lì sul posto, sono passati 15 minuti. Sono stati velocissimi. E adesso volano verso Baggiovara. Dentro, i medici, continuano a dire al conducente: “Passa con il rosso, vai, vai passa con il rosso!”. Durante il tragitto i medici ti tengono monitorata,  tra di loro continuano a dirsi che non riesci a parlare.
Tu, dentro di te, ripeti come un mantra: “Non sta succedendo a me. Non sta succedendo a me”.  
Io rimango con l’ultima immagine che ho di te:  stesa sull’asfalto, muta, semiparalizzata.
Chiamo subito Valeria, tua sorella: “Ilaria ha avuto un ictus”, le dico, anche se faccio un po’ fatica a parlare. 
“Dove la stanno portando?”, chiede lei?
“A Baggiovara”.
Valeria dice che ci raggiungerà al più presto, di tenerla aggiornata. La saluto e metto giù, ma quasi subito lei mi richiama: “Se ti chiedono l’autorizzazione a farle la trombolisi tu dagliela”, mi dice. Io non ho la minima idea di cosa sia la trombolisi, immagino che si tratti dell’intervento che le dovranno fare. Ok, dico, trombolisi.
Torno al semaforo, raccolgo il mio zainetto, la tua borsa e la giacca che ti hanno tolta per visitarti. Tutto ciò a cui riesco a pensare in quel momento è l’organizzazione: primo, chiamare Giulia che sta per iniziare l’allenamento di ginnastica artistica. Se non ha ancora iniziato passerò a prenderla, poi passeremo a casa a prendere Francesca e, insieme, andremo all’ospedale. E poi quel che sarà, sarà.
Chiamo Giulia, il telefono suona a vuoto. Mai una volta che rispondano, né lei né Francesca.  Dopo qualche istante mi arriva un messaggio su Whatsapp: “Papi, sono a ginnastica”, scrive Giulia.
Rispondo: “Ti viene a prendere la Ceci. Poi ti spiego”.  
Poi chiamo Francesca sul cellulare. Niente, non risponde neanche lei. Chiamo sul telefono di casa, finalmente risponde: 
“Ciao Franci”
“Ciao papi, scusa ma non sono riuscita a rispondere al cell, ero di là”
“Franci, senti, ti devo dire una cosa. La mamma non è  stata tanto bene”
“Oddio papi cosa succede!??!”
“No, no, niente, tranquilla. Non è stata tanto bene, aveva mal di testa, ma un mal di testa forte e allora abbiamo pensato che fosse meglio portarla all’ospedale per un controllo. Io sto andando lì, vuoi venire con me”?
“Ma ovvio, certo che vengo. Ma papi sei sicuro che va tutto bene?”
“Si, si, adesso arrivo. Senti, fatti trovare giù, portami il caricabatterie del mio cellulare”.
Salgo in macchina e chiamo Cecilia. Le devo chiedere di andare a prendere Giulia in palestra, io non saprei come fare.  Ma non risponde, allora chiamo Oreste, suo marito. “Ciao Stefano”, risponde lui. “Oreste, ciao. Senti, abbiamo un’emergenza. Purtroppo Ilaria ha avuto un ictus”. 
“Nooooo, non è possibile. Oh nooo”, dice Oreste. Sento la sua disperazione, siamo amici da tanti anni, lui è un informatore farmaceutico, sa esattamente di cosa stiamo parlando. Sa che stiamo camminando su un filo. “Oreste, io mi sto fiondando a casa a prendere la Francesca, potete andare voi a prendere la Giulia in palestra? Lei non sa ancora niente, non volevo dirglielo con un messaggio”.
“Andiamo noi, si”, dice Oreste. Sento la sua voce rotta, tutto intorno a noi precipita. Chiudo la telefonata mentre percorro in macchina la discesa del cavalcavia che fiancheggia lo stabilimento della Maserati.
Arrivo sotto casa, Francesca è già lì in strada che mi aspetta. Sale in macchina: “Come sta la mamma”?
“Franci, la mamma ha avuto un ictus”, le dico. Francesca ammutolisce. 
“La cosa buona – spiego – è che siamo stati velocissimi. Adesso andiamo lì, è in buone mani”. Ma lo dico solo per darle coraggio. Non ho nessuna idea di che cosa stia realmente succedendo.
“Ma cosa può succedere papi?”
“Non lo so Franci. La cosa buona è che siamo stati velocissimi”, ripeto. Ma invento. 
Francesca ha sedici anni, non posso comunque trattarla come se fosse una bambina: “Franci, dobbiamo prepararci al fatto che ci aspetta un periodo molto pesante. Comunque andrà, adesso stiamo tutti vicini alla mamma, ma vedrai che andrà tutto bene”.
“Si”, risponde Francesca con un groppo in gola che non la fa parlare. Piange nel buio della macchina mentre sulla tangenziale voliamo verso l’ospedale.
“Ascoltiamoci un po’ di musica”, dico accendendo la radio. 
Ripeto a Francesca che dobbiamo essere forti, stare vicini. Lei annuisce. 
Mi chiede se morirai. 
Entriamo al Pronto Soccorso e ci fanno accomodare nella sala d’attesa di un ambulatorio. A pochi metri da noi, dietro una porta, ci sei tu. Sei arrivata già da un po’. Quando ti hanno scaricata dall’ambulanza è stato come assistere al pit stop di un gran premio di formula 1. Incinque o sei ti si sono fatti intorno, ti hanno spogliata, ti hanno messo un camice e la procedura è partita. Bisogna capire cosa succede,dove si annida il grumo di sangue che chiude l'arteria e che sta provocando l’ictus, bisogna fare in fretta. Hai freddo, hai molto freddo. La tac risulta mossa perché hai i brividi, tremi. Ma si capisce comunque perfettamente cosa ti sta succedendo.
Noi aspettiamo fuori. Francesca si infila le cuffie, la musica le attutisce l’ansia.
Esce un medico, una donna. E’ uno dei medici che compone lo staff della Stroke Unit di Baggiovara, l’unità che si occupa del trattamento degli ictus. E’ un’unità di rilievo internazionale visti i risultati, ma io ancora non lo so. La dirige Andrea Zini, un medico giovane, bravo. Guida con sicurezza un team giovane e affiatato. Questo, alla fine farà la differenza. La dottoressa ci dice che a minuti uscirà Stefano Vallone, il neuroradiologo che si sta occupando di te. Ci darà tutte le informazioni. Ha già parlato con te, ma non puoi rispondere, perciò illustrerà a me quel che succede. Nel frattempo ti hanno fatta scrivere su un foglietto, che la dottoressa mi porge. La scrittura è incerta, ma è tutto chiaro. Come prima indicazione mi scrivi di chiamare Valeria. Già fatto, penso. Poi dici di occuparmi di Giulia, che è in palestra. Anche a Giulia abbiamo pensato. Poi ci sono altre scritte, tra cui avvisare i tuoi genitori.
Aspettiamo qualche istante, poi dalla stanza esce Vallone.
Ci spiega che hai una sofferenza cerebrale dovuta a un ictus. L’ictus è stato causato dalla dissezione della carotide e successiva formazione di un trombo che è andato a occludere il flusso del sangue in una zona del cervello. L’80% di quella zona sta soffrendo. Bisogna fare in fretta prima che i danni cerebrali diventino irreversibili.
Ci dice che a Baggiovara hanno una metodica che ha dato buoni esiti, ma i tempi sono fondamentali, perciò bisogna agire subito.
“La trombolisi”, dico io.
Lui, paziente, dice che ci sono due strade. La prima sarebbe quella di effettuare la trombolisi, cioè il trattamento farmacologico che scioglie il trombo e garantisce di nuovo l’irrorazione del cervello. 
Ma nel tuo caso c’è un problema che complica tutto:  l’arteria da cui è partito il trombo, la carotide, è lesionata. Ogni arteria è fatta di tre cerchi concentrici. Quello più interno si è staccato e si è spostato verso il centro, formando una piccola rientranza, una sacca che sporge verso la zona centrale della carotide. E’ proprio in quella sacca che il sangue si è coagulato e che  poi si è consolidato in un grumo che è partito verso il cervello. Quindi c’è un doppio problema: il trombo, su nel cervello; e l’arteria lesionata, più giù, all’altezza del collo.
Vallone non ci gira intorno e dice che non sa come si comporterà nei prossimi minuti la carotide. Il rischio potenziale è che l’arteria, dopo la dissezione che ha provocato la formazione del trombo, improvvisamente si chiuda del tutto, impedendo al sangue di salire al cervello. Se questo dovesse succedere, sarebbe un disastro.
Se scegliesse di iniziare a effettuare la trombolisi e la carotide si occludesse proprio durante il trattamento, spiega Vallone, a quel punto lui non potrebbe più fare niente e non ci sarebbero possibilità di tornare indietro.
Quindi, niente trombolisi.
L’ipotesi, allora, è di occuparsi innanzitutto della carotide, metterla in sicurezza, in sostanza aggiustarla, riparare la zona lesionata con uno stent, una gabbia che sostituisce la parte lesionata dell’arteria. Poi, una volta messa in sicurezza la carotide, risalire fino all’arteria cerebrale e rimuovere il grumo di sangue con uno stenttriever, uno strumento che permette di intrappolare il trombo e recuperarlo, liberando l'arteria. Questo intervento, che io trovo fantascientifico, si chiama trombectomia.
Ma i tempi – ripete Vallone – sono strettissimi. Scommettiamo sui tempi per avere buon esito, ma bisogna fare presto, dice.
Io dico “certo, va bene”. E un secondo dopo lui è già rientrato nell’ambulatorio, dove tu sei sveglia e lucida, ma non puoi parlare. 
“Vedrai che andrà tutto bene Franci, siamo in buone mani, hai sentito il dottore? Vedrai che adesso sistemano tutto. Dai dai dai che tutto si sistema”, dico alla Francesca stringendola. Lei si asciuga le lacrime. 
Una dottoressa si avvicina a noi e mi dice: “Vorrei spiegarvi di nuovo quello che sta succedendo, perché non sono sicura che abbiate capito cosa sta succedendo”.
Francesca si fa piccola dentro il cappotto, quasi ritraendosi, e affonda le mani dentro le tasche, aspettando le parole della dottoressa. 
“Sua moglie ha una seria sofferenza cerebrale, che comporta…” 
Io la fermo, le dico che può parlare liberamente e apertamente se ci sono delle cose da sapere. Dico che mia figlia è grande, quindi può dirci quello che ci dobbiamo aspettare. La dottoressa allora guarda Francesca, le chiede quanti anni ha.
“Sedici”, risponde Francesca.
“Sedici”, osserva la dottoressa. “Sei grande, si. Grande, ma ancora così giovane”. E poi ci spiega di nuovo quello che sta succedendo. Ma non aggiunge niente di nuovo, avevamo capito che eravamo in una situazione di rischio estremo. Francesca fa qualche domanda alla dottoressa, soprattutto quando parla di “rischi”, di “conseguenze”. Chiede quali rischi, quali conseguenze. Poi la dottoressa rientra nella stanza in cui stanno iniziando a intervenire sulla carotide. Entreranno con una sonda dall’arteria femorale e risaliranno per posizionare lo stent.
Nel frattempo nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso è arrivato Oreste. Faccio qualche telefonata, chiamo Paolo, da cui sarei dovuto andare quella sera e gli racconto cosa sta succedendo. Lui dice che arriverà subito lì a Baggiovara. Gli dico che mi fa piacere. Rispondo ai messaggi che iniziano ad arrivare. Mio fratello Andrea, con cui stavo parlando proprio mentre l’ictus si manifestava, mi scrive chiedendo cosa stia succedendo. Ricevo una telefonata di Valeria, mi dice che sta arrivando a Baggiovara insieme a tuo papà e tua mamma, Augusto e Gabriella. 
Quando arrivano, racconto cosa sta succedendo. Non ci sono parole, c’è poco da dire. Tuo papà Augusto, poi, è laureato in medicina, ha piena consapevolezza di tutto. E tu sei sua figlia, la consapevolezza deve fare molto male in questi casi. Poi Valeria può seguirmi nella parte interna del pronto soccorso, in cui sono ammessi solo i parenti stretti. Riesce a parlare con un medico. Alla parola “dissezione” non trattiene lo stupore. Io non avevo capito che la dissezione della carotide fosse una cosa così complessa, non sono un medico e non capisco il grado di pericolosità. Ma intuisco che le cose sono evidentemente ancora più serie di quanto io immaginassi. Parliamo dell’assurdità di quello che sta succedendo proprio a te, che non hai nessun fattore di rischio. Hai solo 46 anni, vai in palestra, sei magra, non fumi, non bevi, hai addirittura la pressione bassa.
L’intervento, intanto, procede. Noi aspettiamo lì fuori dall’ambulatorio, ma facciamo anche avanti e indietro dalla sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove nel frattempo sono arrivati in tanti. Paolo, Davide, Oreste. E poi Piero, Enrico, Diana, Cecilia, Giacomo. E altri che alla notizia si precipitano. Il mio cellulare suona, amici che chiedono cosa stia succedendo, che si offrono di aiutarci nel modo che riteniamo più idoneo, che ci fanno sentire la loro vicinanza. 
Valeria spiega a tuo papà che si tratta di una dissezione. E tuo papà, in quel momento, sembra perdere le speranze. La dissezione di un’arteria difficilmente lascia scampo, pensa tra sé e sé, memore dei suoi studi.
Giulia non è ancora arrivata, ma la sua lezione di ginnastica è finita, tra poco sarà qui. E le spiegherò cosa sta succedendo. Dovrà essere forte nella fragilità dei suoi 14 anni. Quando esce dalla palestra rimane sorpresa. Non aveva letto il mio messaggio, non sapeva che non sarei andato a prenderla. Ad aspettarla ci sono Cecilia, la moglie di Oreste, e Carlotta, amica del  cuore sia di Francesca che di Giulia. 
La scusa con cui la accolgono è che tu sei all’ospedale con un mal di testa molto forte. E le dicono che io sono lì con te. E poi il discorso devia su cose la mettono subito in guardia. Nel tragitto verso l’ospedale, infatti, Cecilia e Carlotta le fanno domande che sembrano fatte apposta per prendere tempo, per non dare spazio a niente che non sia un diversivo. 
Giulia si irrigidisce appena un po’, ma non fa domande. 
Quando arriva al Pronto Soccorso, vede che siamo tutti lì. Lei entra, io le vado incontro, la prendo sottobraccio e la porto fuori con me, la mia voce cede mentre parlo, mentre le dico che la mamma ha avuto un ictus. 
Giulia piange disperata, mi abbraccia forte, in un secondo è passata dalla prospettiva di una pizza e film in tv a quella della mamma che rischia di morire. Io la abbraccio, le dico che però adesso stai bene, che stai meglio, anche se sono frasi che non hanno senso. Nei giorni successivi Giulia mi confiderà che quando io le dicevo “adesso sta meglio”, lei si aspettava che io da un momento all’altro aggiungessi una cosa come “adesso che è finito tutto, adesso che è in cielo”. Adesso che è finita, adesso che ha finito di soffrire, sta meglio. Giulia teme che io dica questo.
Il tempo scorre, io e Valeria facciamo la spola tra l’ambulatorio e la sala d’attesa. Continuano le telefonate. Chiamo i miei, racconto senza troppe parole cosa sta succedendo. Mio papà mi richiama, dice che il giorno successivo mia mamma verrà a Modena e starà lì fino a quando ne avremo bisogno. Sento anche mio fratello Riccardo, mi dice di tenere duro, loro sono idealmente con noi.
Dentro l’ambulatorio l’intervento procede. La carotide deve essere messa in sicurezza, bisogna assolutamente stabilizzare tutto e poi iniziare con l’intervento. Posizioneranno lo stent nella carotide e poi risaliranno verso il cervello: asporteranno il coagulo che sta causando l’ictus, togliendolo dall'arteria cerebrale media destra.
Tu sei ancora ingabbiata in una dimensione di distacco da tutto, non parli, non muovi il braccio sinistro. E nei giorni successivi avremmo capito che quando eri sotto al portico, che ti giravi in continuazione, lo facevi perché cercavi di capire chi fosse che ti toccava la spalla. 
Chi era? 
Non c’era nessuno, era il tuo braccio. Ma il tuo cervello non lo riconosceva più e tu lo percepivi come un corpo estraneo appoggiato sulla spalla. Ecco perché ti giravi. 
Per un momento sono fuori, nel piazzale del Pronto soccorso. 
Mi avvicina Francesca, in silenzio. Mi abbraccia. Mi chiede: la mamma morirà? 
Anche Giulia vuole sapere: la mamma può morire? 
Siamo noi tre, vicini. Io baro, dico che non puoi morire. Spiego quali potranno essere le conseguenze. 
Giulia mi chiede: “Ma potrebbe parlare come Bossi”?
Nell’ambulatorio tutto procede. Tu sei sveglia e cosciente, ti hanno fatto solo un’anestesia locale nella zona in cui hanno inserito il catetere.
Bisogna evitare assolutamente che la carotide si chiuda, ripararla prima che questo possa succedere. 
E invece succede.
Quello che non deve succedere, succede.
La carotide si chiude. 
La sacca che si era formata, improvvisamente collassa verso il centro dell’arteria e la chiude. Stop. Il sangue non passa più. 
Inizia il conto alla rovescia per le funzioni cerebrali.
Vallone, che nel monitor sta guidando il catetere per posizionare lo stent, mantiene il sangue freddo. Ormai è vicinissimo alla zona lesionata, alla zona che adesso si è chiusa. La decisione di mettere innanzitutto in sicurezza l’arteria, si dimostra la scelta che cambierà la tua vita, Ilaria. 
L’abilità di Vallone permette in pochi secondi di raggiungere la zona che si è chiusa, forzare i tessuti e riaprire la carotide, posizionando lo stent. A quel punto la tua carotide è di nuovo una galleria ampia dentro cui il sangue riprende a scorrere a piena pressione. Questione di secondi, quelli che faranno la differenza nella tua vita. 
Immediatamente dopo, inizia l’intervento per rimuovere il grumo di sangue dall’arteria cerebrale. Tutto procede rapidamente. Vallone, sempre guardando il monitor, guida lo stenttriever sempre più su, fino all’arteria cerebrale: il grumo viene catturato, intrappolato e recuperato, liberando l’arteria. Nel giro di venti minuti inizi a sentire di nuovo la sensibilità al braccio, il tuo viso si rimodella, senti di nuovo il tuo corpo. Muovi le braccia, le sposti, apri e chiudi le mani. Passa un’infermiera e ti chiede come va: “Meglio”, rispondi, e ti accorgi che improvvisamente hai recuperato la capacità di parlare. Sono da poco passate le nove e mezzo della sera. Nell’ambulatorio risuona la tua voce, che era scomparsa da più di due ore. E’ un ottimo segnale, i medici sono soddisfatti. Portano la notizia fuori, nella sala d’aspetto: “Siamo andati bene”, dicono. 
Passa qualche minuto. Io e Valeria possiamo entrare. Chiediamo dove sei, ci indicano una barella lì in fondo. Non ti si vede, siamo in un lungo corridoio, ti raggiungiamo da dietro e, improvvisamente, dalla barella si vedono salire le tue braccia, verso l’alto. Apri e chiudi le mani, le apri e le chiudi tante volte. Riprendi possesso del tuo corpo, poco alla volta. Arriviamo di fronte a te, sei come nuova, non c’è nessun segno del passaggio violentissimo e brutale dell’ictus. Non ha lasciato tracce. Ci dici che non riesci a parlare benissimo, ma in realtà parli quasi perfettamente. E’ solo questione di ore e anche il linguaggio, che era bloccato, riprenderà a fluire del tutto, senza alcun intoppo. Sei di nuovo tra di noi, indenne. 
Ti fanno salire al primo piano, nello spazio protetto della Stroke Unit, dove ti terranno sotto stretta osservazione. Sei nel posto più sicuro del mondo, guidato da un medico bravissimo, Andrea Zini. Lì ci raggiungono anche Francesca e Giulia, e tuo papà e tua mamma. Devi riposare, ci concedono solo un minuto a testa per salutarti. Piangi, sei spaventata, ma sei di nuovo qui. 
La tac a 24 ore di distanza darà esito negativo. Non c’è stata nessuna lesione, non c’è nessuna conseguenza, di nessun tipo.
Sei illesa. 
Nessun segno. Nessuno. 
Nessuna conseguenza. Nessuna. 
E sei con noi. 
Una manciata di giorni di degenza, poi torni alla vita di tutti i giorni.

Seba, sul suo profilo facebook, il giorno successivo scrive alcune parole, preziose, che in poche righe racchiudono il senso di un’esperienza che non è stata solo nostra, ma di un territorio, di un modo di fare.  
E che, speriamo, possa salvare altre vite: 

felice e orgoglioso di questa città dove in un ospedale pubblico c'è uno dei migliori centri europei per l'emergenza neurologica che ha preso per i capelli un'amica che se ne stava andando e ce l'ha restituita in cambio di un sorriso e una stretta di mano

Stefano Aurighi, Te l'ho chiesto?

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