Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

NEWS

Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
Visualizzazione post con etichetta INCONTRO. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta INCONTRO. Mostra tutti i post

domenica 3 gennaio 2016

RESTANO TRE COSE – Fernando Pessoa (1888-1935)


Di tutto restano tre cose:
la certezza
che stiamo sempre iniziando,
la certezza
che abbiamo bisogno di continuare,
la certezza
che saremo interrotti prima di finire.
Pertanto, dobbiamo fare:
dell’interruzione, un nuovo cammino,
della caduta, un passo di danza,
della paura, una scala,
del sogno, un ponte,
del bisogno... un incontro.


"DE TODO, QUEDARON TRES COSAS"

la certeza de que estaba siempre comenzando,
la certeza de que había que seguir
y la certeza de que sería interrumpido 
antes de terminar.

Hacer de la interrupción un camino nuevo,
hacer de la caida, un paso de danza,
del miedo, una escalera,
del sueño, un puente, de la búsqueda,...un encuentro

Fernando Pessoa


lunedì 30 novembre 2015

UN PICCOLO PRESEPE IN OGNI CLASSE – Giovanni Zen


Fra un mese è Natale. Sapendo il significato di questa “festa”, nella nostra storia occidentale, al di là dello scivolamento consumistico degli ultimi decenni, cioè di una “festa” nata da un valore fortemente religioso che ha fatto crescere in tutti, al di là delle stesse convinzioni religiose, valori universali di fratellanza e solidarietà, credo sarebbe bello che in tutte le classi, per vostra iniziativa, ci fosse un piccolo presepe, magari con un piccolo albero di Natale. Un presepe ed un albero in ogni classe, piccoli segni-simboli.
Sappiamo tutti del momento difficile che stiamo vivendo, per gli attentati e la minaccia terroristica. Riaffermare dunque i valori-base attraverso questi piccoli segni-simboli, valori che sono il cuore della nostra cultura, religiosa e civile, (una cultura “nostra” nel suo valore universale), specialmente in questo momento, penso sia il modo migliore per aiutarci a non rassegnarci alle logiche della paura, del terrore, del sospetto, della prevaricazione. In tutti i sensi.
Qual è il valore del Natale, anche in senso civile? Quello cantato in una vecchia canzone di Renato Zero: “La vita è un dono”. Non ci sono economicismo ed utilitaristico che tengano, di fronte al dono della vita.
Un verso, poi, di una canzone di Biagio Antonacci (“Ti dedico tutto”) ci dice anche come reagire di fronte a questo momento storico: “Il mestiere si impara, il coraggio ti viene, il dolore guarisce, la tempesta ha una fine, ma diverso è sapere la cosa più giusta, siamo naufraghi vivi in un mare d’amore”.
Credo sia sempre utile, infine, quanto ricordato tempo fa da Maurizio Crozza: nel presepe c’è una coppia di immigrati, senza documenti, senza casa, quindi clandestini, con Maria che aspetta il figlio di un altro, che vanno ad occupare una capanna abusivamente...
Sappiamo che la convivenza richiede regole, reciprocità, rispetto, tolleranza, libertà responsabile, solidarietà, ecc.. Ma, forse, dovremmo tutti imparare, oltre tutto e tutti, che “la cosa suprema, che si può conquistare nella vita, è non voler possedere nulla. Neppure in amore” (Ernst Wiechert). Il vero senso universale del Natale.

Giovanni Zen, dirigente scolastico

lunedì 16 novembre 2015

NON NEL MIO NOME – Oriana D’Anna


Caro direttore,
come insegnante di una scuola primaria di Milano, formata da 22 alunni di cui solo cinque di nazionalità italiana, e di cui 12 di religione musulmana, mi interrogo su quello che vedrò riflesso sui volti dei bambini dopo i fatti di Parigi.
Gli episodi di terrorismo ci interrogano sia come cittadini sia come uomini e donne di buona volontà, ma soprattutto come membri di una società multietnica. Chiedo pertanto e mi auguro che si alzino tutti i musulmani che risiedono in Occidente al grido «non nel mio nome». Vorrei che la loro voce si alzasse così da sentirla chiaramente e nitidamente.
Spero che in Italia si alzino tutti i genitori musulmani degli alunni che dividono i banchi con i nostri figli, si alzino i papà e le mamme per dire ai loro bimbi cos'è davvero l'Islam così da spiegarlo anche a noi, affinché possano aiutarci a capire e a sentire la condanna di ciò che è male per perseguire, insieme a chi non è musulmano, ciò che è bene. Mi auguro un confronto alla luce della verità. Auspico che i popoli musulmani possano interrogarsi sulla loro identità, chiarirsela e chiarirla a noi che li accogliamo nelle scuole, nelle case. Mi auguro, entrando in classe, di poter scorgere nei volti dei miei alunni musulmani un riflesso, una traccia del fatto che nelle loro famiglie si condivida il desiderio di pace e si lavori perché ciò che abbiamo visto non accada più nel loro nome.
Mi chiedo allora se non sia opportuno cambiare qualcosa nella scuola e nelle politiche di accoglienza. Perché non introdurre l'insegnamento della lingua araba nelle scuole europee? Non certo per diventare arabi ma per aumentare gli strumenti di dialogo. Mi chiedo perché non la smettiamo di pensare di abbattere le differenze annullandole, ma accogliendole. Oggi nelle scuole si evita di parlare di alcuni soggetti d'arte perché troppo cristiani, si evita di parlare di alcune feste religiose per non urtare chi non è di fede cristiana, si festeggia Halloween ma non si specifica che la festa è quella di Ognissanti. Una ricorrenza che costringerebbe a parlare della morte, di affrontarla e inquadrarla nella cornice della verità. Ebbene la morte entra però nelle nostre case con gli attentati, le guerre e gli attacchi terroristici. Molti militanti dell'Isis sono giovani che hanno studiato in Europa. E' giusto chiedersi cosa non ha funzionato nel processo scolastico, nel processo di socializzazione e di accoglienza.
Non è negando le differenze culturali e religiose che si affronta il problema della convivenza, ma crescendo nella competenza. Conoscere le nostre tradizioni e accoglierne di nuove senza negare la nostra identità e quella altra da noi. Per questo si auspica che i musulmani residenti nel nostro territorio si alzino a far conoscere la loro cultura nel dialogo.
Oriana D'Anna, insegnante su La Stampa, 16 novembre 2015.


lunedì 13 ottobre 2014

L’ULTIMA RIGA DELLE FAVOLE – Massimo Gramellini


Tomàs è una persona come tante. E, come tante, crede poco in se stesso, subisce la vita ed è convinto di non possedere gli strumenti per cambiarla. Ma una sera si ritrova proiettato in un luogo sconosciuto che riaccende in lui quella scintilla di curiosità che langue in ogni essere umano.
Incomincia così un viaggio simbolico che, attraverso una serie di incontri e di prove avventurose, lo condurrà alla scoperta del proprio talento e alla realizzazione dell'amore: prima dentro di sé e poi con gli altri.
Con questa favola moderna che offre un messaggio e un massaggio di speranza, Massimo Gramellini si propone di rispondere alle domande che ci ossessionano fin dall'infanzia. Quale sia il senso del dolore. Se esista, e chi sia davvero, l'anima gemella. E in che modo la nostra vita di ogni giorno sia trasformabile dai sogni.

Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, Longanesi, Milano, 2010.

domenica 12 ottobre 2014

HO FATTO DEL MIO CUORE LA TUA DIMORA - David Maria Turoldo


Ho fatto del mio cuore
la tua dimora
scambiando l'abbraccio
con il fratello
di qualsiasi colore.

David Maria Turoldo, Il sesto angelo, Mondadori, Milano 1976.

venerdì 12 settembre 2014

LA MOTIVAZIONE - Pierre Durrande


Nessuno può essere educato suo malgrado.

Pierre Durrande, L'arte di educare alla vita

martedì 2 settembre 2014

TI REGALERO’ UNA ROSA – Claudia Pepe


“Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Così diceva Don Milani nelle “Lettere ad una Professoressa”, e mai come in  questo momento queste parole mi sembrano così attuali e così potenti. Cosa dovrebbe fare  una scuola, un gruppo d’insegnanti di fronte ai ragazzi difficili, quelli che formeranno l’esercito dei dispersi e di cui noi, anche se per un breve tratto della loro vita, siamo stati chiamati a educarli, a dar loro una riva su cui appoggiarsi per prendere fiato, marchiati da persone che forse non hanno volto il loro sguardo sul loro viso, all’interezza del loro essere.
Prima di scrivere “Promosso” o “Bocciato”, siamo sicuri di aver dato loro tutte le opportunità di esser stati protagonisti della loro vita, oppure abbiamo scelto la via più facile; quella retorica lezione che si ripete da secoli in cui spieghiamo, facciamo fare esercizi, interroghiamo e poi giudichiamo?
Abbiamo mai provato a mettere al primo posto l’amore, il prendersi cura, (non l’assistenzialismo), ma l’osservazione quotidiana, i gesti interrotti, i punti di forza dei nostri allievi e non sempre la mancanza, i loro deficit, il loro abbandono che nasce ancor prima di loro?
Abbiamo mai provato a capovolgere la solita frase:” Vedi va bene in Musica, in Arte e in Fisica, tutte materie che non hanno bisogno di studio, è proprio limitato!”
Quanta pochezza in queste parole mal riposte da insegnanti che insegnano a ripetere a memoria e non hanno mai provato a vedere gli stessi ragazzi interpretare, creare, rompere le barriere che hanno costruito intorno a loro, e ascoltarli mentre cantano una canzone che li rappresenta, che parla  di una solitudine di cui sono prigionieri e di cui non riescono a trovare la chiave per uscirne?
Vedere questi ragazzi, quelli difficili come dicono loro, emergere, sentire la loro emozione della prima volta, gli occhi lucidi mentre dicono: “I matti sono punti di domanda senza frase migliaia di astronavi che non tornano alla base sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole i matti sono apostoli di un Dio che non li vuole mi fabbrico la neve col polistirolo la mia patologia è che son rimasto solo. Ora prendete un telescopio misurate le distanze e guardate tra me e voi chi è più pericoloso?” (Ti regalerò una rosa di Simone Cristicchi).
Chi è più pericoloso? Loro a cui non abbiamo dato l’amore che cercavano da noi, o loro che già vivono della disistima di tutti, della loro giovane vita inefficace, del loro dolore che abbiamo già catalogato come patologia?
Non nascondiamoci dietro a una sindrome; non esistono più sindromi, perché siamo diventati tutti portatori di mal-essere, di a-normalità, prefissi da mettere davanti alla nostra incapacità di ascoltare, di interagire, di assolvere per mancanza di prove. L’empatia, quel sentimento passato di moda perché così difficile da mettere in pratica in un mondo dove non ci si saluta neanche tra coinquilini, quel sentimento che dovrebbe farci capire, recepire il loro mondo, è finito tra squallidi voti, in squallidi registri elettronici, dove non usiamo neppure la nostra mano, ma un mouse, per respingere un ragazzo a cui la vita disonestamente gli ha rubato un’infanzia tradita.
Noi non siamo un Ospedale, ma una Scuola che ha il dovere di aiutare gli ultimi, per farli credere che ai loro punti di domanda noi diventiamo le loro frasi e la neve non è solo per chi può toccarla.
La neve è di tutti e soprattutto ai ragazzi difficili piace sentirla sulla faccia. Per sentire una carezza da quel Dio che li ha sempre amati e ci ha creati tutti uguali.
Come diceva Don Milani: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.  Prima di farli ammalare ancor più, cerchiamo tutte le cure che solo noi insegnanti possediamo. Tra la testa e il cuore.

Claudia Pepe, in Questione di classe

lunedì 1 settembre 2014

39. UN BAMBINO FATTO IN CASA - Francesco Callegari



Ne ho provati tanti e sono giunto alla conclusione che il migliore sia quello altoatesino. Sarà per via dell’erba o dell’acqua, non so, ma lo yogurt dell’Alto Adige ha un sapore particolare. Mi piace soprattutto quello alla vaniglia e, quando al supermercato vedo allineati i barattoli da mezzo chilo, ne pregusto già il profumo e la morbida consistenza. L’unica cosa che allora osservo con attenzione è la data di scadenza, perché mezzo chilo di yogurt non lo consumi in mezza giornata.
Per giungere a questa scelta ne ho però assaggiati parecchi e ho letto le loro etichette: quante calorie e quanti fermenti lattici vivi (che al solo pensarci fa un po’ impressione), e poi gli zuccheri, gli amidi, la frutta. Le etichette sono importanti: se non ci fossero loro a dirci per esempio quanto residuo fisso rimane nell’acqua che beviamo, non oso pensare ai danni che provocheremmo al nostro organismo! Per fortuna, su tutti gli alimenti confezionati vige l’obbligo di apporre un’etichetta che ne descriva nel dettaglio gli ingredienti. La fabbricazione in serie, tipica dell’industria, consente la produzione di pezzi tutti identici, rendendo così di fatto possibile l’etichettatura.
Questa stessa operazione risulta invece molto complicata, e forse anche inutile se non rischiosa, per tutti quei beni che non sono prodotti in serie: molto probabilmente il pane fatto in casa risulterà diverso per dosi e sapore in ciascuna cottura, così come la passata casalinga di pomodori o la confettura di frutta. A questi alimenti non ci sogneremmo mai di apporre una minuziosa schedatura degli ingredienti, ma ci limiteremmo a gustarli nella loro meravigliosa fragranza lasciandoci sorprendere di volta in volta dall’incanto della loro novità.
Due genitori mi hanno appena scritto una bellissima lettera rivendicando, per il loro bambino fatto in casa, il sacrosanto diritto all’unicità.
Spesso la nostra mente applica inavvertitamente alle persone lo stesso processo conoscitivo utilizzato per le acque minerali: naturali o frizzanti, povere o ricche di sodio, con alto o basso residuo fisso, ecc. Questo meccanismo semplificatorio, che normalmente ci aiuta ad affrontare e comprendere il mondo reale riducendo l’ansia delle diversità, risulta però deleterio se applicato alle persone.
Alexandre Jollien, giovane filosofo francese, esprime bene questo rischio:
“Il nostro rapporto con il mondo procede per riduzioni. Ogni giorno devo raccogliere, setacciare, selezionare informazioni in funzione di ciò che è necessario per vivere. Questo lavoro obbliga a fissare priorità, a focalizzare le urgenze. Non posso vedere tutto, capire tutto, né fare tutto. Di conseguenza, organizzo il mio mondo, incollando alla realtà delle etichette, delle parole, a tal punto che ben presto finirò per vedere solo quelle. Gli antichi vedevano nell’esperienza il principio della saggezza. Eppure, essa può anche portare a ridurre l’essere che ci sta di fronte a una etichetta”.
Alexandre JollienIl mestiere di uomo, Edizioni Qiqaion, Magnano (BI) 2003, p. 63
Incasellare le persone, limita prima di tutto la nostra possibilità di godere e apprezzare la ricchezza delle diverse individualità, ma offre anche incautamente il fianco ad atteggiamenti discriminatori che potrebbero propagarsi nel gruppo dei pari con conseguenze devastanti a livello relazionale.
Soprattutto in un ambiente come la scuola, creato appositamente per far crescere le persone al meglio delle loro possibilità e per allenarle alla vita sociale, è importante il rispetto sostanziale delle diverse individualità, rispetto che si manifesta anche attraverso l’uso di parole che creino empatia, che facciano crescere, che uniscano e non che dividano o escludano. Parole che parlino di libertà e non di prigioni: nel momento in cui etichettiamo una persona, magari a causa di un suo particolare modo di essere, di fare o di parlare, apponiamo su di lei un marchio indelebile che la imprigionerà per sempre portandoci a identificare quella stessa persona con l’etichetta che le abbiamo assegnato e impedendoci di vedere in lei tutto il resto.
Il primo passo, anche se forse il più difficile, è quello di non esprimere giudizi sulle persone. Lo psicologo statunitense Marshall Rosenberg, creatore del metodo della Comunicazione Non Violenta, scrive:
“Il filosofo indiano J. Krishnamurti una volta affermò che osservare senza valutare è la forma più elevata di intelligenza umana. Per la maggior parte di noi, è difficile osservare le persone e i loro comportamenti senza mescolarvi giudizi, critiche o altre forme di analisi.
Attribuendo etichette alle persone, tendiamo ad assumere nei loro confronti atteggiamenti che contribuiscono a generare i comportamenti stessi che ci preoccupano, il che poi lo vediamo come una ulteriore conferma della nostra diagnosi”.
Marshall B. Rosenberg, Le parole sono finestre, Ed. Esserci, 2003, p. 48, 50, 107.
Il cammino verso la comunicazione non violenta ci apre a nuovi orizzonti e ci invita a cambiare il nostro asse di prospettiva. Normalmente noi utilizziamo il metro di giudizio verticale che prevede a un estremo il concetto di giusto con il relativo premio, dall’altro il concetto di sbagliato con il relativo castigo. Esiste un altro asse relazionale: quello orizzontale, basato sulla comprensione dei bisogni e sul riconoscimento delle emozioni. Bisogni ed emozioni sono strettamente correlati: un bisogno soddisfatto genera un’emozione positiva e viceversa.
Si parla tanto oggi di scuola inclusiva: fino a ieri si diceva che la scuola deve integrare, oggi deve includere. Io non so quale sia tra i due il termine più corretto, so per certo però che una buona scuola è quella che è disposta all’incontro, che sa accogliere e valorizzare le diversità. Una scuola accogliente è una scuola attenta ai bisogni, è una scuola che tende a produrre emozioni positive, che non isola e non esclude, una scuola che non umilia e non mortifica, una scuola che non etichetta e non ingabbia, ma che valorizza il bello e il buono di ciascuno, facendo volare tutti, docenti e allievi. Insieme.
Una scuola attenta sa mettere ciascun allievo nelle migliori condizioni per apprendere. Ancora l’asse bisogni-emozioni, perché l’apprendimento passa più facilmente attraverso le emozioni: “Capitano, mio capitano!”. Lungo l’asse premio-castigo passa solo un apprendimento temporaneo, fasullo, buono solo per l’interrogazione del giorno dopo. Una grande perdita di tempo, in definitiva.
Secondo il filosofo Pierre Durrande:
“Il compito primario di un educatore è quello di offrire la testimonianza di un’umanità autentica e piena. Ed è solo attraverso un costante lavoro su se stesso che un educatore può impegnarsi in quest’opera vitale, poiché educare è innanzitutto incontrare e ogni incontro è possibile solo creando uno spazio di accoglienza in se stessi, quello spazio che nasce da una piena adesione alla propria umanità”.
Pierre DurrandeL’arte di educare alla vita, Edizioni Qiqaion, Magnano (BI) 2012.
Ed è proprio lì, nell’apertura consapevole all’incontro, che si gioca la grande sfida dell’inclusione/integrazione: è in classe, ma anche in casa, che le parole e i gesti assumono il colore dell’accoglienza, il sapore della libertà e il canto della speranza.
Buon anno scolastico.                                                                 
1 settembre 2014

Francesco Callegari                                                                      
dirigente scolastico

mercoledì 20 agosto 2014

IL LINGUAGGIO DEL MONDO - Paulo Coelho

Ed era lì, il linguaggio puro del mondo, senza alcuna spiegazione, perché l'universo non aveva bisogno di spiegazioni per proseguire il proprio cammino nello spazio senza fine. Tutto ciò che il ragazzo capiva in quel momento era che si trovava di fronte alla donna della sua vita e anche lei, senza alcun bisogno di parole, doveva esserne consapevole. Ne era certa più di quanto lo fosse di ogni altra cosa al mondo, anche se i genitori, e i genitori dei genitori, le avevano sempre detto che, prima di sposarsi, bisognava frequentarsi, fidanzarsi, conoscersi, e avere del denaro. Ma, forse, chi lo affermava non aveva mai conosciuto il linguaggio universale: perché, una volta che vi si penetra, è facile capire come nel mondo esista sempre qualcuno che attende qualcun altro, che ci si trovi in un deserto o in una grande città. E quando questi due esseri si incontrano, e i loro sguardi si incrociano, tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza. Esistono solo quel momento e quella straordinaria certezza che tutte le cose sotto il sole sono state scritte dalla stessa Mano: la Mano che risveglia l'Amore e che ha creato un'anima gemella per chiunque lavori, si riposi e cerchi i propri tesori sotto il sole. Perché, se tutto ciò non esistesse, non avrebbero più alcun senso i sogni dell'umanità.
Paulo Coelho, L’alchimista, 1988, ed. it. Bompiani, Milano 1995, P. 108.


mercoledì 6 agosto 2014

FARO’ DI TUTTO PER NON PERDERTI – Biagio Antonacci



Farò di tutto per non perderti
Sei consapevolmente irresistibile
Senza calpestare il resto io sarò
Per te un motivo in più
Sarai perversa e dolce a modo mio,
sarò la vitamina che ti rinforzerà
l'inconveniente è tipico della tua età
e io è lì che mi dedicherò.
Farò farò l'impossibile
che per te diventa possibilità
sarò imprevedibile
bacerò i tuoi piedi stanchi e dormirai.
E quando sarai preda delle gelosie
Ti aiuterò perché anch'io ne soffro sai.
Pensa alle mie mani spesso su di te
E pensa a dove ti riporterò
farò l'impossibile
imparando a dare un tempo ai tempi tuoi.
Sarò incorruttibile
Rispettandola 'sta vita insieme a te.
Cose che non ho provato mai
cose che con te mi arrivano così
cose che non hai mai chiesto mai
cose che ti prendono una volta sola e io ho scelto te
farò l'impossibile
che per te diventa possibilità
Sarò incorruttibile
Rispettandola 'sta vita insieme a te
farò l'impossibile
proteggendola 'sta vita insieme a te a te a te a te.

Biagio Antonacci

sabato 17 maggio 2014

AMO LA SCUOLA … CHE E’ LUOGO DI INCONTRO – Papa Francesco


Un altro motivo è che la scuola è un luogo di incontro. Perché tutti noi siamo in cammino, avviando un processo, avviando una strada. E ho sentito che la scuola, l'abbiamo sentito tutti oggi, non è un parcheggio. E un luogo di incontro nel cammino. Si incontrano i compagni; si incontrano gli insegnanti; si incontra il personale assistente. I genitori incontrano i professori; il preside incontra le famiglie, eccetera. E un luogo di incontro. E noi oggi abbiamo bisogno di questa cultura dell'incontro per conoscerci, per amarci, per camminare insieme. E questo è fondamentale proprio nell'età della crescita, come un complemento alla famiglia. La famiglia è il primo nucleo dí relazioni: la relazione con il padre e la madre e i fratelli è la base, e ci accompagna sempre nella vita. 
Ma a scuola noi "socializziamo": incontriamo persone diverse da noi, diverse per età, per cultura, per origine, per capacità. La scuola è la prima società che integra la famiglia. La famiglia e la scuola non vanno mai contrapposte! Sono complementari, e dunque è importante che collaborino, nel rispetto reciproco. E le famiglie dei ragazzi di una classe possono fare tanto collaborando insieme tra di loro e con gli insegnanti. 
Questo fa pensare a un proverbio africano tanto bello: "Per educare un figlio ci vuole un villaggio". Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti! 
Papa Francesco, Giornata della scuola, Roma, 10 maggio 2014


lunedì 7 ottobre 2013

SONO LORO IL NOSTRO PROSSIMO – Adriano Sofri


Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto.

mercoledì 18 settembre 2013

QUASI UNA DANZA - Francesco Callegari


E' vero, colui che si trova a combattere il drago affronta necessariamente nuove fatiche, nuovi adattamenti, nuovi pensieri, ma scopre anche nuovi orizzonti, nuove prospettive, nuovi profumi, nuovi incontri, nuovi suoni. 
E tutto questo dà un significato diverso a ciò che si fa, un senso più profondo a ogni incontro con le persone.
Ogni giorno che passa, ci si rende sempre più conto che non si combatte "contro" il drago, ma "con" il drago. 
Ed è quasi una danza, un avanzare e un arretrare, sempre consapevoli della sacralità di questa lotta.

Francesco Callegari

martedì 17 settembre 2013

PIU' FORTI E CONSAPEVOLI - Gerardina Impronta


Penso che tutti abbiamo conosciuto un drago nella nostra vita.Trovare il modo per combatterlo sta dentro di noi. 
Le paure e le preoccupazioni si affacciano alla nostra mente come dei draghi che sputano fuoco. Questo ci scoraggia, ci fa sentire sconfitti.
Ma non è così! Abbiamo la spada della forza, del coraggio, ma soprattutto della perseveranza!
Chi non ha mai incontrato e combattuto un drago non può e non sa apprezzare il valore della vita. 
La lotta contro i draghi ci insegna a vivere in modo profondo ogni attimo della nostra esistenza, ci rende più forti e consapevoli.

Gerardina Impronta, insegnante

martedì 10 settembre 2013

36. LE FAVOLE E I DRAGHI - Francesco Callegari


Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. 
Perché questo i bambini lo sanno già. 
Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. 

Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), Tremendous Trifles, 1909 

“Questo esercizio non mi riesce proprio”. “Oh no! Ancora in banco con quel compagno”. “E’ sempre più pesante lavorare con quel collega”. “Le cose con mio marito non vanno per niente bene”. “In questo Paese non c’è niente che funzioni!”.
Che i draghi esistano, nessuno lo ha mai messo in dubbio. Li incontriamo ogni giorno: nelle situazioni difficili, nei compiti faticosi, nelle relazioni problematiche, nelle persone antipatiche, nei colleghi indisponenti, nella malattia, nelle perdite …
Ma la prima bella notizia è che i draghi possono essere sconfitti. Certo, bisogna mettersi in gioco, bisogna combattere. Se impauriti gli voltiamo le spalle, possiamo star certi di venire inceneriti all’istante: il drago non aspetta altro. “Ah, se in classe avessi altri compagni o altri professori …”. “Sono proprio questi colleghi che mi impediscono di lavorare bene”. “Se facessi un altro lavoro, allora sì che potrei esprimermi al meglio”.
E’ l’atteggiamento di rinuncia a farci bruciare dal drago.
Il primo passo per vincerlo è allora quello di riconoscerlo, dargli l’importanza che si merita e fargli sapere che ci siamo. Dobbiamo fargli capire che conosciamo la sua forza e siamo pronti ad affrontarlo alla pari. Tutto questo implica un grande lavoro per noi: se rimaniamo fermi come siamo, non potremo che soccombere. Dobbiamo essere agili sulle gambe, sempre in guardia e in movimento, dobbiamo essere pronti a cambiare strategia, armi, tempi. In tutto questo, è chiaro che non dobbiamo aspettarci che sia il drago a cambiare: la situazione, il compito, il collega, il compagno, la malattia, la perdita sono quelli e molto probabilmente non cambieranno. In questo atteggiamento positivo, in questa tensione verso il cambiamento di noi stessi, e non dell’altro, sta la parte che ci compete, la nostra battaglia.
Affrontare il drago significa allora prima di tutto conoscere se stessi, avere la consapevolezza di chi siamo e cosa siamo in grado di fare, saggiare la nostra forza e le nostre potenzialità. E questa è già una grande sfida.
Ma non saremo soli: fin dall’inizio del nostro cammino avremo intorno a noi persone che ci indicheranno la strada, che ci sosterranno con le parole e l’aiuto, che ci daranno forza con le armi dell’amicizia e dell’affetto. Accogliamo la loro presenza e siamo grati a questi fidati scudieri, siano essi i nostri insegnanti, i nostri colleghi, i nostri compagni, i nostri amici…
E’ il primo regalo che l’incontro con il drago ci fa.
La seconda bella notizia è che ogni drago custodisce un tesoro. Il drago è messo apposta lì a guardia per difenderlo, ma anche per consegnarlo al cavaliere che lo merita.
E sarà un tesoro diverso per ciascuno di noi. Sarà il tesoro che ci serve in quel preciso momento della nostra vita.
Auguro a tutti noi di trovarlo.
Francesco Callegari

12 settembre 2013  

giovedì 5 settembre 2013

22/11/63 - Stephen King


Il prof. Epping, un insegnante di letteratura, si trova a viaggiare nel tempo per portare a termine una "missione impossibile": impedire l'omicidio di J.F. Kennedy il 22/11/1963. 
Incardinati sensibilmente alla trama, il suo ruolo di docente e il suo interesse per gli studenti affiorano in frasi del tipo: 
"Volete sapere qual è la cosa più bella dell’insegnare? Assistere al momento in cui uno studente o studentessa scopre il proprio dono. Non c’è sentimento paragonabile a quello." p. 291. 
Questo è il mio primo libro di Stephen King e ne ho trovato interessante la costruzione e gradevole la lettura. Dal mio punto di vista, è possibile suddividere il volume di oltre 750 pagine in tre parti: molto valide e avvincenti la prima e la terza, un po' più lenta e noiosa la parte centrale. Nel complesso, l'ho trovato un buon romanzo.


F.C.

sabato 31 agosto 2013

IL TUFFO NEL VUOTO - Erri De Luca


Dice la leggenda che un angelo cancella al neonato il ricordo di quello che ha saputo in grembo. C’è da svuotare il sacco prima di nascere. I bambini dentro la placenta sanno tutto il passato, le lingue, le avventure, pericoli e mestieri. Il loro scheletro è diventato pesce, rettile, uccello prima di fermarsi all’ultima stazione. Lo sforzo di espulsione dal corpo della madre serve a dimenticare. La rottura delle acque apre il varco che subito dietro si richiude, dopo il tuffo nel vuoto. Così è il mondo per chi viene da un grembo. Il salto nell’asciutto produce azzeramento di tutta la sapienza accumulata nel sacco di placenta. Si attecchisce meglio dimenticando da dove si proviene.

Erri De Luca, E disse (2011), p. 13-14

venerdì 30 agosto 2013

CHI SONO? - Erri De Luca


Lo raccolsero da terra, a sollevarlo pendeva a corpo vuoto. Suo fratello se lo prese in braccio, lo depose al riparo, lo lavò, gli forzò le labbra con un sorso. Erano chiuse, un solco arato e secco. L’acqua filtrò seguita da un singhiozzo. Nel suo respiro l’aria faceva per attrito il raschio di una pialla. Il fratello gli bagnò le palpebre serrate. L’acqua sciolse la polvere che il vento aveva messo per coperchio. Mosse gli occhi forzando la fessura, la penombra della tenda aiutò la schiusa, le pupille erano due pulcini ancora dentro l’uovo. Erano occhi che non ricordavano niente. Le orbite frugavano intorno, mettevano a fuoco la faccia del fratello, poi tornavano vuoti. “Chi sono?” disse con un rumore di gola che mischiava il ringhio al miagolio. Il fratello fece uno scatto indietro con la testa, per reazione. Poi rispose il nome, il posto, l’ora del tempo e cosa ci facevano lì. Ascoltò con sforzo, in quel punto la voce umana era per lui il rumore di un guasto. Ripeté: “Chi sono?”.

Erri De Luca, E disse (2011), p. 13

giovedì 29 agosto 2013

SOPRA CI STA IL SERENO - Erri De Luca


Era partito per la salita un giorno da starsene chiusi in tenda. Il cielo era sbarrato da un ammasso di nuvole, in piena mattina faceva luce di alba. Andò lo stesso, per esperienza solamente sua sapeva che quando la nuvolaglia è bassa, sopra ci sta il sereno. Lo persero di vista dopo neanche cento metri dal campo.
Quando si sale dentro una condensa di vapore si sta nel perfetto impasto di acqua e aria. C’è silenzio di grotta, vanno soffici i passi anche sulla breccia, il respiro è per metà un sorso, la pelle scambia il sudore con l’acqua sospesa nel vapore. Scalare dentro una nuvola fa sentire il cielo come una seconda pelle. Non si sta all’aperto ma in una tenda immensa.

Erri De Luca, E disse (2011), p. 12

mercoledì 28 agosto 2013

SCALAVA LEGGERO - Erri De Luca


Scalava leggero, il corpo rispondeva teso e schietto all'invito degli appigli, il fiato se ne stava compresso nei polmoni e staccava sillabe di soffio seguendo il ritmo di una musica in testa. Il vento gli arruffava i capelli e sgomberava i pensieri. Con l'ultimo passo di salita toccava l'estremità dove la terra smette e inizia il cielo. Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l'immenso. Lì arrivava alla massima distanza dal punto di partenza. Non è traguardo una cima, è sbarramento. Lì sperimentava la vertigine, che in lui non era il risucchio del vuoto verso il basso, ma affacciarsi sul vuoto dell'insù. Lì sulla cima percepiva la divinità che si accostava.
Lassù si avvolgeva di vento. Una sommità senza urto di masse d'aria addosso è spaventosa. Perché l'immenso sta trattenendo il fiato.

Erri De Luca, E disse (2011), p. 9-10
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...