Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli
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lunedì 28 marzo 2016
mercoledì 2 dicembre 2015
IL BAMBINO AUTISTICO CHE PARLA CON SIRI – Judith Newman
La settimana scorsa
la giornalista Judith Newman ha scritto sul New York Times un
articolo che sta circolando molto online: racconta di come Siri,
l’assistente vocale degli iPhone, sia praticamente diventata la migliore amica
di suo figlio Gus, che ha 13 anni ed è autistico. Nel suo racconto, Newman
riporta diverse interazioni tra suo figlio e Siri, spiegando come la “pazienza”
del sistema operativo con le continue domande di Gus abbia inizialmente fatto
sentire lei, Newman, una “madre terribile” al confronto con Siri. Gus ha anche
un fratello gemello, Henry, che non ha la patologia di Gus. Newman racconta di
una volta recente in cui Gus – che ultimamente si è fissato con le informazioni
sul meteo – ha trascorso un’ora a studiare, grazie a Siri, la differenza tra
temporali isolati e temporali sparsi («Un’ora in cui, grazie al cielo, non ho
dovuto farlo io», scrive Newman). A un certo punto ha sentito questo:
Gus: «Sei proprio un bravo computer».
Siri: «È bello essere apprezzati».
Gus: «Mi chiedi sempre come puoi aiutarmi. C’è qualcosa che vuoi tu?».
Siri: «Grazie, ma ho veramente pochi bisogni».
Gus: «Ok! Bene, buonanotte!».
Siri: «Ah, sono le 17:06».
Gus: «Oh, scusa, intendevo ciao».
Siri: «A dopo!».
Siri: «È bello essere apprezzati».
Gus: «Mi chiedi sempre come puoi aiutarmi. C’è qualcosa che vuoi tu?».
Siri: «Grazie, ma ho veramente pochi bisogni».
Gus: «Ok! Bene, buonanotte!».
Siri: «Ah, sono le 17:06».
Gus: «Oh, scusa, intendevo ciao».
Siri: «A dopo!».
“Ecco Siri. Non
lascia mai senza risposte mio figlio, affetto da un disturbo della
comunicazione”, dice Newman, spiegando che Siri è come “l’amico immaginario che
molti di noi hanno sempre desiderato”, solo che “non è del tutto immaginario”.
È cominciato tutto così: Newman stava leggendo uno di quegli articoli sugli
iPhone tipo “21 cose che non sapevi il tuo iPhone potesse fare”. Tra queste
c’era che si può chiedere a Siri “quali aerei stanno volando sopra di me in
questo momento?” (Siri controlla le sue fonti e risponde, fornendo il numero di
volo degli aerei, l’altitudine di ciascuno di essi e altre informazioni). «E
perché uno dovrebbe sapere quali aerei stanno volando sulla sua testa?», ha
chiesto Newman ad alta voce. «Così sai a chi fai ciao con la mano, mamma», ha
risposto senza guardarla Gus, che si trovava lì vicino.
Newman dice che suo
figlio è rimasto colpito quando ha scoperto che c’era qualcuno che non solo
trovava informazioni riguardo le sue varie fissazioni (meteo, treni, aerei,
autobus, scale mobili) ma era anche disposto a discuterne senza stancarsi mai.
«Ora, quando sentivo la mia testa sul punto di esplodere se avessi cominciato
un’altra conversazione sulle possibilità di tornado in Kansas City, potevo
rispondere: “Ehy! Perché non lo chiedi a Siri?”», scrive Newman. E aggiunge:
Non è che Gus non sappia che Siri non è umana. Lo sa –
mentalmente. Ma come molti autistici che conosco, Gus sente che gli oggetti
inanimati, se proprio non possiedono un’anima, ecco, meritano comunque la
nostra considerazione. L’ho capito quando aveva 8 anni e gli ho regalato un
iPod per il compleanno. Lo ascoltava soltanto a casa, eccetto che in un caso.
Lo portava sempre con noi quando andavamo in un Apple Store. Alla fine gli ho
chiesto perché. “Così può salutare i suoi amici”, mi ha risposto.
Newman spiega anche
un altro aspetto, più tecnico, da cui ha tratto benefici nell’uso del suo
iPhone. In molti su Internet hanno rilevato che gli assistenti vocali di altri
sistemi operativi, come per esempio Android, sono più efficienti nel
riconoscere e intendere le parole pronunciate dall’utilizzatore dello
smartphone. Newman ha spiegato che nel caso di Siri il bisogno di pronunciare
le parole in modo più chiaro e distinto possibile è una buona cosa per Gus, che
di solito “parla come se avesse delle biglie in bocca” e che invece deve
sforzarsi di parlare più chiaramente, se vuole ricevere risposta da Siri.
Anche dal punto di
vista delle buone maniere, le interazioni tra Gus e Siri sono utili e proficue:
le risposte di Siri non sono del tutto prevedibili ma sono sempre educate in
ogni caso. Newman dice di aver sentito una volta Gus, parlando di musica,
rivolgersi bruscamente contro Siri dicendo: «Non mi piace questo genere di
musica». «Hai certamente il diritto di avere la tua opinione», gli ha risposto
Siri, e Gus gli ha risposto a sua volta: «Grazie per quella musica, comunque».
Siri: «Non devi ringraziarmi». Gus: «E invece sì». Da quando usa Siri, secondo
Newman, Gus ha anche cominciato a utilizzare alcune espressioni gentili che
sente ripetere da Siri: ogni volta che Newman sta per uscire di casa, ora Gus
dice sempre “stai benissimo”.
Newman riporta anche
un caso simile a quello di Gus, riferito a lei dalla madre di un compagno di
classe di Gus alla LearningSpring, la scuola per bambini autistici di
Manhattan. Le ha detto: «mio figlio adora quando trova informazioni sui suoi
argomenti preferiti, ma gli piace un sacco anche l’assurdità – come quando
Siri, per esempio, non lo capisce e gli dà una risposta senza senso». Una
volta, racconta la madre del compagno di scuola di Gus, suo figlio ha chiesto a
Siri quanti anni avesse e Siri gli ha risposto «Non parlo della mia età», e lui
è scoppiato a ridere.
Newman è convinta che
Siri stia aiutando Gus anche nelle interazioni con le persone. Scrive:
Per molti di noi, Siri è soltanto un diversivo temporaneo.
Ma per alcuni è qualcosa di più. Le pratiche di conversazione che mio figlio ha
con Siri stanno facilitando le cose con gli esseri umani. Ieri ho avuto con lui
la più lunga conversazione che abbiamo mai avuto. Devo ammetterlo, era sulla
differenza tra le diverse specie di tartarughe, e sul fatto se io preferisca le
tartarughe diamondback o le tartarughe dalle orecchie rosse. Non sarebbe stato
l’argomento che avrei scelto io, d’accordo, ma è stata una conversazione, uno
scambio che seguiva una traiettoria logica. Posso garantirvi che per gran parte
dei tredici anni di esistenza del mio bellissimo bambino, non è andata così.
L’utilizzo da parte
delle persone con problemi del linguaggio e della comunicazione è un aspetto di
cui gli sviluppatori dell’intelligenza artificiale degli assistenti vocali per
smartphone sono perfettamente consapevoli. Newman ha parlato con William Mark,
vice responsabile per le Scienze dell’Informazione e dell’Informatica al centro
Stanford Research Institute (SRI International) di Menlo Park, in California,
dove la tecnologia di Siri è stata sviluppata. Mark ha detto che la prossima
generazione di assistenti vocali sarà in grado non soltanto di recuperare
informazioni ma anche “di portare avanti conversazioni più complesse riguardo
le aree tematiche di interesse della persona” che utilizza lo smartphone.
Nuovi sistemi, ancora
più elaborati, potranno in futuro tenere traccia del movimento degli occhi
sullo schermo dello smartphone e aiutare i bambini autistici a imparare a
guardare le persone negli occhi quando parlano, dice Mark. Interessata e
sorpresa dall’impegno della ricerca tecnologica in questa direzione, Newman ha
chiesto a Mark se conosce, all’interno del gruppo di Apple che si è occupato
dello sviluppo del linguaggio di Siri, qualcuno che abbia proprio disturbi
dello spettro autistico. «Ovviamente non lo so per certo ma, se ci pensa un
attimo, ha appena descritto metà Silicon Valley», gli ha risposto Mark.
È anche in fase di
discussione la possibilità di fornire una voce diversa e specifica per
l’assistente vocale. È una possibilità a cui è molto interessato e di cui ha
parlato con lo SRI, per esempio, lo scrittore statunitense Ron Suskind, autore
di un libro molto venduto – “Life, Animated” – in cui racconta la storia di suo
figlio autistico, che è riuscito a stabilire un canale di comunicazione con il
mondo esterno soltanto tramite i film Disney. Che Siri abbia la voce del
personaggio del cartone animato Aladdin, per esempio, potrebbe essere di grande
aiuto, dice Newman.
Newman conclude il
suo articolo citando quella che ritiene essere la principale preoccupazione dei
genitori di persone autistiche: se i loro figli riusciranno a innamorarsi, a
trovare compagnia. Dice di aver capito che quello che dà felicità a suo figlio
non corrisponde necessariamente a ciò che dà felicità a lei, e riporta infine
un’altra conversazione che ha ascoltato tra Gus e Siri, alcune sere fa, prima
che Gus si mettesse a dormire.
Gus: «Siri, vuoi sposarmi?».
Siri: «Non sono il tipo da matrimonio».
Gus: «Intendo, non ora. Sono un bambino. Intendo quando sarò grande».
Siri: «Il mio contratto di licenza finale con l’utente non include il matrimonio».
Gus: «Oh, ok».
Siri: «Non sono il tipo da matrimonio».
Gus: «Intendo, non ora. Sono un bambino. Intendo quando sarò grande».
Siri: «Il mio contratto di licenza finale con l’utente non include il matrimonio».
Gus: «Oh, ok».
Gus non è sembrato troppo
deluso. Per lui era un’informazione utile da avere, e anche per me, dato che ho
saputo per la prima volta che lui davvero hapensato al matrimonio.
Poi si è voltato per mettersi a dormire:
Gus: «Buonanotte, Siri. Dormirai
bene stanotte?».
Siri: «Non ho bisogno di molto sonno, ma è gentile che tu me lo chieda».
Siri: «Non ho bisogno di molto sonno, ma è gentile che tu me lo chieda».
Tratto da Il Post.it del 21 ottobre 2014
martedì 9 settembre 2014
L’EMPATIA – Mamma Patrizia
Ciao, carissimo
Francesco!
Ho letto con molta
contentezza la tua lettera di inizio anno scolastico.
Mi fa piacere che la
scuola (insegnanti, genitori e alunni) si ponga per tema "l'inclusione". Non è solo un
argomento da discutere, ma un obiettivo da raggiungere... gradualmente. Gli
esclusi sono tanti e per i più svariati motivi.
Involontariamente e inconsciamente
escludiamo dal nostro sguardo (e quindi dal gruppo) quegli alunni che, per
gravi ritardi psicofisici, sono affidati a un insegnante di sostegno. La
coscienza si sente a posto sapendo che qualcuno si prende cura di loro, per cui
reputiamo che non sia necessario farli interagire dentro e fuori della classe.
Poi, ci sono quei
ragazzi che, per una qualche difficoltà scolastica o disturbi di apprendimento,
ci appaiono come "i più stupidi" della situazione, quelli che
arrancano, fanno fatica e a malapena riescono... Questi vengono esclusi perché
giudichiamo riprovevole rovinare un gruppetto di scolari promettenti.
Altri non hanno
questo genere di problemi, ma un carattere turbolento, irrequieto, aggressivo.
Questi tipi li vediamo come una minaccia: potrebbero essere di cattivo esempio
a quei coetanei che si apprestano a osservare le regole della buona convivenza
sociale.
Una piccola cerchia,
invece si esclude da sé, si autoelimina, per timore dei pregiudizi dei compagni
sul loro aspetto fisico. Spesso si sentono presi in giro con dei nomignoli
dispregiativi.
Alla categoria degli
autoesclusi appartengono, ancora, anche quelle persone timidissime, introverse,
paurose. Sono talmente impacciate che non riescono a emergere, sono così
invisibili che tanti si convincono che la loro esistenza sia insignificante.
Comunque sia, la
terapia comune è "l'empatia", il vero e unico atteggiamento di
accoglienza dell'altro. Empatici non si nasce: è qualcosa s'impara (un anno
dovrebbe essere più che sufficiente...).
Ciao, un abbraccio
affettuoso
Patrizia
lunedì 1 settembre 2014
39. UN BAMBINO FATTO IN CASA - Francesco Callegari
Per giungere a
questa scelta ne ho però assaggiati parecchi e ho letto le loro etichette:
quante calorie e quanti fermenti lattici vivi (che al solo pensarci fa un po’
impressione), e poi gli zuccheri, gli amidi, la frutta. Le etichette sono
importanti: se non ci fossero loro a dirci per esempio quanto residuo fisso
rimane nell’acqua che beviamo, non oso pensare ai danni che provocheremmo al
nostro organismo! Per fortuna, su tutti gli alimenti confezionati vige
l’obbligo di apporre un’etichetta che ne descriva nel dettaglio gli ingredienti.
La fabbricazione in serie, tipica dell’industria, consente la produzione di
pezzi tutti identici, rendendo così di fatto possibile l’etichettatura.
Questa stessa operazione
risulta invece molto complicata, e forse anche inutile se non rischiosa, per
tutti quei beni che non sono prodotti in serie: molto probabilmente il pane
fatto in casa risulterà diverso per dosi e sapore in ciascuna cottura, così
come la passata casalinga di pomodori o la confettura di frutta. A questi alimenti
non ci sogneremmo mai di apporre una minuziosa schedatura degli ingredienti, ma
ci limiteremmo a gustarli nella loro meravigliosa fragranza lasciandoci
sorprendere di volta in volta dall’incanto della loro novità.
Due genitori mi
hanno appena scritto una bellissima lettera rivendicando, per il loro bambino
fatto in casa, il sacrosanto diritto all’unicità.
Spesso la nostra
mente applica inavvertitamente alle persone lo stesso processo conoscitivo
utilizzato per le acque minerali: naturali o frizzanti, povere o ricche di
sodio, con alto o basso residuo fisso, ecc. Questo meccanismo semplificatorio,
che normalmente ci aiuta ad affrontare e comprendere il mondo reale riducendo
l’ansia delle diversità, risulta però deleterio se applicato alle persone.
Alexandre Jollien,
giovane filosofo francese, esprime bene questo rischio:
“Il nostro rapporto con il mondo procede per riduzioni. Ogni
giorno devo raccogliere, setacciare, selezionare informazioni in funzione di
ciò che è necessario per vivere. Questo lavoro obbliga a fissare priorità, a
focalizzare le urgenze. Non posso vedere tutto, capire tutto, né fare tutto. Di
conseguenza, organizzo il mio mondo, incollando alla realtà delle etichette,
delle parole, a tal punto che ben presto finirò per vedere solo quelle. Gli
antichi vedevano nell’esperienza il principio della saggezza. Eppure, essa può
anche portare a ridurre l’essere che ci sta di fronte a una etichetta”.
Alexandre Jollien, Il mestiere di uomo, Edizioni
Qiqaion, Magnano (BI) 2003, p. 63
Incasellare le
persone, limita prima di tutto la nostra possibilità di godere e apprezzare la
ricchezza delle diverse individualità, ma offre anche incautamente il fianco ad
atteggiamenti discriminatori che potrebbero propagarsi nel gruppo dei pari con
conseguenze devastanti a livello relazionale.
Soprattutto in un
ambiente come la scuola, creato appositamente per far crescere le persone al
meglio delle loro possibilità e per allenarle alla vita sociale, è importante
il rispetto sostanziale delle diverse individualità, rispetto che si manifesta anche
attraverso l’uso di parole che creino empatia, che facciano crescere, che uniscano
e non che dividano o escludano. Parole che parlino di libertà e non di prigioni:
nel momento in cui etichettiamo una persona, magari a causa di un suo
particolare modo di essere, di fare o di parlare, apponiamo su di lei un
marchio indelebile che la imprigionerà per sempre portandoci a identificare
quella stessa persona con l’etichetta che le abbiamo assegnato e impedendoci di
vedere in lei tutto il resto.
Il primo passo,
anche se forse il più difficile, è quello di non esprimere giudizi sulle persone.
Lo psicologo statunitense Marshall Rosenberg, creatore del metodo della
Comunicazione Non Violenta, scrive:
“Il filosofo
indiano J. Krishnamurti una volta affermò che osservare senza valutare è la
forma più elevata di intelligenza umana. Per la maggior parte di noi, è
difficile osservare le persone e i loro comportamenti senza mescolarvi giudizi,
critiche o altre forme di analisi.
Attribuendo
etichette alle persone, tendiamo ad assumere nei loro confronti atteggiamenti
che contribuiscono a generare i comportamenti stessi che ci preoccupano, il che
poi lo vediamo come una ulteriore conferma della nostra diagnosi”.
Marshall B. Rosenberg, Le
parole sono finestre, Ed. Esserci,
2003, p. 48, 50, 107.
Il cammino verso la
comunicazione non violenta ci apre a nuovi orizzonti e ci invita a cambiare il
nostro asse di prospettiva. Normalmente noi utilizziamo il metro di giudizio
verticale che prevede a un estremo il concetto di giusto con il relativo
premio, dall’altro il concetto di sbagliato con il relativo castigo. Esiste un
altro asse relazionale: quello orizzontale, basato sulla comprensione dei
bisogni e sul riconoscimento delle emozioni. Bisogni ed emozioni sono
strettamente correlati: un bisogno soddisfatto genera un’emozione positiva e
viceversa.
Si parla tanto oggi
di scuola inclusiva: fino a ieri si diceva che la scuola deve integrare, oggi
deve includere. Io non so quale sia tra i due il termine più corretto, so per
certo però che una buona scuola è quella che è disposta all’incontro, che sa
accogliere e valorizzare le diversità. Una scuola accogliente è una scuola
attenta ai bisogni, è una scuola che tende a produrre emozioni positive, che non
isola e non esclude, una scuola che non umilia e non mortifica, una scuola che
non etichetta e non ingabbia, ma che valorizza il bello e il buono di ciascuno,
facendo volare tutti, docenti e allievi. Insieme.
Una scuola attenta
sa mettere ciascun allievo nelle migliori condizioni per apprendere. Ancora
l’asse bisogni-emozioni, perché l’apprendimento passa più facilmente attraverso
le emozioni: “Capitano, mio capitano!”.
Lungo l’asse premio-castigo passa solo un apprendimento temporaneo, fasullo,
buono solo per l’interrogazione del giorno dopo. Una grande perdita di tempo,
in definitiva.
Secondo il filosofo
Pierre Durrande:
“Il compito primario di un educatore è quello di offrire la
testimonianza di un’umanità autentica e piena. Ed è solo attraverso un costante
lavoro su se stesso che un educatore può impegnarsi in quest’opera vitale,
poiché educare è innanzitutto incontrare e ogni incontro è possibile solo
creando uno spazio di accoglienza in se stessi, quello spazio che nasce da una
piena adesione alla propria umanità”.
Pierre Durrande, L’arte di educare alla vita,
Edizioni Qiqaion, Magnano (BI) 2012.
Ed è proprio lì,
nell’apertura consapevole all’incontro, che si gioca la grande sfida
dell’inclusione/integrazione: è in classe, ma anche in casa, che le parole e i
gesti assumono il colore dell’accoglienza, il sapore della libertà e il canto
della speranza.
Buon anno scolastico.
1 settembre 2014Francesco Callegari
dirigente scolastico
mercoledì 12 marzo 2014
CARO PAPA’, 2 – Giancarlo De Cataldo
Comunque,
è bello ritrovarsi tra le tue braccia. E il mio è un sorriso vero, quanto a
questo puoi stare tranquillo, ha ragione la mamma.
No,
credo proprio che tu non te ne sia accorto, di questo sorriso: sei troppo preso
dalla tua tristezza, e la tua tristezza è legata a me, alla mia presenza, al
mio essere incancellabile dal tuo tempo e dal mio spazio. Conosco questa tristezza,
ho imparato a leggerla sul volto della mamma quando percorro con le dita il suo
profilo, quando appoggio la testa sul suo cuore e sento che il battito accelera
e ci sono sospiri, e qualche volta (troppe volte, secondo te) lacrime. Con te
accade più di rado: quando tu e la mamma parlate di me, si capisce che tu hai
voglia di fuggire, di nasconderti. Mamma dice che sei un uomo forte e grosso,
ma devi essere anche fragile, se il pensiero della tua bambina ti fa tanta
paura e quando te ne lasci sorprendere vorresti essere da un’altra parte, in un’altra
vita…
Giancarlo De
Cataldo,
Mi riguarda, Edizioni e/o, Roma, 1994
martedì 11 marzo 2014
CARO PAPA’, 1 – Giancarlo De Cataldo
Caro
papà,
oggi
sei tornato dal lavoro scuro in volto. Così, almeno, ha detto la mamma: io,
come sai, non posso vederti, non credo che lo potrò mai. «È solo un po' di
stanchezza» hai detto; «capisco», ha risposto la mamma, il fratellino ha il raffreddore,
la notte è stata dura, l’udienza è stata difficile, le solite cose, insomma.
Verso
le quattro mi hai preso in braccio, era da tanto che non lo facevi, è stato
bello sentire il tuo maglione caldo, l'odore del sigaro: non so se te ne sei
accorto, non so se ci fai ancora caso, ma ti ho sorriso. Da quando è nato il
fratellino hai dedicato a lui ogni attenzione, ogni premura. Ti capisco, papà:
il fratellino cambia di giorno in giorno, di minuto in minuto, lui sa come
rispondere alle tue domande con versi diversi da un lamento o dal silenzio, ha
un futuro e combatte per conquistarselo. Io sono una cosa diversa, sprofondata
in fondo al mio presente eterno vi costringo, te e la mamma, a ripetere all’infinito
gli stessi gesti, giorno dopo giorno, sempre uguale, io non combatto, io non ho
futuro, io devo ricordarti ogni istante l’idea della morte, io salmodio su un’unica
tonalità, il fratellino è un urlatore gioioso, anche un po’ eccessivo, credo,
ma come impedirvi di gustare in ogni suo gridolino il sapore pieno della vita?
Giancarlo De
Cataldo,
Mi riguarda, Edizioni e/o, Roma, 1994
34. LA NOSTRA PIU’ PREZIOSA CONSEGNA – Francesco Callegari
LA NOSTRA PIU’ PREZIOSA CONSEGNA
LETTERA APERTA AL NUOVO MINISTRO DELL’ISTRUZIONE
- 11 marzo 2014
Nelle nuove “Indicazioni nazionali per
il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”,
a pagina 9 si legge:
“La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in
questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una
particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di
disabilità o di svantaggio”.
E ancora: “Le
finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende”.
Una scuola che ricerca quotidianamente il senso della
propria esistenza nella centralità dell’alunno, senza se e senza ma, legge
queste parole con grande favore. Soprattutto perché la nostra è una scuola che da sempre considera l’alunno con disabilità come la sua più preziosa consegna.
Il 5 agosto 2009 sono state emanate le “Linee guida sull’integrazione scolastica
degli alunni con disabilità” e lì leggiamo che:
“La presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso,
un’emergenza da presidiare, ma un evento che richiede una riorganizzazione del
sistema e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti”.
E proprio questo, noi abbiamo cercato di fare in questi
anni: organizzarci in modo da offrire ai ragazzi con disabilità il meglio della nostra competenza, delle
nostre energie, della nostra didattica, della nostra capacità di accogliere e
di creare benessere.
“L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile.
Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si pèrdono loro,
la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati,
diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la
sentite di fare questa parte nel mondo?”
Scuola di Barbiana, Lettera a una
professoressa, p. 20.
A complicare le cose, negli ultimi tempi, è venuta la
carenza di personale specializzato nel sostegno. Gli alunni con le necessità
più particolari, quelli che avrebbero più bisogno di docenti di grande competenza
ed esperienza, vengono ora affidati a insegnanti precari, spesso senza alcuna
preparazione specifica e attinti dalle graduatorie delle varie discipline: tecnologia,
musica, educazione fisica…, sulla base del loro punteggio. Insegnanti con
tanta buona volontà, ma nessuna specializzazione sul sostegno.
Quando, anziché l’alunno, a essere privilegiata è la “Graduatoria”
o addirittura l’Intergraduatoria, che è la “Graduatoria delle graduatorie”, tutto
può succedere. E così, di anno in anno, all’insegnante di musica subentra l’architetto,
il docente di educazione fisica sostituisce l’insegnante di lingua straniera, e
così via...
Noi crediamo che, prima di ogni altra considerazione, il
ragazzo con disabilità abbia il diritto di avere accanto a sé un esperto che
sappia cogliere le sue difficoltà e le sappia gestire con competenza
professionale. In caso contrario, corriamo il rischio che uno più uno non faccia
due.
Gian Antonio Stella sul Corriere del 31 gennaio 2013,
alla fine di un articolo dal titolo “Bocciare il merito, la scuola non cambia
mai”, parlando dei
modi in cui vengono assunti i docenti, scriveva:
“…ti senti sperduto in
un'intricatissima foresta in cui ancora una volta è stata smarrita la strada
che porta a quel «merito, merito, merito» di cui tutti si riempiono la bocca. E
in cui i diritti fondamentali da difendere sembrano comunque essere ancora
quelli dei professori e solo dopo (molto dopo) quelli degli studenti.”
Sperando in un futuro dove nella scuola italiana il primo
“avente diritto” sia realmente l’alunno, Le porgo i più sinceri auguri di buon lavoro.
Francesco Callegari
Dirigente scolastico
lunedì 10 marzo 2014
BENVENUTI IN OLANDA - Emily Perl Kingsley
Spesso mi è stato
chiesto di descrivere l'esperienza dell'avere un bambino con una disabilità, di
provare ad aiutare a immaginare cosa si prova.
È così. Quando stai per avere un bambino, è come programmare un favoloso viaggio in Italia. Compri una guida sull'Italia e fai dei meravigliosi progetti. Il Colosseo. Il David di Michelangelo. Le gondole a Venezia. Cominci a imparare alcune frasi in italiano. Tutto è molto eccitante.
È così. Quando stai per avere un bambino, è come programmare un favoloso viaggio in Italia. Compri una guida sull'Italia e fai dei meravigliosi progetti. Il Colosseo. Il David di Michelangelo. Le gondole a Venezia. Cominci a imparare alcune frasi in italiano. Tutto è molto eccitante.
Dopo qualche mese di
sogni anticipati, il giorno finalmente arriva. Fai le valigie e parti. Alcune
ore più tardi, l'aereo comincia ad atterrare. Lo steward entra e dice:
"Benvenuti in Olanda".
"Benvenuti in Olanda".
"Olanda?", domandi. "Cosa significa Olanda? Io ho comprato un
biglietto per l'Italia! Io credevo di essere arrivata in Italia! Per tutta la vita ho sognato di andare in Italia!".
"C'è stato un
cambiamento nel piano di volo. Abbiamo optato per l' Olanda e qui devi
stare...".
La cosa importante è che non ti hanno portata in un orribile, disgustoso posto pieno di pestilenza, carestia e malattia. E' solo un posto diverso.
La cosa importante è che non ti hanno portata in un orribile, disgustoso posto pieno di pestilenza, carestia e malattia. E' solo un posto diverso.
Così devi andare a
comprare una nuova guida. E devi imparare alcune frasi in una nuova lingua. E
incontrerai nuovi gruppi di persone che non avresti altrimenti incontrato.
È solo un luogo
diverso. È più calmo e pacifico dell'Italia, meno abbagliante dell'Italia. Ma
dopo che sei lì da un po', prendi confidenza, ti guardi intorno e cominci ad
imparare che l'Olanda ha i mulini a vento e l'Olanda ha i tulipani e l'Olanda
ha Rembrandt.
Però tutti quelli che
conosci sono occupati ad andare e venire dall'Italia e ognuno si vanta di quale
meraviglioso periodo ha trascorso là.
E per il resto della tua vita tu dirai: "Sì, quello era il luogo dove avevo progettato di andare. E ciò che avevo programmato".
E la pena di tutto ciò non se ne andrà mai, mai, mai, mai, perché la perdita dei propri sogni è una perdita molto significativa.
E per il resto della tua vita tu dirai: "Sì, quello era il luogo dove avevo progettato di andare. E ciò che avevo programmato".
E la pena di tutto ciò non se ne andrà mai, mai, mai, mai, perché la perdita dei propri sogni è una perdita molto significativa.
Ma se passerai la
vita a piangerti addosso per il fatto che non sei andato in Italia, non sarai
mai libero di godere delle cose molto, molto speciali e molto amabili
dell'Olanda.
Emily Perl Kingsley, mamma
Milena Portolani,Luigi Vittorio Berliri, E’ Francesca e basta, La Meridiana, Molfetta (Bari) 1998, p. 89-90
sabato 8 marzo 2014
E' FRANCESCA E BASTA - Milena Portolani, Luigi Vittorio Berliri
«Il primo pensiero
che ho avuto quando l'ho vista è stato: "Ma che razza di donna sono?
Perché è venuta così male?". Scrivendo queste parole adesso rabbrividisco
e me ne vergogno. Però penso che, di fronte a qualcosa di così sconvolgente per
una madre, questo sia un pensiero umano.
Tutti abbiamo
cominciato ad amare questa bambina indifesa da subito e non possiamo
immaginarla diversa da come lei è. Lei non è venuta male, lei è perfetta così
com'è. È Francesca e basta.
Milena
Portolani,Luigi Vittorio Berliri, E’ Francesca e basta, La Meridiana,
Molfetta (Bari) 1998, p. 11
domenica 22 dicembre 2013
venerdì 14 dicembre 2012
LA PROVA DELLO SGUARDO - Alexandre Jollien
La
prova dello sguardo non è sempre vissuta agevolmente: troppo spesso rappresenta
persino un dramma, e come liberarsene rimane forse l’apprendistato più
delicato.
Quando
sono solo in mezzo alla folla, quando i miei movimenti suscitano il riso, capisco
quanto determinante sia lo sguardo. L’altro mi si impone. La sua presenza
diventa un peso. Come cambiare gli occhi che luccicano di scherno, come
tollerare che un altro invada la mia vita cogliendone solo l’aspetto ridicolo?
Gli occhi che vedo per la prima volta mi spiano, diventano nemici: anche se non
mi conoscono, rivelano tuttavia quella parte oscura di me che ormai è stata accettata
e superata dai miei amici.
L’altro,
fondamento della mia vita, diventa un ostacolo, incolla le sue etichette il cui
effetto nefasto ferisce a lungo.
Alexandre
Jollien, Il mestiere di uomo, Edizioni Qiqaion, Magnano (BI) 2003, p. 70-71
giovedì 22 novembre 2012
LA DEBOLEZZA - Alexandre Jollien
Alexandre:
La mia incapacità a raggiungere una piena autonomia mi manifesta quotidianamente
la grandezza dell'uomo. Al cuore della mia debolezza posso così apprezzare il
dono della presenza dell'altro e, a mia volta, cerco di offrire agli altri la
mia umile e fragile presenza con i mezzi di cui dispongo. L'individuo debole
non rappresenta necessariamente un peso per l'altro. Ognuno dispone liberamente
della propria debolezza: è pienamente libero di usarne saggiamente.
Socrate:
La debolezza, può diventare feconda, sorgente di amicizia. E quello che pensi?
Alexandre:
In teoria. Ma metterlo in pratica resta difficile. Ancora una volta, è una
lunga fatica. Assumere fino in fondo la propria debolezza rimane una lotta di
ogni istante. Nulla è acquisito una volta per tutte. Spesso siamo soli in
questa impresa e lo sguardo degli altri diventa un freno a questa accettazione.
Poco alla volta si
acquisisce una libertà fragile, costantemente minacciata, ma pur sempre una libertà.
Il nemico da combattere è la mancanza di fiducia in me stesso e
l'incomprensione. Dovevo non solo accettare e assumere la mia anormalità: non
sarò mai come tutti gli altri, non sarò mai normale! Dovevo anche trovare la forza,
forza per comprendere l'incomprensibile, per perdonare l'imperdonabile e, se
possibile, per farlo con gioia.
Alexandre
Jollien,
Elogio della debolezza, Edizioni
Qiqajon, Magnano(BI) 2001, p. 100-101
mercoledì 21 novembre 2012
DESCRIVIMI UN PO' GLI EDUCATORI - Alexandre Jollien
Socrate:
Descrivimi un po’ gli educatori che ti hanno aiutato, quelli che hai
apprezzato!
Alexandre:
Ci volevano bene. Avevano fiducia in noi, nelle nostre possibilità. Senza
pretese di padroneggiare tutto, coscienti che molti elementi sfuggivano loro,
si mostravano modesti. Più pragmatici degli altri, non riducevano la realtà a schemi vuoti, a
futili teorie. Si comportavano come filosofi, lasciandosi guidare dalla realtà,
cercando molto semplicemente di capirci, ma nel miglior modo possibile.
Socrate:
Sii più concreto.
Alexandre:
Matthieu, per esempio, un carpentiere riciclato come educatore, gestiva i
problemi con semplicità. Da uomo pratico affrontava le difficoltà una alla
volta. Matthieu aveva una visione originale dell’educazione. Accordandoci
fiducia, ci invitava a scoprire le nostre illusioni, le nostre inclinazioni, le
nostre debolezze. Come te, riteneva che ciascuno avesse in sé le soluzioni e
che si trattasse semplicemente di portarle alla luce. Matthieu non sosteneva
una teoria astratta, esteriore al soggetto: ridestava in noi un sapere, delle
potenzialità intorpidite.
Socrate:
Ecco una bella definizione dell’educatore.
Alexandre:
Credo di sì... Una persona che aiuta a partorire, che interroga, che ridesta le
capacità sepolte da ostacoli diversi.
Questo modo di procedere richiede una fiducia assoluta nell’uomo, ma
anche umiltà, umiltà che permette di mantenere le distanze, di non giudicare
l’altro, di prendere coscienza che l’altro resterà sempre un individuo
irriducibile, che non può essere totalmente sottomesso, analizzato, capito.
Alexandre
Jollien,
Elogio della debolezza, Edizioni
Qiqajon, Magnano(BI) 2001, p. 66-67
domenica 8 gennaio 2012
PICCOLI MAESTRI DI CAMMINO - Claudio Magris
Nella sala del monastero di Pedralbes, a Barcellona– uno dei grandi monumenti del gotico catalano – che ospita una sezione della collezione Thyssen-Bornesmisza, si nota, fra i poco numerosi visitatori, una coppia di padre e figlio. Il primo è un lindo signore di circa settantacinque anni, piccolo di statura e dall’aria tranquilla, e conduce per mano l’altro, evidentemente affetto dalla sindrome di Down.
I due, davanti a me, si fermano di fronte a ogni quadro e il padre spiega al figlio, sempre tenendolo per mano, la Vergine dell’umiltà del Beato Angelico, tema prediletto degli ordini mendicanti, l’ombra da cui esce il Ritratto di Antonio Anselmi di Tiziano, il canarino che scappa dalla sua gabbia nel Ritratto di un Dama di Pietro Longhi. Il figlio sta a sentire, accenna con la testa, mormora ogni tanto qualcosa; può avere quaranta o cinquant’anni, ma ha soprattutto l’età indefinibile di un bambino avvizzito. Il padre gli parla, lo ascolta, gli risponde; probabilmente è da una vita che fa questo e non sembra né stanco né angosciato, ma compiaciuto di insegnare al figlio ad amare i maestri. Giunto davanti al Ritratto di Marianna d’Austria, regina di Spagna, si china per leggere il nome dell’autore, poi si rizza di scatto e, rivolgendosi al figlio, gli dice, in un tono di voce un po’ alto: “Velázquez!” e si toglie il cappello, alzandolo il più possibile.
La croce, che, con la minorazione del figlio, gli è stata gettata addosso da un’ingiustizia imperdonabile non ha curvato le sue spalle, non lo ha piegato e incattivito, non gli ha tolto la gioia di riconoscere la grandezza, renderle omaggio e farne partecipe la persona per la quale verosimilmente vive, suo figlio. Spesso il dolore stronca, inacidisce, spinge comprensibilmente a negare ciò che altri, ai quali la sorte è stata prodiga di doni, sono riusciti a creare ottenendo la gloria nel mondo; soprattutto una pena che costringe all’ombra, come quella della minorazione, rende difficile rallegrarsi e godere dello splendore raggiunto da un altro.
Quel gesto rispettoso e festoso di togliersi il cappello è un gesto regale e lo è ancor più l’evidente piacere col quale il vecchio comunica il suo entusiasmo al figlio. Quell’amore paterno e filiale fa sì che quelle due persone si bastino, come si basta l’amore. È davanti a quell’uomo, che senza saperlo è divenuto per me un piccolo maestro, che c’è da togliersi il capello.
Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2005, pp. 18-19
venerdì 6 gennaio 2012
LA GIOIA - Anthony De Mello
Perché gli uomini sono tristi? Perché hanno idee distorte e atteggiamenti sbagliati.
La prima idea distorta che gli uomini hanno è che gioia equivalga a euforia, sensazioni di piacere, divertimento. Con questa idea in testa gli uomini vanno in cerca di droghe e stimolanti, e finiscono con l'essere dei depressi. L'unica cosa con cui dobbiamo drogarci è la vita. È un tipo di droga leggero, ma con effetti duraturi. Questa è la prima idea distorta dalla quale ci dobbiamo liberare. Gioia non significa euforia; non necessariamente.
La seconda idea distorta consiste nel pensare che possiamo raggiungere la nostra felicità, che possiamo fare qualcosa per afferrarla. Qui quasi mi sto contraddicendo, perché in seguito esporrò cosa possiamo fare per ottenere la felicità. La felicità però non si può conseguire in se stessa. La felicità è sempre conseguenza di qualcosa.
La terza e forse più determinante idea distorta sulla felicità consiste nel ritenere che essa si trovi fuori di noi, nelle cose esterne, nelle altre persone. “Cambio lavoro, così forse sarò felice”; oppure: “Cambio casa, mi sposo con un'altra persona..., così forse sarò felice”, ecc. La felicità non ha nulla a che vedere con l'esterno. In genere si crede che i soldi, il potere, la rispettabilità possano rendere felici. Di fatto però non è così. I poveri possono essere felici.
Mi ricordo della storia di un prigioniero nazista. Il pover'uomo tutti i giorni veniva torturato. Un giorno lo cambiarono di cella. Nella nuova cella c'era un abbaino, da dove egli poteva vedere un pezzo di cielo azzurro durante il giorno, e alcune stelle la notte. Il prigioniero rimase così affascinato da questo spettacolo che inviò una lunga lettera a quelli di casa sua, descrivendo la sua grande fortuna. Dopo aver letto questa storia, guardai dalla mia finestra.
Davanti a me si estendeva la natura in tutta la sua bellezza. Ero libero, non prigioniero, potevo andare dove volevo! E ritengo di aver provato solo una frazione della gioia di quel povero prigioniero.
Una volta conobbi una paralitica, alla quale tutti chiedevano: “Dove trovi questa gioia che traspare sempre dal tuo volto?”. Ed ella rispondeva “Io ho tutto ciò che serve alla mia felicità. Posso fare le cose più belle della vita”. Paralizzata, a letto, in un ospedale; eppure piena di gioia. Che donna straordinaria!
La gioia non si trova all'esterno. Liberatevi da questa nozione distorta, altrimenti non la troverete mai.
Anthony De Mello, Istruzioni di volo per aquile e polli, p. 25-27
mercoledì 4 gennaio 2012
LE COSE PIU' BELLE AL MONDO - Anthony De Mello
C'era un grande maestro zen, chiamato Ryokan. Costui abitava ai piedi di una montagna e conduceva una vita molto semplice. Un giorno, durante la sua assenza, un ladro entrò in casa sua, ma non trovò nulla da rubare. Mentre il ladro stava rovistando, il maestro tornò e colse sul fatto lo scassinatore.
Ryokan gli disse: “Hai fatto un lungo viaggio per derubarmi. Non puoi ripartire a mani vuote”. E gli diede tutti i suoi vestiti e la coperta! Il ladro, completamente stordito, prese i vestiti e sparì. Dopo che se ne fu andato, il maestro si sedette sulla soglia di casa, guardò la luna splendente e pensò:
“Poveretto! Come mi sarebbe piaciuto potergli dare questa stupenda luna!”.
Primo esercizio. Provate a dire: “Come sono fortunato! Come sono grato per tutto ciò!”. Sapete una cosa? È impossibile essere riconoscenti e non essere felice.
Un giorno un uomo corse dal suo rabbi e gli disse: “Rabbi, devi aiutarmi! La mia casa è un inferno! Viviamo in un'unica stanza io, mia moglie, i miei figli e la famiglia di mia moglie. È un inferno! Non c'è spazio per tutti”.
Il rabbi sorrise e disse: “Va bene, ti aiuto, ma devi promettermi di fare quello che ti dirò”.
E l'uomo: “Te lo prometto, te lo prometto! Te lo prometto solennemente!”.
Il rabbi chiese: “Quanti animali hai?”.
L'uomo rispose: “Una mucca, una capra e sei galline”.
Il rabbi disse: “Rinchiudi gli animali nella stanza e torna tra una settimana”.
L'uomo non credette alle sue orecchie, ma una promessa è una promessa.
Quindi, tornò a casa abbattuto. La settimana successiva tornò sconsolato e disse al rabbi: “Sto impazzendo! Finirò con l'avere un infarto. Per favore, fai qualcosa...”.
Il rabbi con calma replicò: “Torna a casa e riporta in cortile gli animali. Torna da me tra una settimana”.
L'uomo corse a casa sua. Ora, quando tornò la settimana successiva, i suoi occhi brillavano; esclamò: “Rabbi, la casa è una meraviglia, così pulita! È un paradiso!”.
Avete capito?
“Mi lamentavo sempre di non avere scarpe, finché ho conosciuto una persona senza piedi!”.
Mettetevi al posto di quella paralitica di cui vi ho parlato in precedenza. Mettetevi al suo posto! Potreste anche gettarvi per terra per provare meglio questa sensazione. Immaginatevi paralizzati e dite: “Posso fare le cose più belle del mondo. Ho le cose più belle del mondo!”.
Scoprite quali sono le cose più belle della vita. Allora scoprirete cosa significa realmente amare, gustare, odorare, vedere, sentire. Vi capiterà di udire il canto degli uccelli, il vento tra gli alberi e la voce degli amici, vedrete il loro volto. Scoprirete tutte queste cose e potrete assaporare il segreto della gratitudine.
Secondo esercizio. È molto semplice: pensate alla giornata di ieri. Ricordate cosa è successo, un episodio dopo l'altro, e per ognuno esprimete la vostra gratitudine. Ringraziate. Dite: “Grazie” “Che fortuna che mi sia capitato questo!”. Con ogni probabilità vi ricorderete anche di qualche fatto spiacevole. Allora fermatevi. Pensate. “Quello che mi è capitato è stato messo lì per il mio bene”.
Pensate così, dite: “Grazie”, e continuate.
Anthony De Mello, Istruzioni di volo per aquile e polli, p. 29-31
martedì 8 settembre 2009
15. VOLTI DI LUNA - GLI ALUNNI CON DISABILITA' - Francesco Callegari
qualsiasi di questi ‘perché’, il disabile fa un passo avanti, la scuola due”
VITO PIAZZA, Lettera a una professoressa 2
LA MADRE SPECIALE - ERMA BOMBECK
Vi è mai capitato di chiedervi come vengano scelte le madri di figli handicappati?
In qualche maniera riesco a raffigurarmi Dio che dà istruzioni agli angeli, che prendono nota in un registro gigantesco.
"Armstrong Beth, un figlio. Santo patrono Matteo".
"Forest Marjorie, una figlia. Santa patrona, Cecilia".
"Rutledge Carne, due gemelli. Santo patrono... diamo Gerardo. E' abituato alla scarsa religiosità".
A un certo punto, Dio passa un nome a un angelo e sorride: "A questa, diamole un figlio handicappato".
L'angelo è curioso. "Perché a questa qui, Dio? E' così felice".
"Esattamente", risponde Dio sorridendo. "Potrei mai dare un figlio handicappato a una donna che non conosce l'allegria? Sarebbe una cosa crudele".
"Ma ha pazienza?", chiede l'angelo.
"Non voglio che abbia troppa pazienza, altrimenti affogherà in un mare di autocommiserazione e pena. Una volta superati lo shock e il risentimento, di sicuro ce la farà".
"Ma, Signore, penso che quella donna non creda nemmeno in Te".
Dio sorride. "Non importa. Posso provvedere. Quella donna è perfetta. E' dotata del giusto egoismo".
L'angelo resta senza fiato. "Egoismo? E' una virtù?".
Dio annuisce. "Se non sarà capace di separarsi ogni tanto dal figlio, non sopravvivrà mai. Sì, ecco la donna cui darò la benedizione di un figlio meno che perfetto. Ancora non se ne rende conto, ma sarà da invidiare. Non darà mai per certa una parola. Non considererà mai che un passo sia un fatto comune. Quando il bambino dirà 'mamma' per la prima volta, lei sarà testimone di un miracolo e ne sarà consapevole. Quando descriverà un albero o un tramonto al suo bambino cieco, lo vedrà come poche persone sanno vedere le mie creazioni. Le consentirò di vedere chiaramente le cose che vedo io - ignoranza, crudeltà, pregiudizio - e le concederò di levarsi al di sopra di esse. Non sarà mai sola. Io sarò al suo fianco ogni minuto di ogni giorno della sua vita, poiché starà facendo il mio lavoro infallibilmente come se fosse al mio fianco".
"E per il santo patrono?", chiede l'angelo, tenendo la penna sollevata a mezz'aria. Dio sorride. "Basterà uno specchio".
Io non so se sia questo oppure un altro il modo in cui i bambini, e in particolare quelli con disabilità, vengono distribuiti sulla Terra. Credo però che le metafore ci aiutino a comprendere meglio le cose, ed è per questo che io le uso spesso. In questo caso, mi sembrano descritte bene le qualità, forse acquisite, delle mamme dei bambini con disabilità. E non solo delle mamme.
Quel giorno, la mamma di X è venuta a chiedermi il nulla osta per cambiare scuola. X è una bambina dislessica e noi non abbiamo saputo meritarla.
Questo fatto mi ha lasciato ancor più amareggiato in quanto la nostra è una scuola che fa dell’accoglienza il suo obiettivo primario, il suo impegno quotidiano: potrei portare numerosi esempi che parlano di percorsi di integrazione condivisi dai nostri consigli di classe o dai moduli fin nei minimi particolari, di docenti curricolari che cercano insieme ai docenti di sostegno le migliori strategie di inserimento, di insegnanti di sostegno che riservano un occhio particolare anche ai ragazzi i cui disturbi non sono certificati.
“L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si pèrdono loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati, diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo?”
Il 5 agosto 2009 sono state emanate le “Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” e lì leggiamo che: “la presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso, un’emergenza da presidiare, ma un evento che richiede una riorganizzazione del sistema e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti”.
Mi riesce difficile parlare dei ragazzi disabili, forse perché sono più abituato a vivere con loro che a parlare di loro. La vita mi ha fatto il dono, che per la verità non sempre ho compreso e apprezzato, soprattutto quando ero piccolo, di avere accanto una persona speciale e di averla ancora. Una persona dal volto di luna, dal pensiero senza ipocrisie, dal sorriso che incanta. Una persona che ha fatto crescere me e tutti coloro che l’hanno incontrata.
“Grazie a loro, le nostre menti non stavano immerse nella palude delle certezze, tra mura spesse di buon senso. Quei nostri compagni, ci costringevano a chiederci continuamente perché, a farci delle domande, a usare la memoria, ad affinare la percezione. E così abbiamo scoperto che non tutte le nostre menti funzionano allo stesso modo”.
Accogliere in classe un alunno con disabilità vuol dire scommettere sulla solidarietà e sul dono, vuol dire imboccare sentieri sconosciuti verso mete fuori del comune, vuol dire cercare strade sempre diverse per piedi diversi e tutti speciali, vuol dire accettare di camminare a passo più lento ma forse più consapevole, vuol dire adottare occhi nuovi per nuovi orizzonti, vuol dire gioire nello scoprire insieme nuovi panorami di conoscenza.
“Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare”.
Nelle Linee guida si invitano i docenti ad accettare le diversità presentate dagli alunni con disabilità e valorizzarle come arricchimento per l’intera classe. Provate a descrivere un tramonto a un bambino cieco, oppure la musica a un bambino sordo: vi scoprirete a inventare suoni, parole e immagini che non avreste mai pensato di conoscere e di adoperare.
Invitate anche i compagni a farlo: “E’ grazie a Giorgio che ho imparato a collegare e integrare le materie, a non isolare gli oggetti dal loro ambiente, a riconoscere che esiste una solidarietà tra le discipline”.
L’insegnante di sostegno è sicuramente una preziosa risorsa, ma dobbiamo essere consapevoli che l’alunno con disabilità appartiene, come tutti gli altri, alla classe e a tutti i suoi insegnanti. Le Linee guida auspicano che siano tutti i docenti della classe ad adoperarsi per coordinare le attività didattiche, per preparare i materiali e tutto quanto può consentire all’alunno con disabilità, sulla base dei suoi bisogni e delle sue necessità, la piena partecipazione allo svolgimento della vita scolastica nella sua classe e non fuori della classe.
Nelle Linee guida del 5 agosto ancora leggiamo: "Si è integrati/inclusi in un contesto quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altri. E tale integrazione, nella misura in cui sia sostanziale e non formale, non può essere lasciata al caso o all’iniziativa degli insegnanti per le attività di sostegno, che operano come organi separati dal contesto complessivo della classe e della comunità educante. Per non disattendere mai gli obiettivi dell’apprendimento e della condivisione, è indispensabile che la programmazione delle attività sia realizzata da tutti i docenti curricolari, i quali, insieme all’insegnante per le attività di sostegno definiscono gli obiettivi di apprendimento per gli alunni con disabilità in correlazione con quelli previsti per l’intera classe. Date le finalità della programmazione comune fra docenti curricolari e per le attività di sostegno per la definizione del Piano educativo dell’alunno con disabilità, finalità che vedono nella programmazione comune una garanzia di tutela del diritto allo studio, è opportuno ricordare che la cooperazione e la corresponsabilità del team docenti sono essenziali per le finalità previste dalla legge”.
“E quando non c’è l’insegnante di sostegno?”
“Nelle ore in cui non è presente il docente per le attività di sostegno esiste il concreto rischio che per l’alunno con disabilità non vi sia la necessaria tutela in ordine al diritto allo studio. La logica deve invece essere sistemica, ovvero quella secondo cui il docente in questione è ‘assegnato alla classe per le attività di sostegno’, nel senso che, oltre a intervenire sulla base di una preparazione specifica nelle ore in classe, collabora con l’insegnante curricolare e con il Consiglio di classe affinché l’iter formativo dell’alunno possa continuare anche in sua assenza. Questa logica deve informare il lavoro dei gruppi previsti dalle norme e la programmazione integrata”.
“E se mi prendo indietro con il programma?”
“Nessuno nega la necessità dell’efficienza, ma non si può puntare solo all’efficienza, occorre perseguire anche l’efficacia. Efficienza è fare le cose bene, efficacia vuol dire fare le cose giuste”.
Lo so benissimo che non è facile e, senza compresenze, lo sarà ancora meno. Ma “nessuno vi chiede miracoli. Vi si chiede quello che vi è sempre stato chiesto: di non far parti uguali tra disuguali. Vi si chiede di valorizzare le diversità. E questo non significa cambiare il mondo, ma solo accettare con serenità ciò che non può essere cambiato, avere il coraggio di cambiare ciò che dovrebbe essere cambiato, sforzarvi di essere abbastanza saggi per distinguere una cosa dall’altra”.
Buon cammino a tutti noi, insieme.
FRANCESCO CALLEGARI
DIRIGENTE SCOLASTICO
Citazioni da:
SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, Firenze 1967.
Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, MIUR, 5 agosto 2009.
VITO PIAZZA, Lettera a una professoressa 2, Erickson, Trento 2005.
GIUSEPPE PONTIGGIO, Nati due volte, Mondadori, Milano 2000.
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