Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

NEWS

Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
Visualizzazione post con etichetta CONDIVISIONE. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta CONDIVISIONE. Mostra tutti i post

giovedì 26 maggio 2016

NELLA MAGGIOR PARTE DELLE SCUOLE – Marshall B. Rosenberg (1934-2015)


Si dà per scontato che gli insegnanti sappiano quello che gli studenti hanno bisogno di imparare e come si devono comportare. Questo dà loro il diritto di usare tattiche di potere sugli studenti (premi, punizioni, sensi di colpa, doveri, obblighi) per controllare le loro azioni. Sempre sulla base di questi presupposti, le autorità scolastiche definiscono unilateralmente gli obiettivi di apprendimento. La maggior parte degli studenti, così, finiscono per vedere solo due possibilità, la sottomissione e la ribellione, e quegli insegnanti che non si sentono a proprio agio nel ruolo che è stato loro affidato si sentono intrappolati.

Ma se vogliamo preparare gli studenti affinché un giorno sappiano creare e mantenere organizzazioni che arricchiscono la vita, ritengo che dovremmo dare loro la possibilità di rapportarsi su un piano di parità con insegnanti e amministratori. Un modo per manifestare questa parità è quello di definire assieme gli obiettivi di apprendimento.
Marshall B. Rosenberg, Educazione che arricchisce la vita, Edizioni Esserci, Reggio Emilia 2005, p. 99-100


lunedì 14 marzo 2016

QUAL E’ IL SEGRETO DEL TEAM PERFETTO? 1/2 – Elena Dusi


Ben  vengano le divagazioni durante una riunione. Le chiacchiere sul luogo di lavoro, perfino i pettegolezzi, le confessioni dei propri problemi ai colleghi alla macchinetta del caffè e le reazioni istintive, quando qualcuno urta la nostra suscettibilità. Il team perfetto, quello che all'occorrenza scatta come un sol uomo e che ha una "intelligenza collettiva" più alta della somma delle intelligenze individuali, non è un orologio dai meccanismi perfetti. Piuttosto, è un organismo in cui i colleghi alzano gli occhi dalla scrivania, incrociano quelli del collega che lavora accanto e si accorgono di cosa gli passa per la testa.
Ci sono voluti decenni di studi sulla sociologia del "team perfetto" per arrivare a non comprendere tutto questo. Fino a quando un progetto avviato da Google tra i propri dipendenti non si è accorto che nessuno degli algoritmi numerici sull'efficienza dei gruppi di lavoro è in grado di prevedere alcunché. Quello che fa funzionare bene una comunità di umani, ha concluso, dopo tanto analizzare, il più grande motore di ricerca del mondo, è in fondo proprio il senso di umanità: empatia, rispetto, consolazione di un collega se necessario.
Elena Dusi, “la Repubblica”, 29 febbraio 2016


mercoledì 3 febbraio 2016

ASCOLTARE NON E’ CONDIVIDERE 2/2 – Roberto Cotroneo

L’ascolto è un karma, in un certo senso; parola sanscrita delle Upanisad vediche che ormai è utilizzata nel linguaggio corrente per indicare all’incirca il destino, la predisposizione a qualcosa.
Il karma è un agire nel mondo che porta al ciclo di morte e di rinascita del samsāra. Da come si agisce, come sanno ormai in molti, si avranno delle conseguenze, e il ciclo di morte e rinascita non è uguale per tutti, dipende da come si agisce, dalla capacità di sentire e di essere nel mondo; dal modo di ascoltarlo, in un certo senso, se intendiamo l’ascolto una delle modalità dell’agire, una modalità più evoluta.
Ma la modernità alle volte è fatalmente invasiva. Semplificare è molto bello, quando si riescono a spiegare concetti complessi con linearità, rendendoli fruibili a molti. Ma banalizzare non è semplificare, e soprattutto ci sono forme di banalizzazione pericolose. Da poco tempo esiste un nuovo social network, si chiama: Maadly. Non sarebbe una notizia se non avesse un aspetto particolare. Non mette in comunicazione persone che si conoscono, o addirittura amici, ma soltanto ed esclusivamente non conoscenti. Questi sconosciuti della rete leggono i tuoi post e i tuoi contenuti e possono mettere un “Like” o un “Dislike”. A ogni like sale il karma dell’utente (proprio così, è utilizzato questo concetto). A ogni dislike il karma scende.
Invenzione carina e persino originale quella di farsi giudicare da una massa di sconosciuti che possono determinare il tuo Karma. Se hai successo salirà e tu non ti reincarnerai in un insetto o in un verme, ma in un altro essere umano. Se invece non riesci a essere popolare la ruota del samsāra girerà malissimo per te.
È difficile prevedere il successo, tra i ragazzi soprattutto, di questa applicazione che è già scaricabile sui dispositivi mobili. La banalizzazione del Karma non sarebbe un grande problema. Da anni lo fanno le dottrine New Age e ci siamo abituati. La cosa invece piuttosto grave è che si mette assieme il piacere, il successo, l’essere approvati, come fosse un percorso spirituale e di crescita. Il successo, per intenderci, l’esser popolari, l’avere molti like non è un cammino spirituale, non dovrebbe essere considerato un punto di arrivo. L’ambizione non è qualcosa di auspicabile in sé. La ragione e l’approvazione del mondo non sono valori, anzi alle volte sono dei disvalori.
Bertold Brecht scriveva: «ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati». Insegnare il coraggio di raccogliere molti dislike, farsi ascoltare per quello che si è veramente, e non per riscuotere assenso e successo è il modo migliore per prendersi cura del proprio karma.

Roberto Cotroneo, “Corriere della Sera”, 24 luglio 2015

martedì 2 febbraio 2016

ASCOLTARE NON E’ CONDIVIDERE 1/2 – Roberto Cotroneo

In tutte le culture millenarie, e soprattutto nella maggior parte delle religioni, l’ascolto è un elemento fondante. L’ascolto è saggezza, l’ascolto è comprensione, alle volte è assoluzione o condanna, ma è sempre un punto di condivisione tra due persone singole, o tra un singolo e la collettività. Si ascoltano i figli, le persone che si amano, si ascoltano le comunità, i cittadini.
Si chiede, si valuta, si decide dopo aver ascoltato, e non soltanto le ragioni o delle tesi ma anche qualcosa che viene prima di tutto questo: l’essenza del vivere.
Mettersi in ascolto è mettersi in cammino, regalare un luogo dove rifugiarsi, trovare conforto: ascoltano i confessori, gli psicoanalisti, i saggi.
Ascoltare non è necessariamente condividere, non è un modo per farsi approvare, per avere successo, per vincere con le proprie ragioni. Nell’ascolto non si vince e non si perde, non è un combattimento, non è consenso o dissenso, non è adesione o indifferenza.
Nell’ascolto e nel farsi ascoltare il voler avere ragione, il voler colpire, impressionare, risultare popolari agli altri, serve a poco. Perché mettersi in ascolto è percorrere una strada di solitudine e di diversità che ci può isolare, renderci eccentrici.
Roberto Cotroneo, “Corriere della Sera”, 24 luglio 2015


sabato 26 dicembre 2015

CANTO DI NATALE – Mariapia Veladiano


È la vigilia di Natale, c’è la nebbia, è buio, fa freddo nel negozio, fa freddo nella strada ma il vero freddo è «il freddo che aveva dentro». «Gli gelava il viso, gli affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, ne induriva l’andatura, gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra, si rivelava nella voce gracchiante. Una brina ghiacciata gli copriva il capo, sopracciglia e mento legnoso; ed egli portava sempre in giro con sé quella sua bassa temperatura, che gelava il suo ufficio anche nei giorni di canicola, e non saliva, sia pure di un grado, neanche al tempo di Natale».
Ebenezer Scrooge è il protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens e trascorre i giorni della sua vita scalpellato in un suo egoismo così compatto che il freddo dell’inverno nemmeno lo sente perché lo emana in proprio lungo tutto l’arco dei mesi e insieme ostinatamente s’impegna a credere che scelta non ci sia, a credere che la vita sia così, questo furioso difendere il proprio tangibile bene, fatto di cose che non si usano per risparmiarle a se stesse, di case che non si riscaldano per accumulare in banca titoli che non si godono perché hanno la missione di aumentare, sempre di più, sempre di più.
Difendere le cose e insieme difendersi dai sentimenti, sia mai che costino un regalo o anche solo una gratitudine, spiffero di vita che ci invade. Per cui l’affetto del nipote ostinatamente cordiale è solo molesto. Ma bisogna difendersi soprattutto dai sensi, «perché un nonnulla basta a turbarli. Un piccolo imbarazzo di stomaco può renderli ingannevoli». Benevolenza da buona digestione, sia mai che dopo ci si debba pentire. E in questo generale totale assoluto viaggiare solo e diffidente, la visita del socio Marley, peraltro del tutto defunto da sette anni, cade inizialmente sotto l’accetta del sospetto, come tutte le relazioni della sua vita circoscritta, serrata, inchiavistellata.
Triste lui, rattristati quelli che gli stanno intorno, come si fa a non vedere? Come facciamo tutti a non vedere la nostra infelicità?
Il socio Jacob Marley che arriva dall’oltretomba carico di una catena da lui stesso costruita in vita, fatta di «chiavi, lucchetti e libri mastri», spiega a Scrooge come a un bambino che non vuol capire. È la vita circoscritta la colpa e la condanna insieme, il non essersi mai allontanato dall’ufficio, mai «oltre gli stretti limiti del nostro minuscolo banco di cambio», gli occhi incollati a terra e ai beni e mai mai alla «stella benedetta che condusse i magi a una capanna».
Al di là del vortice di buoni sentimenti, di un mondo povero ma felice in cui Scrooge viene trasportato dallo spirito del Natale passato e dallo spirito del Natale presente, e anche al di là dell’orrore ormai scontato in cui lo precipita la visione del Natale futuro, che lo immerge nella realtà della sua morte e dello sciacallaggio da cui è circondata, il viaggio natalizio di Scrooge è sostanzialmente un vedere. «Vieni e vedi». Non sono le parole a trasformarlo ma il lineare vedere come ciò che si è scelto ha avuto conseguenze su di noi e sul mondo e come quel che faremo da ora in poi è ancora tutto nelle nostre mani, non è scritto.
Ciò che Scrooge impara è qualcosa che in fondo sappiamo ma dimentichiamo, e cioè che è la solitudine a disseccare la nostra umanità. Non è bene che l’uomo sia solo. Ed è la cecità lo strumento che ci permette di vivere così. Di non vivere così. Caino dov’è tuo fratello? Scrooge che esce dalla notte di Natale vivo dopo aver attraversato il suo funerale è un uomo che vede, improvvisamente vede: il tacchino da regalare, i gentiluomini che aveva cacciato senza fissarli negli occhi il giorno prima, e sente improvvisamente il freddo del negozio e la gioia della festa e la felicità di rendere felici, felice della felicità degli altri.
Chissà se il terribile peccato contro lo Spirito non è semplicemente questo negarsi alla vita, alla ricerca della propria piccola arruffata sgangherata felicità. Movimento rischioso, si può amare e perdere, partire e cadere. «Sono solo un mortale, potrei anche cadere», dice Scrooge al fantasma dei natali passati. La condizione di tutti è questo poter cadere ma permettere alla paura di inchiodarci a un destino che vogliamo credere scolpito è negarsi il bene che la vita disperde lungo gli anni che ci sono consegnati.
Questo movimento può sembrare forse sul principio e anche dopo, a tratti, più difficile e molesto del quieto restare al banco del cambio, che diventa poi faticoso difendere una posizione, arginare la forza del mondo di affetti e relazioni che naturalmente e senza pretese arriva, entra dalla porta nella forma del suono di mani che sbattono l’una contro l’altra per vincere il freddo, o piedi che scivolano sul ghiaccio mescolati alla voce di un bambino che canta canzoni di Natale.
Aprire gli occhi alla vita è realtà prima che metafora e se non cambierà il mondo intero cambierà il nostro mondo e quello di un bel po’ di persone che ci stanno intorno. Non è poco, proprio no.
Mariapia Veladiano, “Il Regno”, 10 (2015)


venerdì 4 dicembre 2015

NATIVITA' E BUON SENSO – Stefano Allievi


Sgombriamo il campo dalla prima questione, assai d’attualità: l’islam non c’entra nulla. Le richieste di non fare recita o presepe non vengono dai musulmani, tanto meno dalle loro organizzazioni: ma da docenti che non sanno come gestire la pluralità culturale, da laici che con la scusa delle minoranze religiose non vedono l’ora di dare un colpo alla confessione maggioritaria cattolica (dimenticando che il Natale è festa anche delle minoranze protestanti e ortodosse, oltre che civile), o da insegnanti di ampie e democratiche idee, ma di troppo astratte vedute. Non è cioè un conflitto tra noi e loro, ma tra di noi a proposito di loro, che ne sono le pedine e le vittime, non gli attori. La colpa infatti finisce per ricadere sui musulmani, che pagano il prezzo dell’astio popolare, adeguatamente montato da legioni di ciarlatani di partito o di giornale.
Seconda questione: festeggiare il Natale non offende nessuno. E rinunciare al presepe o alla recita natalizia, sostituire ‘Gesù’ con ‘virtù’ nella canzoncina di Natale, non fare l’albero, non mettere decorazioni, sottrarsi persino agli auguri (magari introducendo i pessimi “season’s greetings” britannici), non ha nessun senso. Così come nessuno di noi si stupirebbe, viaggiando in Israele, di vedere festeggiata Chanukkah, nei paesi musulmani l’Aid al-Fitr, e in India il Navaratri hindu o il Vaisakhi sikh, così non ha nessun senso che in Italia non si celebri il Natale. E così come non ci sentiamo a disagio noi quando ci troviamo in paesi in cui si celebrano altre festività, così non si sentono a disagio gli immigrati in Italia: per loro è un’ovvietà, normale, e dunque anche norma (festività anche legale). E i bambini musulmani farebbero volentieri anche la parte di Gesù (peraltro un venerato profeta dell’islam, di cui il Corano riconosce la nascita verginale da Maria e il compimento di miracoli) pur di partecipare alla recita natalizia da cui magari vengono incautamente esclusi senza neanche chiedere la loro opinione.
Il multiculturalismo – o meglio la gestione della pluralità religiosa, il rispetto per l’altro e l’invenzione di modalità di convivenza tra culture diverse – si può costruire in molti modi. Per addizione: aggiungendo conoscenze, simboli, momenti e luoghi di incontro. Per interpenetrazione: facendo lo sforzo di pensare modalità diverse di confronto e di comparazione. Quello che non ha nessun senso fare è procedere per sottrazione: negando la propria cultura, o nascondendone i simboli.
Il mondo della scuola, con la sua forte presenza di immigrati (ma anche di autoctoni) di culture e religioni diverse, è in questo ambito un laboratorio d’eccezione. Ma proprio per questo, dato che si procede per tentativi ed errori, è anche il luogo dove più spesso si fanno passi falsi grossolani, magari con ottime intenzioni: che, come noto, lastricano le vie della perdizione, o semplicemente del perdersi. Diventando così anche il luogo di battaglie ideologiche sostenute da improvvisati sostenitori di una civiltà cristiana di cui ignorano i fondamenti, che usano statuette del presepe e crocifissi non per il loro significato, ma come arma impropria contro presunti nemici della civitas cristiana, strumentalizzando la religione per le proprie misere battaglie politico-ideologiche: il che suona assai stridente proprio con lo spirito del Natale, e l’esempio di quella famigliola di Nazareth il cui figlio è nato in viaggio, lontano da casa, a Betlemme, e fu riconosciuto tra i primi proprio da dei saggi di altra cultura e religione, i Magi, venuti da oriente seguendo una stella.
Il buon senso forse aiuterebbe. Quello che ci fa dire che questo paese ha una storia di cui fa parte l’identità religiosa cristiana, e un presente e un futuro di cui fanno parte anche altre tradizioni, che non debbono (né, del resto, vogliono) cancellare il passato, ma chiedono solo una progressiva presa in considerazione della loro esistenza. Ciò che si può fare senza traumi o proclami belligeranti: né per cancellare né per imporre alcunché.

Stefano Allievi, Natività e buon senso, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 novembre 2015, editoriale, p.1.


lunedì 30 novembre 2015

UN PICCOLO PRESEPE IN OGNI CLASSE – Giovanni Zen


Fra un mese è Natale. Sapendo il significato di questa “festa”, nella nostra storia occidentale, al di là dello scivolamento consumistico degli ultimi decenni, cioè di una “festa” nata da un valore fortemente religioso che ha fatto crescere in tutti, al di là delle stesse convinzioni religiose, valori universali di fratellanza e solidarietà, credo sarebbe bello che in tutte le classi, per vostra iniziativa, ci fosse un piccolo presepe, magari con un piccolo albero di Natale. Un presepe ed un albero in ogni classe, piccoli segni-simboli.
Sappiamo tutti del momento difficile che stiamo vivendo, per gli attentati e la minaccia terroristica. Riaffermare dunque i valori-base attraverso questi piccoli segni-simboli, valori che sono il cuore della nostra cultura, religiosa e civile, (una cultura “nostra” nel suo valore universale), specialmente in questo momento, penso sia il modo migliore per aiutarci a non rassegnarci alle logiche della paura, del terrore, del sospetto, della prevaricazione. In tutti i sensi.
Qual è il valore del Natale, anche in senso civile? Quello cantato in una vecchia canzone di Renato Zero: “La vita è un dono”. Non ci sono economicismo ed utilitaristico che tengano, di fronte al dono della vita.
Un verso, poi, di una canzone di Biagio Antonacci (“Ti dedico tutto”) ci dice anche come reagire di fronte a questo momento storico: “Il mestiere si impara, il coraggio ti viene, il dolore guarisce, la tempesta ha una fine, ma diverso è sapere la cosa più giusta, siamo naufraghi vivi in un mare d’amore”.
Credo sia sempre utile, infine, quanto ricordato tempo fa da Maurizio Crozza: nel presepe c’è una coppia di immigrati, senza documenti, senza casa, quindi clandestini, con Maria che aspetta il figlio di un altro, che vanno ad occupare una capanna abusivamente...
Sappiamo che la convivenza richiede regole, reciprocità, rispetto, tolleranza, libertà responsabile, solidarietà, ecc.. Ma, forse, dovremmo tutti imparare, oltre tutto e tutti, che “la cosa suprema, che si può conquistare nella vita, è non voler possedere nulla. Neppure in amore” (Ernst Wiechert). Il vero senso universale del Natale.

Giovanni Zen, dirigente scolastico

mercoledì 18 novembre 2015

LE STESSE LACRIME - Francesco Callegari


Lo stesso piombo di Beirut e di Parigi ha lacerato la nostra mente 
e il nostro cuore.

Mogli e fratelli, figlie e mariti sono pianti da lacrime 
dello stesso colore.


lunedì 16 novembre 2015

NON NEL MIO NOME – Oriana D’Anna


Caro direttore,
come insegnante di una scuola primaria di Milano, formata da 22 alunni di cui solo cinque di nazionalità italiana, e di cui 12 di religione musulmana, mi interrogo su quello che vedrò riflesso sui volti dei bambini dopo i fatti di Parigi.
Gli episodi di terrorismo ci interrogano sia come cittadini sia come uomini e donne di buona volontà, ma soprattutto come membri di una società multietnica. Chiedo pertanto e mi auguro che si alzino tutti i musulmani che risiedono in Occidente al grido «non nel mio nome». Vorrei che la loro voce si alzasse così da sentirla chiaramente e nitidamente.
Spero che in Italia si alzino tutti i genitori musulmani degli alunni che dividono i banchi con i nostri figli, si alzino i papà e le mamme per dire ai loro bimbi cos'è davvero l'Islam così da spiegarlo anche a noi, affinché possano aiutarci a capire e a sentire la condanna di ciò che è male per perseguire, insieme a chi non è musulmano, ciò che è bene. Mi auguro un confronto alla luce della verità. Auspico che i popoli musulmani possano interrogarsi sulla loro identità, chiarirsela e chiarirla a noi che li accogliamo nelle scuole, nelle case. Mi auguro, entrando in classe, di poter scorgere nei volti dei miei alunni musulmani un riflesso, una traccia del fatto che nelle loro famiglie si condivida il desiderio di pace e si lavori perché ciò che abbiamo visto non accada più nel loro nome.
Mi chiedo allora se non sia opportuno cambiare qualcosa nella scuola e nelle politiche di accoglienza. Perché non introdurre l'insegnamento della lingua araba nelle scuole europee? Non certo per diventare arabi ma per aumentare gli strumenti di dialogo. Mi chiedo perché non la smettiamo di pensare di abbattere le differenze annullandole, ma accogliendole. Oggi nelle scuole si evita di parlare di alcuni soggetti d'arte perché troppo cristiani, si evita di parlare di alcune feste religiose per non urtare chi non è di fede cristiana, si festeggia Halloween ma non si specifica che la festa è quella di Ognissanti. Una ricorrenza che costringerebbe a parlare della morte, di affrontarla e inquadrarla nella cornice della verità. Ebbene la morte entra però nelle nostre case con gli attentati, le guerre e gli attacchi terroristici. Molti militanti dell'Isis sono giovani che hanno studiato in Europa. E' giusto chiedersi cosa non ha funzionato nel processo scolastico, nel processo di socializzazione e di accoglienza.
Non è negando le differenze culturali e religiose che si affronta il problema della convivenza, ma crescendo nella competenza. Conoscere le nostre tradizioni e accoglierne di nuove senza negare la nostra identità e quella altra da noi. Per questo si auspica che i musulmani residenti nel nostro territorio si alzino a far conoscere la loro cultura nel dialogo.
Oriana D'Anna, insegnante su La Stampa, 16 novembre 2015.


domenica 19 aprile 2015

IL NOME PIU' BELLO - Canto dei cristiani copti in arabo



Il tuo nome, Gesù, è il nome più bello Il tuo nome, Gesù, è il nome più bello Il tuo nome, Gesù, è il nome più bello nel tuo nome innalzo le mie mani in preghiera e vivo i miei giorni.

Da L'isola

giovedì 4 dicembre 2014

SCUOLA E PERIFERIE – Luca Doninelli


Finora le periferie avevano retto molto meglio da noi che in altri paesi. Se la situazione è precipitata, è necessario ricordare che per tanto tempo le nostre periferie hanno permesso alla maggior parte dei loro abitanti di condurre una vita dignitosa e tranquilla.
La mia prima osservazione è che la crisi ha minacciato la stabilità delle famiglie. I motivi di tensione, ovviamente già presenti, hanno incontrato resistenze sempre più deboli. I fattori di tenuta dell'istituto familiare hanno avuto minor presa sulle persone (pensiamo solo all'importanza delle parrocchie, anche solo 20 anni fa, in molte situazioni a rischio), e tante famiglie si sfasciano quando i figli sono ancora piccoli.
In aree sempre più popolate (non dimentichiamo che al mondo siamo in 7 miliardi, in un assetto urbano pensato quando non eravamo in 2 miliardi) i fattori educativi e temo il valore stesso della persona si sono indeboliti: spesso la scuola, per troppo tempo vituperata, ha costituito e continua a costituire l'avamposto solitario e insufficiente in difesa di una serie di valori umani e civili che non i poveracci, ma gli intellettuali e i giornalisti, gli editorialisti e i maitres-à-penser hanno attaccato e messo in ridicolo per decenni. Ora la scuola non ha quasi più il sostegno delle famiglie, della cui devastazione rimane spesso solo l'isterica difesa dei figli (non come persone, ma come membri del clan) senza più nessun richiamo a quella «comunità educante», fondata sulla collaborazione tra scuola e famiglia, che era il cemento della trasmissione del sapere e dei valori da una generazione all'altra.
Se un giovane non conosce la differenza tra un conducente di autobus e, poniamo, un distributore di bibite, e prende a calci l'uno e l'altro allo stesso modo se non fanno quello che lui vuole, la ragione è ahimè semplice: nessuno gliel'ha mai spiegata. Ed è proprio così. Ho conosciuto tanti ragazzi migliori di me cadere nella deriva della violenza non per cattiveria ma per solitudine e ignoranza. Sono molti i sociologi che sanno cosa piace a un giovane oggi, ma spesso un giovane non sa quello che gli piace, e conduce una vita senza vero piacere, povera di bellezza.
C'è infine un altro tema di cui tener conto: la tendenza ad avere la casa di proprietà ha caratterizzato per decenni il costume degli italiani. Questo, oltre a permettere una base finanziaria, ha determinato i comportamenti sociali anche di moltissimi extracomunitari, i quali hanno fatto proprio, dove possibile, questo costume. Chiunque può comprendere che il possesso della casa porta ad atteggiamenti diversi nei confronti del quartiere dove si vive, e che il sentirsi sul collo il fiato della precarietà, dell'instabilità e dell'abbandono genera nuove tensioni, nuova sofferenza.
lo non credo però che qualche provvedimento avveduto da parte di politici o pubblici amministratori possa cambiare le cose. Abbiamo visto ciò che questa gente sa fare, e ho anzi il sospetto che nessuno di questi abbia la possibilità di fare altrimenti: un amministratore onesto e preoccupato del bene comune è ormai una persona sospetta. Dobbiamo contare molto di più su noi stessi. Il mio, il tuo atteggiamento possono cambiare la vita del pianerottolo, del palazzo, del quartiere. Ciascuno di noi dovrebbe dire: si ricomincia da me. L'io è il solo fattore di cambiamento nella difficoltà di oggi. Spesso basta un prete, una piccola associazione, o qualche privato che si dà da fare. La prima volta ti bucheranno le gomme, la seconda idem, alla terza cominceranno ad ascoltarti.
Di fronte a tanto sfacelo, è in questo che credo.
Luca Doninelli, insegnante e scrittore, Panorama 3 dicembre 2014

martedì 25 novembre 2014

IL RAC-CANTO DEL TEDESCO – Massimo Gramellini


Lui tedesco scuro e assai possente
lei giapponese bionda e prorompente
correvano sul bordo del crinale
quando la Bionda cadde in un canale.

Il fango attenuò molto la caduta
ma poi scoprì di essere perduta
liscio era il muro e dritto fino al cielo
provò a scalarlo, ricadde sola al gelo.

Lui in verità la conosceva a stento,
ma dell’amor sapeva il gran portento
il meglio tu darai senza mai sosta
né chiederti che avrai come risposta.

Corse verso una casa e gridò aiuto
gridò con voce roca come un bruto
nessuno rispondeva alle sue urla
pensavano ad un gioco ad una burla.

Tornò il Tedesco all’orlo del crinale
guardava in basso a caccia di un segnale
«Forza, coraggio, respira ancora un po’
resisti, o Bionda, io ti salverò.»

Andò di casa in casa e non si arrese
finché qualcuno all’alba lo comprese
un uomo si affacciò con sguardo fioco
chiamò in soccorso i vigili del fuoco.

Lui li guidò in silenzio giù al canale
temeva le facessero del male
quando un pompiere emerse trionfante
stringeva a sé la Bionda ancor tremante.

Le misero coperte in abbondanza
la fecero salire in ambulanza
poi dissero al Tedesco di montare
ma lui di colpo prese a tentennare.

Riempì i polmoni d’aria del mattino
corse lontano verso il suo destino
l’amore tutto sente e tutto dà
ma in cambio chiede solo libertà.

L’amore si nasconde in posti strani
stavolta era nel cuore di due cani.
Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, p. 155-156.


mercoledì 19 novembre 2014

PARLARE – Mariapia Veladiano


Dire solo parole che fanno la differenza.
Prima qualcuno era fuori, e noi lo abbiamo invitato ad entrare. Anche se non aveva le parole per chiederlo.
Lui non conosceva il suo nome, e noi lo abbiamo chiamato mentre ancora era lontano. Pentecoste quotidiana di chi si riconosce.
C'è anche chi non sa proprio le parole, straniero al paese in cui ha trovato rifugio e anche a se stesso in questa terra, e allora noi gliele insegniamo, una a una, festoni di suoni colorati appesi alle pareti d'aula, raggruppate in famiglie composte e perbene: casa, casina, casetta, casona, casata. Anche caserma per movimentare un po'. E a volte capita di consegnare una parola per noi indifferente e facile facile, come mare, ad esempio e quando loro, i bambini, ce la restituiscono e appendono il festone, scopriamo che non hanno potuto far famiglia, perché forse l'hanno persa per sempre la loro famiglia. E le parole ci ritornano raggruppate per desideri e dolori: mare, mamma, casa. E anche porto, buio, onde, paura. E felici allora se troviamo parole che accolgano le loro, che adesso oscillano lievi ogni volta che le sfioriamo sospese, disposte a diventare racconti non ancora scritti ma già pronti quasi a disperdersi nel mondo quando il vento entra dalle finestre aperte dell'aula e le solleva come la coda di un aquilone.
Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti, vita, p. 51.


mercoledì 6 agosto 2014

FARO’ DI TUTTO PER NON PERDERTI – Biagio Antonacci



Farò di tutto per non perderti
Sei consapevolmente irresistibile
Senza calpestare il resto io sarò
Per te un motivo in più
Sarai perversa e dolce a modo mio,
sarò la vitamina che ti rinforzerà
l'inconveniente è tipico della tua età
e io è lì che mi dedicherò.
Farò farò l'impossibile
che per te diventa possibilità
sarò imprevedibile
bacerò i tuoi piedi stanchi e dormirai.
E quando sarai preda delle gelosie
Ti aiuterò perché anch'io ne soffro sai.
Pensa alle mie mani spesso su di te
E pensa a dove ti riporterò
farò l'impossibile
imparando a dare un tempo ai tempi tuoi.
Sarò incorruttibile
Rispettandola 'sta vita insieme a te.
Cose che non ho provato mai
cose che con te mi arrivano così
cose che non hai mai chiesto mai
cose che ti prendono una volta sola e io ho scelto te
farò l'impossibile
che per te diventa possibilità
Sarò incorruttibile
Rispettandola 'sta vita insieme a te
farò l'impossibile
proteggendola 'sta vita insieme a te a te a te a te.

Biagio Antonacci

giovedì 10 luglio 2014

SOBRIETA’ – Margherita Hack (1922-2013)


Inoltre credo che si debba vivere sapendosi accontentare di ciò che si ha, godendo della vicinanza delle persone care e apprezzando le gioie che la vita ci regala, un atteggiamento che ho sempre fatto mio e che mi ha permesso di essere una persona felice.
Rita Levi-Montalcini: Aggiungere vita ai giorni, a cura di Raffaella Ranise e Giuseppina Tripodi, Longanesi, Milano 2013, p. 114.


mercoledì 28 maggio 2014

L’OSPITALITA’ VERA - Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944)


Chi sa veramente ospitare qualcuno, non lo giudica, ma lo accoglie per quello che è e non pretende ringraziamenti che creerebbero doveri nell’ospite.
Ti parlerò perciò dell’ospitalità. Se apri la porta della tua casa al viandante e lui si siede accanto al fuoco, non rimproverargli di essere diverso. Non giudicarlo. Perché ciò di cui aveva fame era soprattutto di trovarsi là in qualche luogo, presso qualcuno col suo carico, il suo bagaglio di ricordi, il suo respiro affannoso e il suo bastone posato in un canto. Era di stare là nel calore e nella pace del tuo volto, con tutto il suo passato oramai inutile, con tutte le pecche messe a nudo. La sua stampella egli non la sente più, perché non gli chiedi di danzare. Allora si rinfranca e beve il latte che gli versi, mangia il pane che gli spezzi, e il sorriso che gli rivolgi è un manto tiepido come il sole per un cieco.
Antoine de Saint-Exupéry, Citadelle, 1948
tr. Enzo L.Gaya,Cittadella [edizione ridotta], Borla, Roma, 1978


martedì 27 maggio 2014

L’AMICO – Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944)


L’amico è innanzi tutto colui che non giudica. Egli apre la porta al viandante, alle sue stampelle, al suo bastone deposto in un canto e non gli chiede di danzare per giudicare la sua danza. E se il viandante parla della primavera oramai sopraggiunta, l’amico è colui che riceve dentro di sé la primavera. E se egli racconta l’orrore della carestia nel villaggio dal quale proviene, l’amico soffre con lui la fame. 
Nell'uomo, l’amico è la parte destinata a te e che apre per te una porta che forse non aprirebbe mai per nessun’altro.
Antoine de Saint-Exupéry, Citadelle, 1948

tr. Enzo L.Gaya,Cittadella [edizione ridotta], Borla, Roma, 1978

giovedì 27 marzo 2014

SEI UNA GABBIANA – Luis Sepùlveda


Quella sera i gatti si stupirono che la gabbianella non venisse a mangiare il suo piatto preferito: i calamari che Segretario trafugava nella cucina del ristorante.
Molto preoccupati la cercarono, e fu Zorba a trovarla, triste e avvilita, fra gli animali imbalsamati.
«Non hai fame, Fortunata? Ci sono i calamari» spiegò Zorba.
La gabbianella non aprì becco.
«Ti senti male?» insisté preoccupato Zorba. «Sei malata?»
«Vuoi che mangi per farmi ingrassare?» domandò lei senza guardarlo.
«Perché tu cresca sana e forte» rispose Zorba.
«E quando sarò grassa, inviterai i topi a mangiarmi?» stridette con i lucciconi agli occhi.
«Da dove tiri fuori queste sciocchezze?» miagolò deciso Zorba.
Lì lì per scoppiare a piangere, Fortunata gli riferì tutto quello che Mattia le aveva strillato. Zorba le leccò le lacrime e all'improvviso si sentì miagolare come non aveva mai fatto prima.
«Sei una gabbiana. Su questo lo scimpanzé ha ragione, ma solo su questo. Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall'uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l'affetto tra esseri completamente diversi».
«Volare mi fa paura» stridette Fortunata alzandosi.
«Quando succederà, io sarò accanto a te» miagolò Zorba leccandole la testa. «L'ho promesso a tua madre».
La gabbianella e il gatto nero grande e grosso iniziarono a camminare. Lui le leccava teneramente la testa, e lei gli copriva il dorso con una delle sue ali tese.
Luis Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, 1996


domenica 12 gennaio 2014

LA GENTE QUE ME GUSTA - Mario Benedetti (1920-2009)



Mi piacciono le persone che vibrano, quelle che non devi continuamente sollecitare e a cui non devi dire di fare le cose, ma che al contrario sanno quello che c’è da fare e lo fanno.
Mi piacciono le persone che coltivano i loro sogni fino a quando tali sogni diventano realtà.
Mi piacciono le persone capaci di assumersi le conseguenze delle proprie azioni, le persone che rischiano il certo per l’incerto pur di andare dietro a un sogno, le persone che si permettono di fuggire i consigli sensati lasciando la soluzione in mano al nostro padre Dio.
Mi piacciono le persone che sono giuste con gli altri e con loro stesse, le persone che apprezzano il nuovo giorno, le cose buone della loro vita, le persone che vivono ogni ora allegramente facendo del loro meglio, grate di essere vive, di poter regalare sorrisi, di offrire le loro mani e aiutare generosamente, senza aspettarsi nulla in cambio.
Mi piacciono le persone capaci di criticarmi costruttivamente e di fronte, senza ferirmi. Le persone che hanno tatto. Mi piacciono le persone che hanno il senso della giustizia.
Questi io li chiamo “amici”.
Mi piacciono le persone che conoscono l’importanza dell’allegria e la diffondono, le persone che attraverso gli scherzi ci insegnano a prendere la vita con buon umore. Le persone che non dimenticano mai il loro lato bambino.
Mi piacciono le persone che contagiano con la loro allegria.
Mi piacciono le persone sincere e franche, capaci di opporsi con argomenti ragionevoli alle decisioni degli altri.
Mi piacciono le persone fedeli e testarde, che non si arrendono quando si tratta di raggiungere obiettivi e idee.
Mi piacciono le persone di buon senso, che non si vergognano di riconoscere di essersi sbagliate o di non sapere qualcosa. Mi piacciono le persone che, nell’accettare i propri errori, si sforzano di non commetterli più.
Mi piacciono le persone che lottano contro le avversità, le persone che cercano soluzioni.
Mi piacciono le persone che pensano e che meditano. Le persone che danno valore ai propri simili non per il loro aspetto esteriore o secondo gli stereotipi sociali.
Mi piacciono le persone che non giudicano e che non permettono agli altri di giudicare.
Mi piacciono le persone che hanno personalità.
Mi piacciono le persone in grado di capire che l'errore più grande dell'uomo sta nel cercare di tirare fuori dalla testa ciò che non viene dal cuore.
La sensibilità, il coraggio, la solidarietà, la bontà, il rispetto, la tranquillità, i valori, l’allegria, l’umiltà, la fede, la felicità, il tatto, la fiducia, la speranza, la riconoscenza, la sapienza, i sogni, il pentimento e l’amore verso gli altri e verso se stessi, sono cose fondamentali per chiamarsi “persone”.
Con persone come queste mi impegno su qualsiasi cosa per il resto della mia vita, dal momento che, per il semplice fatto di tenerle al mio fianco, mi sento ben ricompensato.
Mario Benedetti

Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti-Farugia, noto come Mario Benedetti (Paso de los Toros, 14 settembre 1920 – Montevideo, 17 maggio 2009), è stato un poeta, saggista, scrittore e drammaturgo uruguaiano.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...