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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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martedì 6 dicembre 2011

LO SGUARDO RETROSPETTIVO – Arthur Schopenhauer

Come un operaio che coopera alla costruzione di un edificio non conosce il progetto nell’insieme o comunque non ce l’ha sempre presente, così si comporta l’uomo che fila uno per uno i giorni e le ore della sua vita nei confronti dell’insieme di quella stessa vita e del suo carattere.
Quanto più degno, ispirato a valori, coerente e personale è questo carattere, tanto più è necessario e utile che egli guardi di tanto in tanto la pianta generale, il progetto. Naturalmente è anche necessario che sia stato introdotto al principio del “conosci te stesso”, e dunque sappia ciò che veramente e prima di tutto vuole, ossia la condizione primaria della sua felicità, e quindi quello che viene al secondo e al terzo posto; come pure che riconosca quale sia in linea di principio la sua vocazione, il suo ruolo nel mondo e il suo rapporto con se stesso. Se tutto questo corrisponde a qualcosa di significativo e di rilevante, allora la vista dello schema della sua vita lo rafforzerà e lo rinfrescherà più di ogni altra cosa, gli darà entusiasmo e incoraggiamento ad agire e lo tratterrà dal prendere strade sbagliate.
Come il viandante, solo quando è arrivato su un’altura domina con lo sguardo la via percorsa, riconoscendone tutte le curve e le svolte, così noi solo alla fine di un periodo della nostra vita, o addirittura al suo termine, identifichiamo il vero nesso delle nostre azioni, delle nostre prestazioni e delle nostre opere, la loro esatta consequenzialità e concatenazione, persino il loro stesso valore. Perché fin tanto che vi siamo implicati, noi agiamo sempre secondo le qualità del nostro carattere, sotto l’influsso di varie motivazioni e secondo le nostre facoltà. Siamo dunque sempre condizionati dalla necessità, perché in ogni momento facciamo semplicemente ciò che ci sembra giusto e opportuno. Solo l’esito finale rivela che cosa abbiamo raggiunto, e lo sguardo retrospettivo all’intero schema ci mostra il come e il perché. Per questo, mentre compiamo le imprese più grandiose e creiamo opere immortali, non ne siamo consapevoli, ma sappiamo solo di fare qualcosa che corrisponde ai nostri scopi attuali, alle nostre intenzioni del momento, qualcosa dunque che – in quel momento – è giusto. Ma solo guardando l’insieme, nella sua completa articolazione, scopriremo in seguito il nostro carattere e le nostre capacità. Nel caso singolo, vediamo spesso che abbiamo preso l’unica via giusta, tra mille sbagliate, come per ispirazione, guidati dal nostro genio tutelare. Tutto questo vale nel campo teorico come in quello pratico, e, inversamente, per i cattivi risultati e per gli insuccessi.
Arthur Schopenhauer, Consigli sulla felicità

martedì 1 settembre 2009

13. IL MONDO LIQUIDO - Francesco Callegari

“Quando la persona giusta usa mezzi sbagliati, questi mezzi  agiscono in modo giusto;
 quando la persona sbagliata usa mezzi giusti, questi mezzi agiscono in modo sbagliato”
Proverbio cinese

1.       La nostra società sta vivendo un momento di cambiamenti veloci e frequenti (mondo liquido).
2.       Rispetto alla stabilità del passato, per vivere nella fluidità del cambiamento è richiesto alla persona un abito mentale diverso.
3.       La persona è un tutto unitario che continua a riorganizzare la propria conoscenza della realtà grazie alla capacità di raccogliere i saperi in unità.
4.       Compito della scuola è quello di favorire nell’allievo il processo di unitarietà del sapere, evitandone la frammentazione.
5.       E’ possibile affrontare in questa ottica, gli ultimi interventi di riforma della scuola?

1. IL MONDO LIQUIDO
La velocità nel cambiamento caratterizza ormai quasi tutti gli ambiti della nostra vita; con una illuminante etichetta, Bauman definisce mondo liquido il momento che stiamo attraversando e lo descrive come:
“una condizione nella quale le forme sociali (strutture, istituzioni, modelli di comportamento) non riescono più (né nessuno se lo aspetta) a conservare a lungo la loro forma, perché si scompongono e si sciolgono più in fretta del tempo necessario a fargliene assumere una e, una volta assunta, a prendere il posto assegnato loro. E’ improbabile che le forme sociali, siano esse già presenti o soltanto accennate, abbiano a disposizione abbastanza tempo per solidificarsi, né esse possono servire da quadri di riferimento per le azioni umane e per le strategie di vita a lungo termine, data la loro breve speranza di vita: addirittura più breve del tempo necessario a sviluppare una strategia decisa e coerente, e ancora più breve del tempo richiesto per portare a compimento un ‘progetto di vita’ individuale”[1].        

2. UN NUOVO ABITO
Molti anni fa, ai tempi in cui un debitore insolvente poteva essere gettato in prigione, un mercante di Londra si trovò, per sua sfortuna, ad avere un grosso debito con un usuraio. L’usuraio, che era vecchio e brutto, si invaghì della bella e giovane figlia del mercante e propose un affare. Disse che avrebbe condonato il debito se avesse avuto in cambio la ragazza. Il mercante e sua figlia rimasero inorriditi della proposta. L’astuto usuraio propose allora di lasciar decidere alla Provvidenza: disse che avrebbe messo in una borsa vuota due sassolini, uno bianco e uno nero, e che poi la fanciulla avrebbe dovuto estrarne uno. Se fosse uscito il sassolino nero, sarebbe diventata sua moglie e il debito di suo padre sarebbe stato condonato. Se la fanciulla invece avesse estratto quello bianco, sarebbe rimasta con suo padre e anche in tal caso il debito sarebbe stato rimesso. Ma se si fosse rifiutata di procedere all’estrazione, suo padre sarebbe stato gettato in prigione e lei sarebbe morta di stenti. In quel momento si trovavano in un vialetto di ghiaia e l’usuraio si chinò a raccogliere due sassolini. Mentre egli li sceglieva, gli occhi della fanciulla, resi ancor più acuti dal terrore, notarono che egli prendeva e metteva nella borsa due sassolini neri. Poi l’usuraio invitò la fanciulla a estrarre il sassolino che doveva decidere la sua sorte e quella di suo padre.
Che cosa fareste nei panni della sfortunata fanciulla? Quale tipo di ragionamento seguireste? La ragazza potrebbe rifiutarsi di estrarre il sassolino, oppure mostrare che la borsa contiene due sassolini neri e smascherare l’usuraio imbroglione, o ancora estrarre uno dei sassolini neri e sacrificarsi per salvare il padre. Nessuno di queste scelte, tuttavia, sarebbe veramente utile.
Ebbene: la ragazza introdusse la mano nella borsa ed estrasse un sassolino, ma senza neppur guardarlo se lo lasciò sfuggire di mano facendolo cadere sugli altri sassolini del vialetto, fra i quali si confuse. “Oh, che sbadata!” esclamò. “Ma non vi preoccupate: se guardate nella borsa potrete dedurre, dal colore del sassolino rimasto, il colore dell’altro”. Naturalmente, poiché quello rimasto era nero, si dovette presumere che ella avesse estratto il sassolino bianco, dato che l’usuraio non osò ammettere la propria disonestà. In tal modo, servendosi del pensiero laterale, la ragazza riuscì a risolvere una situazione che sembrava senza scampo[2].

Se per Bauman dobbiamo abituarci a camminare sulle sabbie mobili[3] e per Morin bisogna imparare a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze[4], la creatività nelle idee e la flessibilità del pensiero laterale sono, oggi, probabilmente l’approccio più adatto per affrontare e comprendere la realtà che ci circonda.
Un modello scolastico rigido, come quello giapponese, che solo qualche decennio fa era considerato efficace, appare oggi inaccettabile:
“A scuola, il bambino non viene abituato a pensare con la propria testa, ma addestrato a dire la cosa giusta al momento giusto. Per ogni domanda esiste una risposta e quella va imparata a memoria. ‘Che cosa succede quando la neve si scioglie?’ chiede la maestra, e la classe, in coro, deve rispondere: ‘Diventa acqua!’. Se a uno viene da dire: ‘Arriva la primavera!’ è redarguito. Con quello sfoggio di fantasia si è messo fuori del gruppo e questo è mal visto”[5].
Forse un’utile ricetta viene ancora una volta dalla scuola di Barbiana:
“Insieme abbiamo imparato che è importante avere delle idee, ma è dannoso restarvi attaccati sempre e comunque. Un’opinione è un’opinione, e rimane solo un’opinione, per quanto importante possa essere. Non conta tanto averne una – e cercare tutti i puntelli e gli argomenti per farla vincere contro qualcuno che ha una opinione contraria – quanto essere disponibili a credere che ciò che pensa l’altro possa aiutarci a dar vita a un’idea migliore, più vera, più giusta. Solo così le discussioni non saranno chiacchiere o parole da esibire. Solo così le dispute, anche se accanite, non registreranno sconfitti o vinti, ma solo vincitori”[6].
Costruire e ricostruire insieme il sapere sembra essere la strada più adatta per fare fronte alla velocità dei cambiamenti in un orizzonte culturale che vede la persona riorganizzare continuamente la propria conoscenza, grazie alla capacità di raccogliere i saperi in unità.

3. UNITA’ DELLA PERSONA E UNITA’ DEL SAPERE
Per Morin,
“L'essere umano è un insieme fisico, biologico, culturale, sociale, storico. L'insegnamento delle singole discipline tende a disintegrare questa unità complessa della natura umana, al punto che è diventato impossibile apprendere il senso dell'essere uomini. Bisogna ricomporre questa unità, in modo che ciascuno abbia conoscenza e consapevolezza della propria identità complessa e dell'identità che lo accomuna a tutti gli altri esseri umani”[7].
In questo tempo dal futuro fragile e incerto, la pedagogia riporta l’uomo al centro della discussione sui saperi, intendendo con ciò il primato della persona sulle discipline. L’individuo è visto come l’organizzatore di una conoscenza funzionale alla costruzione della propria identità personale, con il docente in veste di guida e accompagnatore. 
Un grande pedagogista padovano, Giuseppe Flores d’Arcais, più di dieci anni fa scriveva che Il vero protagonista dell’educazione è l’educando, il solo capace di raccogliere in unità, o sintesi, la molteplicità degli interventi. Infatti la molteplicità degli stimoli educativi può tradursi in positiva azione educativa soltanto a condizione che essi si raccolgano in un tutto unitario all’interno della persona che accoglie e struttura gli stimoli stessi in base al progetto originario legato al proprio modo d’essere[8].
La capacità di base che è dunque necessario sviluppare nella persona è quella di saper riorganizzare e collegare le conoscenze: piuttosto che una testa ben piena, per Morin, è meglio una testa ben fatta. In altre parole, è indispensabile che le menti delle persone siano non tanto caratterizzate da un accumulo di sapere, quanto piuttosto abbiano un’attitudine generale a trattare i problemi e, allo stesso tempo, possano disporre di principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro un senso. Solo una testa ben fatta sarà in grado di cogliere e governare la complessità del sapere in una società come la nostra[9].
Secondo Morin, è necessario promuovere una conoscenza che sappia cogliere i problemi globali e fondamentali entro cui inserire le conoscenze parziali e locali. La conoscenza pertinente esiste soltanto se una persona è capace di collocare un’informazione all’interno di un contesto, di globalizzarlo e di posizionarlo in un quadro generale. L’estrema frammentazione delle conoscenze operata dalle singole discipline rende spesso impossibile collegare le parti alla totalità. Occorre insegnare metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti entro un mondo complesso[10].

4. IL COMPITO DELLA SCUOLA
Alla scuola e ai suoi docenti è affidato quindi il difficile compito di allenare le menti a rispondere alle sfide che la crescente complessità dei problemi pone alla conoscenza umana. Per conseguire questo obiettivo, la scuola si dovrà dotare di strumenti didattici adeguati: secondo Flores d’Arcais, una didattica dei saperi deve tenere presente che il contenuto, dovendosi adeguare al “ricevente”, si caratterizzerà per estensione e intensità diverse sulla base dell’età e della maturazione della persona. Di qui la conseguente organizzazione della scuola che sempre procede da una didattica di base a una maggiormente articolata[11].
La ricerca della struttura unitaria della cultura di base diventa preliminare rispetto alla successiva istruzione secondaria, che senza questo punto di partenza rischierebbe di cadere nella frammentazione disciplinare[12].

5. LE NOVITA’ ORGANIZZATIVE NELLA SCUOLA
A questo punto possiamo chiederci se, e in quale misura, sia possibile curvare verso questa visione di scuola gli interventi che negli ultimi tempi hanno interessato l’assetto organizzativo scolastico. A titolo di esempio, prendiamo in esame un aspetto controverso relativo alla scuola primaria, quello del maestro “unico” o prevalente.
L’insegnante prevalente. L’esperienza dell’insegnamento in modulo ha consentito ai docenti della scuola primaria di sviluppare notevolmente in questi anni le loro competenze didattiche e disciplinari, ma ha anche permesso loro di sperimentare nuove modalità di relazione legate alla condivisione della responsabilità nella conduzione della classe: il poter affrontare insieme le problematiche di ogni giorno, il condividere idee e impressioni sui ragazzi, il parlare ai genitori con una sola voce, il poter programmare insieme settimanalmente sono tutte opportunità che hanno fatto crescere gli operatori della scuola primaria. E hanno portato benefici innegabili agli alunni.
Pur sottolineando la bontà dell’esperienza in team, l’onestà intellettuale che deve accompagnare ogni ricerca ci fa chiedere però se la presenza di uno stesso insegnante per un tempo più lungo con gli stessi allievi, non possa favorire nel tempo la costruzione di una relazione più profonda e personale con ciascun alunno. E se uno stesso docente, messo nella condizione di poter affrontare nella sua classe i diversi aspetti della conoscenza, non possa agevolare negli alunni la realizzazione di quella visione unitaria del sapere di base, tanto auspicata nella scuola primaria.
Non è facile rispondere a queste domande senza correre il rischio di voler tornare a un passato che in verità non interessa più a nessuno. Ma un tentativo si può fare, cercando di contemperare la bontà della nostra esperienza con le richieste del mondo presente. Sembrerebbe una missione impossibile, ma i docenti della scuola primaria sono abituati a trovare l’acqua nel deserto!
Una possibile pista di ricerca potrebbe essere quella di cercare di rendere più flessibili e coordinati tra loro i tempi dedicati alle discipline facendoli diventare tempi dedicati agli alunni: senza una rigida divisione disciplinare tra i docenti sarebbe forse possibile cogliere meglio le esigenze di apprendimento della classe, il tutto all’interno di un’unica narrazione didattica, anche se svolta a più voci (e qui troverebbero un senso forte anche le due ore settimanali di coordinamento di modulo).
Se vogliamo iniziare questa ricerca, è però opportuno avere prima la consapevolezza dei limiti, sia nei confronti delle nostre competenze disciplinari, sia in termini di aspettative di risultato. Nella convinzione che sia meglio per i nostri alunni avere una testa ben fatta che una testa ben piena, dobbiamo essere consci che il docente della scuola primaria non ha come compito principale quello di trasmettere contenuti, ma quello di dare ai ragazzi gli strumenti per apprendere, accompagnando ciascuno a trovare il proprio metodo. Il maestro non è un professore in miniatura, il maestro non insegna matematica o storia: il maestro insegna ad apprendere, anche attraverso la matematica e la storia. Una volta giunti alla scuola media, saranno offerti ai ragazzi i contenuti e gli strumenti disciplinari più specialistici e adatti all’età, ma sempre all’interno di una visione che deve vedere i saperi funzionali alla vita del ragazzo e non viceversa.     

Buon cammino a tutti noi, insieme.

Francesco Callegari
Dirigente Scolastico


[1] Zygmunt Bauman, Modus vivendi, Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, Roma-Bari 2007, p. V.
[2] Edward De Bono, Il pensiero laterale (come diventare creativi), BUR, Milano 1997
[3] Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 131.
[4] Edgar Morin, I Sette Saperi necessari all'educazione del futuro, Unesco 1999, scaricabile nella versione originale da  www.agora21.org/unesco/7savoirs/, ed. italiana Raffaello Cortina Editore, Milano 2001.
[5] Tiziano Terzani, In Asia, Longanesi, Milano 1998, p. 250.
[6] Vito Piazza, Lettera a una professoressa 2, Erickson, Trento 2005, p. 72.
[7] Morin, I Sette Saperi.
[8] Giuseppe Flores d’Arcais, Sedici lezioni accademiche per una paideia, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1996, p. 16-17.
[9] Edgar Morin, La testa ben fatta, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 15.
[10] Morin, I Sette Saperi, cap. II.
[11] Flores d’Arcais, Sedici lezioni, p. 29-30.
[12] Flores d’Arcais, Sedici lezioni, p. 30.

mercoledì 7 gennaio 2009

11. IL TRIANGOLO E IL PRIMO VIOLINO - VERSO UNA VALUTAZIONE RICONOSCENTE - Francesco Callegari

“Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica”.
Daniel Pennac, Diario di scuola, p. 107

Il termine latino valĕre viene tradotto con “valere”, “potere”, “avere forza”, “essere capace di”, “avere significato”. Ciascuna di queste accezioni è sempre riferita al soggetto che si autovaluta. Quando invece volevano dar valore a un terzo, i latini usavano la parola aestimare, nel senso di “giudicare”, “stimare”, “dare un prezzo, un valore”.
Tra autovalutazione ed eteroeducazione. Questa premessa etimologica ci aiuta a capire meglio l’art. 1 dello “Schema di Regolamento per il coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e per ulteriori modalità applicative dell’art. 3 del D.L. 1 settembre 2008, n. 137, convertito dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169  ancora in bozza:
“…la valutazione è, per la scuola, una verifica dell’efficacia delle azioni messe in atto per favorire il raggiungimento di livelli adeguati di apprendimento per ciascun alunno. La possibilità di migliorare tali livelli ha le radici nella ricchezza degli ambienti di apprendimento e nell’efficacia dell’insegnamento” (art.1, c. 2).
La valutazione diventa dunque opportunità, momento saliente per una riflessione sui modelli didattici, organizzativi e culturali messi in atto nella nostra scuola. La ricchezza degli ambienti di apprendimento e l’efficacia dell’insegnamento rappresentano i due pilastri su cui poggia il successo formativo di ciascun alunno. Naturalmente, sono anche altri gli elementi che concorrono all’apprendimento (le capacità individuali, gli stimoli dati dalla provenienza sociale, gli strumenti a disposizione per lo studio personale, il grado di applicazione e di impegno pomeridiano, la partecipazione delle famiglie al processo formativo, …), variabili però esterne, su cui la scuola può incidere relativamente e sulle quali forse non è neppure opportuno far troppo conto. Cercheremo allora di utilizzare al meglio gli strumenti a nostra disposizione e la valutazione potrà diventare la cartina al tornasole della loro efficacia, chiedendoci di volta in volta, alunno per alunno, come arricchire l’ambiente di apprendimento e come rendere maggiormente efficace il nostro insegnamento. Concetto ribadito anche dal comma successivo del Regolamento:
“Il contesto normativo di riferimento evidenzia come la valutazione abbia prevalentemente finalità formativa e concorra al miglioramento degli apprendimenti e al successo formativo di ciascun alunno” (art. 1, c. 3).
I modi della valutazione. La valutazione deve dunque concorrere al miglioramento degli apprendimenti e al successo formativo di ciascun alunno. Per ottenere tali risultati, essa deve sempre essere riferita al soggetto e mai avulsa dalle condizioni personali e dal contesto situazionale in cui esso si trova a operare.
I modi della valutazione sono in varia misura dipendenti dalle scelte complessive: la valutazione può tendere a esaltare le differenze o a ridurle, a premiare il successo o a compensare le difficoltà, a indurre atteggiamenti competitivi o a favorire la collaborazione. Una prova più difficile può essere motivante per alcuni e non per altri, una più facile può essere preferibile per ottenere diagnosi più accurate delle esigenze di ciascuno[1]. A tal riguardo, sarà necessario adottare particolari attenzioni per la valutazione degli alunni diversamente abili e degli stranieri.
“Una valutazione adeguatamente formativa e di qualità non rileva solamente gli esiti, ma pone attenzione soprattutto ai processi formativi dell’alunno, è strettamente correlata alla programmazione delle attività e agli obiettivi di apprendimento, considera il differenziale di apprendimento. Si realizza attraverso l’osservazione continua e sistematica dei processi di apprendimento formali e informali, documenta la progressiva maturazione dell’identità personale, promuove una riflessione continua dell’alunno come autovalutazione dei suoi comportamenti e percorsi di apprendimento” (Art. 1, c. 6).
Basterebbe questo comma. In esso c’è tutto quello che ci serve!
Il riferimento al differenziale di apprendimento ci ricorda come una scuola possa essere valutata positivamente (le cosiddette “scuole efficaci”) solo se saprà dimostrare il valore formativo aggiunto che è riuscita a produrre rispetto alla situazione di partenza di ciascun allievo. Ed è questo che deve essere valutato, in quanto espressione dell’incidenza dei processi di formazione sulle caratteristiche individuali e del gruppo di allievi[2].
La valutazione formativa e di qualità si realizza anche attraverso la narrazione autobiografica e la riflessione personale sul proprio comportamento e sul proprio percorso al fine di comprendere quanto appreso. Gli strumenti di valutazione autoriferita sono dispositivi pedagogici che fermano e focalizzano l’esperienza del soggetto mettendo in luce i suoi percorsi di apprendimento, i suoi modelli di pensiero, le sue azioni ricorrenti, fino ad arrivare alle sue aree di sognabilità e progettualità. Questi attrezzi della riflessione prendono diversi nomi (diario di bordo, registro delle esperienze, quaderno riflessivo,…) ma sono tutti modi per registrare le esperienze e mettere in moto processi di re-interpretazione alla luce di una profonda riflessione su di sé e su quanto appreso. In essi, l’allievo annota tutte le esperienze vissute nel corso del proprio processo formativo, descrivendole, rielaborandole, valutandole alla luce degli obiettivi che egli stesso si era posto in relazione al proprio percorso di apprendimento. Questi strumenti consentono di connettere le nuove conoscenze alle proprie capacità, ma soprattutto permettono di osservare come queste si trasformino in competenze dal momento in cui si strutturano nell’identità personale. La stesura di un quaderno riflessivo, oltre a mezzo per elaborare la complessità dei contesti in cui l’allievo si trova a vivere e operare, rappresenta un metodo per la focalizzazione emotiva che fissa l’esperienza appresa e radica l’apprendimento, andando ad alimentare il processo di coscienza autobiografica. Attraverso questi strumenti riflessivi, la valutazione diventa una continuazione dell’apprendimento[3].    
Valutare la complessità. Le competenze complessive di ogni soggetto non si riducono mai a singole prove o abilità; sono qualcosa di più complesso, rintracciabile soprattutto negli itinerari mentali seguiti da ognuno e non sempre traducibili in comportamenti osservabili dall’esterno. I risultati forniti dai singoli alunni possono anche essere identici tra loro, ma i percorsi intellettivi e le motivazioni interiori di acquisizione delle competenze sono sempre diversi e non possono essere trascurati nei processi valutativi. Questi percorsi e queste motivazioni rivelano, alla fine, le vere abilità mentali, le più autentiche dimensioni culturali, sempre diverse da soggetto a soggetto, che ogni alunno mette in campo in maniera personale e specifica, nelle diverse circostanze[4].
Misurazione e valutazione. La maggiore difficoltà che ci troveremo ad affrontare con la votazione decimale risiede nel fatto che dovremo utilizzare quella serie numerica che è legata concettualmente più alla misurazione (aestimare) che alla valutazione (valĕre). Le misure possono certo avere qualche utilità nel reperimento di elementi conoscitivi elementari, ma servono davvero a poco per l’analisi e la comprensione dei processi superiori e più complessi dell’apprendimento, coniugazione estrema delle più raffinate dinamiche di intelligenza e affettività[5]. Spesso si confonde la valutazione con la misurazione (che è solo un momento dell’atto valutativo). La valutazione infatti non è un equivalente della misurazione, ma è l’atto di interpretazione di una serie di misure, che a sua volta è la costruzione di un significato che deve orientare poi la presa di decisione. Da questo punto di vista lo scopo della valutazione consiste nel raffinare il giudizio espresso, a partire dalla molteplicità dei punti vista, delle prospettive di valore dei soggetti coinvolti, e dalla valorizzazione e confronto di tale pluralità. L’assegnazione di un valore dipende quindi sia dai significati comuni, sia dalla progettualità comune[6].
La valutazione collegiale. Esistono varie definizioni di valutazione, a seconda delle teorie, degli approcci, delle tradizioni e dei contesti. Ciò che però conta è che ogni valutazione è intrisa di valori: valutiamo perché personalmente e come gruppo abbiamo un quadro di riferimento concettuale e valoriale che ci permette di assumere una posizione di giudizio[7].
“La collegialità decisionale dei docenti, ribadita anche dall’articolo 3 della citata legge di conversione n. 169/2008, è garanzia della sintesi valutativa finale quale attestazione dello sviluppo integrale conseguito dall’alunno” (Art. 1, c. 5).
La valutazione collegiale dovrebbe limitare il rischio di una visione monoculare e favorire una più equa assegnazione di valore.
 La valutazione del comportamento. Per quanto riguarda il comportamento, “fin dalla prima valutazione periodica, il Consiglio di Classe valuta – mediante l’attribuzione di un voto numerico espresso in decimi – il comportamento degli allievi durante l’intero periodo di permanenza nella sede scolastica, anche con riferimento alle iniziative e alle attività con rilievo educativo realizzate al di fuori di essa. Tale valutazione deve scaturire da un giudizio complessivo di maturazione e di crescita civile e culturale dello studente in ordine all’intero periodo scolastico cui si riferisce la valutazione. In tale contesto vanno collocati anche singoli episodi che abbiano dato luogo a sanzioni disciplinari” [8].
Verso una valutazione riconoscente. La valutazione dell’apprendimento è dunque allo stesso tempo un processo che dà valore e una riflessione sul valore: riconoscere il significato personale dell’apprendimento costituisce la prima salvaguardia della singolarità e del suo valore. E la dimensione singolare è troppo ricca di caratteri contingenti per essere ricompresa dalle restrizioni di un modello statistico o computazionale sommativo[9]. L’allievo che apprende cerca riconoscimenti per quegli aspetti che egli giudica significativi per se stesso, per ciò che veramente ha assimilato, per ciò che ritiene importante per la sua vita: la valutazione ri-conoscente è quella capace di riconoscere, accettare, valorizzare la nuova realtà che è generata dalla formazione e a essa si accompagna. Essa è attenta al processo formativo: è interessata non solo agli esiti, ma anche al percorso, assistendo, aiutando, curando l’apprendimento nel “suo venire al mondo”, nel suo nascere[10].
Potrà un voto dar conto di tutto questo? E uno stesso voto dato a due persone diverse potrà connotare diversamente l’esperienza soggettiva lungo il (diversamente faticoso) percorso formativo?
Dovrebbe farci riflettere il “Documento sulla valutazione degli alunni diversamente abili” presentato dal nostro dipartimento di Sostegno. In esso si dice che “Nel caso di alunni diversamente abili gravi si debbano predisporre strumenti più idonei per definire i livelli di conoscenza e competenza raggiunti, essendo questi ultimi non quantificabili numericamente e assolutamente soggettivi. Si sottolinea che l’impegno, la progressione dell’apprendimento e il raggiungimento degli obiettivi educativi sono sempre inficiati dalle difficoltà cognitive, certificate dalla diagnosi e, in alcuni casi, anche dai farmaci. Non è possibile dunque seguire uno standard unico, ma si deve predisporre una scheda personalizzata. … Siamo orientati a esprimere il voto 10 su tutte le materie con appendice esplicativa per favorire l’informazione alle famiglie”. Non a caso, anche i docenti di Religione cattolica si pongono un analogo dilemma tra voti e giudizi[11].
Questi sono solo alcuni spunti di riflessione, aperti alla discussione e al confronto. L’importante credo sia pensarci e parlarne insieme per trovare delle modalità valutative adatte ai nostri ragazzi e che rendano migliore la nostra scuola.  
Un cordiale saluto
Francesco Callegari  Dirigente Scolastico



[1] B. Vertecchi, Valutare è difficile, “Tuttoscuola”, n. 484, p. 53. N. Bottani, Gli indicatori di istituto come strumento di autovalutazione, Atti del convegno “Scuole che si valutano. Verso una professionalità riflessiva”, Chianciano 29-30 maggio 2000.
[2] A. Faion, La valutazione: processo fondamentale per la qualità dei risultati di apprendimento, U.S.R Veneto, Venezia 2003, p. 8.
[3] A. Fontana, G. Varchetta, La valutazione riconoscente, Guerini e Associati, Milano 2005, p. 124, 132-134.
[4] G. Iannuzzi, Verso un nuovo modello di valutazione, “Dirigere la scuola” (8, 2008), p. 19-20.
[5] Fontana, Varchetta, La valutazione riconoscente, p. 74.
[6] Ivi, p. 85.
[7] Ivi, p. 73.
[8] M.I.U.R., Circolare n. 100, 11 dicembre 2008.
[9] Fontana, Varchetta, La valutazione riconoscente, p. 119-120.
[10] Ivi, p. 103.
[11] S. Cicatelli, Voto decimale e IRC, Il nodo della valutazione, “Insegnare religione”, novembre-dicembre 2008, p. 13-15.
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