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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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domenica 28 giugno 2020

CHIAMATEMI DIRETTORE




“I limiti esistono soltanto nell’anima
di chi è a corto di sogni”
Philippe Petit, Trattato di funambolismo

“T
utto quello mi è capitato di buono non mi è venuto da una vera intenzione, ma come da sé, senza meta prefissa, senza posa della prima pietra e altre solennità d’inaugurazione”. Questo, Erri De Luca confessa nel suo Alzaia, squarciando di verità un’esistenza che solo illusoriamente pensiamo in mano nostra.  E, sempre su Alzaia, continua: “Suo compito a volte è solamente non opporsi, non frenare, insomma farsi suonare senza la pretesa di essere sempre suonatore, compositore”.
Anni di vita e di lavoro che creano un disegno, ma noi siamo troppo bassi, ci siamo dentro, per poterlo vedere tutto intero, e riconoscerlo. Ne sa qualcosa l’uomo descritto da Karen Blixen che, dopo una nottata di corse tribolate in giardino, scopre, il mattino dopo, che le sue orme avevano disegnato sul terreno una cicogna: “Quando il disegno della mia vita sarà compiuto, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?”
Così, le lettere che in questi anni ho scritto per voi. A partire da Magiche alchimie del Primo settembre 2007, in tutte e in ciascuna ho lasciato che spirasse il vento della profezia: parola che sbaraglia, soffio di messaggio che ogni volta scompigliava me per primo. Di rado mi sono preoccupato che l’esito fosse poesia o aspra prosa. Di rado ho cercato parole che fossero condivisibili da tutti, anzi. Rileggendole, odo musica che invita a ballare, avverto ali che spingono a volare, odoro profumi che fanno sognare. Ma più di tutto, sento la mano che scuote decisa l’albero, affinché ciascuno possa godere del proprio frutto maturo.
Anche questa, ultima mia lettera come vostro dirigente, non cercherà facile consenso, ma avrà la durezza della terra da arare, sasso gettato nello stagno, uccello che vola controvento, sbattuto e inerme.
Nelle mie intenzioni, questo avrebbe dovuto essere il lascito ideale, il testamento pedagogico, qualcosa con cui farmi ricordare. Carrellata sui tanti anni di scuola, e di vita. Flash di eventi e ripasso di memoria. Pensieri scolpiti. E ringraziamenti per tutti voi che avete reso possibile una scuola con il cuore che batte.


Così si fa alla fine della carriera, questo ci si aspetta dal dirigente che va in pensione: parlarvi del progetto di scuola che fin dall’inizio ha infiammato il mio cuore e che giorno dopo giorno ho condiviso con voi. Ripercorrere i nostri sogni pedagogici, le avventure didattiche, le sperimentazioni organizzative, i nostri corsi di formazione, unici e irripetibili. Individuare ancora una volta assieme a voi la stella polare che indica il nostro oriente, il senso di tutto il nostro lavoro: i ragazzi e il loro seme cui offrire rispetto e nutrimento. La carne sempre prima delle carte. 
Niente di tutto questo. Perché sono mano prestata, idee che mi raggiungono e che ritrasmetto come onde nell’aria, vibrazioni che assumono la forma di chi le riceve, e le accoglie. Melodia su cui ciascuno intona il canto che sa, o che può. 

“La visione della stella polare non dice mai al pescatore in quale direzione debba muovere,
ma egli non avanzerà nella notte se non è in grado di riconoscerla”.
Simone Weil, Scritti londinesi
Per quanto mi riguarda, credo di avere compreso il disegno che tutti questi anni di corse tribolate, questo mio andirivieni di parole e di azioni, alla fine, hanno prodotto: incisa sulla terra del mio giardino riconosco l’immagine di un uomo per una scuola d’altri tempi e d’altri modi.
Chiamatemi direttore. Non prèside, direttore. Come di colui che dà una direzione, vento che soffia sulle vele e le gonfia, acqua che sostiene la nave e la fa navigare. Dito che indica la luna.
Vent’anni fa, per norma di legge, i direttori didattici e i prèsidi sono diventati dirigenti scolastici. Anche i direttori, da allora, hanno preferito farsi chiamare prèside, convinti così di salire di grado. Sbagliavano.
Parrebbe una questione puramente nominale, ma anche il modo in cui ci si riferisce a una persona contribuisce a definirne il ruolo, e la funzione ne assume i colori e le sfumature: mentre prèside è “colui che siede davanti”, il direttore “traccia, alza, costruisce”.
Tredici anni fa, non ne ero pienamente consapevole. E adesso è troppo tardi, per me, ma soprattutto per la scuola. Non servono i direttori. Altre sono le priorità e le urgenze che l’istituzione deve affrontare.
L’appellativo del dirigente è ormai solo questione di lana caprina.

“Se vuoi costruire una nave
non chiamare gente che porti il legno
che procuri gli attrezzi necessari
Non distribuire compiti
Non organizzare il lavoro
Prima sveglia negli uomini la nostalgia
del mare lontano e sconfinato
Appena si sarà svegliata in loro questa sete
gli uomini si metteranno subito al lavoro
per costruire la nave”.
Antoine De Saint-Exupery

In tredici anni, non ho mai scritto un ordine di servizio.
Ho sempre cercato di creare intorno a voi spazi di libertà, universi di fiducia. Intorno, ma più di tutto al di sopra. Ho liberato lo spazio da tutto ciò che poteva ostacolarvi in altezza, me compreso. Per consentirvi di crescere, di alzarvi in volo, senza paura, senza timore di andare a sbattere, di venire ripresi. Non ho mai dovuto infliggere una sanzione disciplinare.
E non mi sono mai arreso. In ogni Collegio, in ogni Consiglio, in ogni occasione, direttore come voce d’onda, costante sciabordio dell’acqua contro la chiglia della nave, megafono di domanda. A ricordare, a tenere alta e viva l’attenzione sul senso della navigazione. 
A ogni ondata, una domanda:
“Verso dove stai andando?”, “A cosa sei destinato?”, “Sei al tuo posto?”
E la domanda radicale per una scuola:
“Quale educazione?”
Cinque anni fa, nella lettera La domanda delle onde scrivevo:
Quando per esempio affermiamo che è l’allievo a essere posto al centro dell’azione educativa, intendiamo operare per accompagnarlo a scoprire e valorizzare la sua vocazione profonda oppure intendiamo fornirgli gli strumenti per integrarsi efficacemente nella società attuale? Non è la stessa cosa. Se riteniamo prioritaria l’integrazione all’interno di questa società in veloce cambiamento, daremo grande valore alle competenze. Ma se per centralità della persona intendiamo ciò che le onde ci hanno suggerito, allora ci assale lo sgomento, perché tutto lo sforzo che abbiamo fatto per abituarci a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze, si annulla nella nuova consapevolezza che la salvezza sta nella capacità del singolo di ritrovare quei perduti parametri esistenziali basati su valori che poco hanno a che vedere con tutto ciò che noi chiamiamo “progresso”.
Siate allora esempio di saggezza, perché se la competenza è il modo in cui usate la conoscenza, la saggezza ne è il perché, e soprattutto il quando.
“Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino,
bisogna soprattutto conoscere Giovannino”.
Jean-Jacques Rousseau, Emilio
La scuola ha bisogno di sogni, di respiri ampi, di visione. Ha bisogno di altezze, di andare aldilà, di vedere oltre. Soprattutto, oltre noi stessi. Perché la tentazione del rispecchiamento, anche se inconscia, è sempre dietro l’angolo: più mi assomiglia e più l’allievo è bravo, meglio ripete le mie parole e più ha capito, più si comporta come dico io e più è educato. Il grande fraintendimento sta nell’essere convinti di dovergli spiegare come deve essere, anziché cercare di capire come veramente è. Giovannino è venuto in questo mondo per uno scopo preciso: è una cosa così stupida e inutile prenderlo per mano e aiutarlo a capire quale sia questo scopo? Il Giovannino che è dentro ciascuno di noi è stato aiutato dai suoi insegnanti a scoprire il senso del suo camminare sulle strade di questo mondo? Oppure si sono preoccupati di qualcos’altro?
Sta a noi deciderlo. Certo, ci vuole coraggio. Il coraggio del prof. Keating che strappa le pagine dall’antologia e sale sulla cattedra per ricordare prima di tutto a se stesso che bisogna sempre guardare le cose da angolazioni diverse: “E’ proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”. E il mondo appare effettivamente diverso.  Anche se è lo stesso. Perché tutto è Uno.
“Non insegnate ai bambini,
ma coltivate voi stessi, il cuore e la mente,
stategli sempre vicini,
date fiducia all’amore, il resto è niente”.
Giorgio Gaber, Non insegnate ai bambini
E il maestro diventa Maestro, che nella bottega artigiana si pone a esempio di fattura, modello di capolavoro. Ciascuno con la propria fatica, il proprio sudore, la propria vocazione. Nel rispetto. Nella fiducia. A un seme, per crescere, bastano acqua e buon terreno. Ed è abbastanza.
Termino questa lettera, facendo mie le parole che una persona speciale, la nostra DSGA Luisa, ci ha scritto la notte tra il 31 agosto e il Primo settembre 2018, al momento di andare in pensione:
“Se nulla succede per caso, voi siete stati il mio caso, e se domani non sono con voi, voi siete sempre con me. Vi voglio bene”.

30 giugno 2020                                              Francesco Callegari

 “E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre alla follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio -
è una barca che anela al mare eppure lo teme”.
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River

martedì 6 settembre 2016

LA NOSTRA CULTURA FAVORISCE LA COMPETIZIONE – Marshall Rosenberg (1934-2015)


La maggior parte di noi sarebbe d’accordo con il Dalai Lama sul fatto che abbiamo bisogno di aiutare i giovani a sviluppare maggior altruismo e senso di responsabilità verso gli altri. Tuttavia, la nostra cultura favorisce la competizione, in un contesto iniquo in cui si sa già che pochi privilegiati finiranno per vincere.
Le nostre scuole riflettono palesemente questa cultura. Gli studenti che ottengono i voti più alti non sono necessariamente quelli che hanno imparato di più. Sono quelli che hanno già imparato prima di andare a scuola, perché la situazione economica delle famiglie ha consentito loro di avere un vantaggio nell’apprendere le cose che la scuola insegna.
Vorrei che la classe basata sulla competizione fosse trasformata in una comunità di apprendimento in cui tutti i suoi membri fossero coinvolti non soltanto nel proprio apprendimento, ma anche in quello degli altri.
Marshall B. Rosenberg, Educazione che arricchisce la vita, Edizioni Esserci, Reggio Emilia 2005, p. 136-137


lunedì 14 marzo 2016

QUAL E’ IL SEGRETO DEL TEAM PERFETTO? 1/2 – Elena Dusi


Ben  vengano le divagazioni durante una riunione. Le chiacchiere sul luogo di lavoro, perfino i pettegolezzi, le confessioni dei propri problemi ai colleghi alla macchinetta del caffè e le reazioni istintive, quando qualcuno urta la nostra suscettibilità. Il team perfetto, quello che all'occorrenza scatta come un sol uomo e che ha una "intelligenza collettiva" più alta della somma delle intelligenze individuali, non è un orologio dai meccanismi perfetti. Piuttosto, è un organismo in cui i colleghi alzano gli occhi dalla scrivania, incrociano quelli del collega che lavora accanto e si accorgono di cosa gli passa per la testa.
Ci sono voluti decenni di studi sulla sociologia del "team perfetto" per arrivare a non comprendere tutto questo. Fino a quando un progetto avviato da Google tra i propri dipendenti non si è accorto che nessuno degli algoritmi numerici sull'efficienza dei gruppi di lavoro è in grado di prevedere alcunché. Quello che fa funzionare bene una comunità di umani, ha concluso, dopo tanto analizzare, il più grande motore di ricerca del mondo, è in fondo proprio il senso di umanità: empatia, rispetto, consolazione di un collega se necessario.
Elena Dusi, “la Repubblica”, 29 febbraio 2016


lunedì 16 novembre 2015

NON NEL MIO NOME – Oriana D’Anna


Caro direttore,
come insegnante di una scuola primaria di Milano, formata da 22 alunni di cui solo cinque di nazionalità italiana, e di cui 12 di religione musulmana, mi interrogo su quello che vedrò riflesso sui volti dei bambini dopo i fatti di Parigi.
Gli episodi di terrorismo ci interrogano sia come cittadini sia come uomini e donne di buona volontà, ma soprattutto come membri di una società multietnica. Chiedo pertanto e mi auguro che si alzino tutti i musulmani che risiedono in Occidente al grido «non nel mio nome». Vorrei che la loro voce si alzasse così da sentirla chiaramente e nitidamente.
Spero che in Italia si alzino tutti i genitori musulmani degli alunni che dividono i banchi con i nostri figli, si alzino i papà e le mamme per dire ai loro bimbi cos'è davvero l'Islam così da spiegarlo anche a noi, affinché possano aiutarci a capire e a sentire la condanna di ciò che è male per perseguire, insieme a chi non è musulmano, ciò che è bene. Mi auguro un confronto alla luce della verità. Auspico che i popoli musulmani possano interrogarsi sulla loro identità, chiarirsela e chiarirla a noi che li accogliamo nelle scuole, nelle case. Mi auguro, entrando in classe, di poter scorgere nei volti dei miei alunni musulmani un riflesso, una traccia del fatto che nelle loro famiglie si condivida il desiderio di pace e si lavori perché ciò che abbiamo visto non accada più nel loro nome.
Mi chiedo allora se non sia opportuno cambiare qualcosa nella scuola e nelle politiche di accoglienza. Perché non introdurre l'insegnamento della lingua araba nelle scuole europee? Non certo per diventare arabi ma per aumentare gli strumenti di dialogo. Mi chiedo perché non la smettiamo di pensare di abbattere le differenze annullandole, ma accogliendole. Oggi nelle scuole si evita di parlare di alcuni soggetti d'arte perché troppo cristiani, si evita di parlare di alcune feste religiose per non urtare chi non è di fede cristiana, si festeggia Halloween ma non si specifica che la festa è quella di Ognissanti. Una ricorrenza che costringerebbe a parlare della morte, di affrontarla e inquadrarla nella cornice della verità. Ebbene la morte entra però nelle nostre case con gli attentati, le guerre e gli attacchi terroristici. Molti militanti dell'Isis sono giovani che hanno studiato in Europa. E' giusto chiedersi cosa non ha funzionato nel processo scolastico, nel processo di socializzazione e di accoglienza.
Non è negando le differenze culturali e religiose che si affronta il problema della convivenza, ma crescendo nella competenza. Conoscere le nostre tradizioni e accoglierne di nuove senza negare la nostra identità e quella altra da noi. Per questo si auspica che i musulmani residenti nel nostro territorio si alzino a far conoscere la loro cultura nel dialogo.
Oriana D'Anna, insegnante su La Stampa, 16 novembre 2015.


venerdì 15 maggio 2015

CAMBIARE LA SCUOLA DALL’INTERNO – Lizanne Foster


Che cosa facciamo noi insegnanti mentre aspettiamo che i politici ci diano ragione sul fatto che scuole ormai ottocentesche sono inadeguate al ventunesimo secolo e che dovremmo incoraggiare la creatività e non la competizione tra gli studenti?
Cambiamo il sistema dall’interno.
Prima lavoriamo su noi stessi per trovare il coraggio di abbandonare il nostro ruolo di fornitori di contenuti e accettare l’idea di dover cambiare ruolo continuamente nelle nostre classi: a volte dobbiamo essere facilitatori, altre volte mentori, altre ancora padroni di casa che creano uno spazio sicuro per l’apprendimento.
Spostare continuamente il focus del lavoro in classe in questo modo non è un’impresa facile, e non finisce mai. Non è questione di un giorno. Richiede l’umiltà di capire che non dobbiamo necessariamente essere una fonte di saggezza per i nostri alunni. Richiede pazienza e tenacia.
Dobbiamo condividere la nostra idea di cambiare focus con i colleghi, per creare la magia della creatività combinatoria. Prendere qui e lì per trovare il mix più adatto ai nostri studenti. Si procede sempre per tentativi ed errori. E bisogna anche leggere molto.
Sappiamo che è una fatica di Sìsifo, a volte il masso rotola di nuovo giù fino ai piedi della collina. Ma dobbiamo trovare la forza di ricominciare. E ci riusciremo, con l’aiuto dei nostri amici e alleati che capiscono perché lo stiamo facendo e perché ne vale la pena.
Un insegnante non può fare nulla per cambiare il modo in cui è suddivisa la giornata nelle scuole, ma può fare molto per il modo in cui è organizzata la giornata della sua classe. Io insegno lettere agli adolescenti in un quartiere degradato. Abbiamo quattro blocchi di lezioni al giorno: due la mattina e due dopo la pausa pranzo di 40 minuti, ogni blocco è di 77 minuti.
Il tipo di attività che posso svolgere in classe dipende dal momento della giornata. A volte è una lezione frontale, a volte un’attività sperimentale, altre un controllo per vedere a che punto sono gli studenti, altre ancora è un momento di relax o di meditazione prima di cominciare a lavorare. Decido che cosa fare in base ai risultati delle ricerche su come funziona il cervello degli adolescenti. La mattina presto e alla fine della giornata non sono al massimo delle loro capacità, quindi in quelle ore evito le lezioni frontali.
Uso la classe come il ponte degli ologrammi di Star Trek. A volte è un laboratorio, a volte un paese, altre un tribunale o un parlamento e a volte un salotto dove si conversa. Qualche volta, naturalmente, è solo una classe.
Incoraggio gli studenti a farmi domande direttamente, via email o in forma anonima usando la popolarissima Question box. Le loro domande mi fanno capire che cosa li preoccupa e che cosa manca al mio insegnamento. Una collega di matematica ha adottato lo stesso sistema adattandolo alla sua materia, ma la sua scatola si chiama Panic box e gli studenti possono metterci le domande sui contenuti del corso che li mandano nel panico.
Riduco al minimo le lezioni teoriche e cerco per quanto posso di usare i programmi in un modo che consenta ai miei studenti un tipo di apprendimento basato sulla risoluzione di problemi (apprendimento per problemi) e l’esperienza diretta (apprendimento esperienziale). Quando ho cominciato, non sapevo come si chiamassero questi metodi. Nella maggior parte dei casi “costruisco la strada camminando”, cerco solo di creare esperienze di apprendimento significative per gli studenti.
Nei miei sogni, immagino che l’apprendimento basato sulla soluzione di problemi e sull’esperienza diretta sarà al centro di quello che si farà nelle scuole pubbliche in futuro.
E spero veramente, nonostante la campagna per tagliare fondi all’istruzione pubblica, che riusciremo a mantenerla in piedi. Nonostante i loro molti difetti, le scuole pubbliche sono ancora molto importanti. Non sono solo istituzioni che rilasciano un titolo di studio ufficialmente riconosciuto, sono anche spazi sicuri per quegli studenti che a casa hanno una vita difficile, sono oasi nei quartieri più pericolosi, sono i posti in cui molti studenti fanno il loro unico pasto quotidiano e in cui possono parlare con un adulto delle loro paure e preoccupazioni.
Le scuole pubbliche sono tra i pochi luoghi pubblici rimasti che funzionano come comunità, sono spazi per le persone, non per il profitto.
In quale altro posto al mondo un adolescente che per il suo sedicesimo compleanno riceve in regalo un’automobile da 30mila dollari può stare seduto vicino a uno che fa un pasto decente solo tre volte alla settimana?
Con tanti spazi comuni ormai occupati dalle aziende private, la scuola pubblica è vitale per molti studenti. È ancora la grande livellatrice, il luogo dove ragazzi che provengono da classi sociali diverse possono incontrarsi su un terreno comune.
È vero, il sistema dell’istruzione deve cambiare, ma intanto lavoriamo per ridargli slancio. Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca.
Cambiamo il sistema dall’interno.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Lizanne Foster è un’insegnante canadese e ha scritto questo articolo sul suo blog.


giovedì 4 dicembre 2014

SCUOLA E PERIFERIE – Luca Doninelli


Finora le periferie avevano retto molto meglio da noi che in altri paesi. Se la situazione è precipitata, è necessario ricordare che per tanto tempo le nostre periferie hanno permesso alla maggior parte dei loro abitanti di condurre una vita dignitosa e tranquilla.
La mia prima osservazione è che la crisi ha minacciato la stabilità delle famiglie. I motivi di tensione, ovviamente già presenti, hanno incontrato resistenze sempre più deboli. I fattori di tenuta dell'istituto familiare hanno avuto minor presa sulle persone (pensiamo solo all'importanza delle parrocchie, anche solo 20 anni fa, in molte situazioni a rischio), e tante famiglie si sfasciano quando i figli sono ancora piccoli.
In aree sempre più popolate (non dimentichiamo che al mondo siamo in 7 miliardi, in un assetto urbano pensato quando non eravamo in 2 miliardi) i fattori educativi e temo il valore stesso della persona si sono indeboliti: spesso la scuola, per troppo tempo vituperata, ha costituito e continua a costituire l'avamposto solitario e insufficiente in difesa di una serie di valori umani e civili che non i poveracci, ma gli intellettuali e i giornalisti, gli editorialisti e i maitres-à-penser hanno attaccato e messo in ridicolo per decenni. Ora la scuola non ha quasi più il sostegno delle famiglie, della cui devastazione rimane spesso solo l'isterica difesa dei figli (non come persone, ma come membri del clan) senza più nessun richiamo a quella «comunità educante», fondata sulla collaborazione tra scuola e famiglia, che era il cemento della trasmissione del sapere e dei valori da una generazione all'altra.
Se un giovane non conosce la differenza tra un conducente di autobus e, poniamo, un distributore di bibite, e prende a calci l'uno e l'altro allo stesso modo se non fanno quello che lui vuole, la ragione è ahimè semplice: nessuno gliel'ha mai spiegata. Ed è proprio così. Ho conosciuto tanti ragazzi migliori di me cadere nella deriva della violenza non per cattiveria ma per solitudine e ignoranza. Sono molti i sociologi che sanno cosa piace a un giovane oggi, ma spesso un giovane non sa quello che gli piace, e conduce una vita senza vero piacere, povera di bellezza.
C'è infine un altro tema di cui tener conto: la tendenza ad avere la casa di proprietà ha caratterizzato per decenni il costume degli italiani. Questo, oltre a permettere una base finanziaria, ha determinato i comportamenti sociali anche di moltissimi extracomunitari, i quali hanno fatto proprio, dove possibile, questo costume. Chiunque può comprendere che il possesso della casa porta ad atteggiamenti diversi nei confronti del quartiere dove si vive, e che il sentirsi sul collo il fiato della precarietà, dell'instabilità e dell'abbandono genera nuove tensioni, nuova sofferenza.
lo non credo però che qualche provvedimento avveduto da parte di politici o pubblici amministratori possa cambiare le cose. Abbiamo visto ciò che questa gente sa fare, e ho anzi il sospetto che nessuno di questi abbia la possibilità di fare altrimenti: un amministratore onesto e preoccupato del bene comune è ormai una persona sospetta. Dobbiamo contare molto di più su noi stessi. Il mio, il tuo atteggiamento possono cambiare la vita del pianerottolo, del palazzo, del quartiere. Ciascuno di noi dovrebbe dire: si ricomincia da me. L'io è il solo fattore di cambiamento nella difficoltà di oggi. Spesso basta un prete, una piccola associazione, o qualche privato che si dà da fare. La prima volta ti bucheranno le gomme, la seconda idem, alla terza cominceranno ad ascoltarti.
Di fronte a tanto sfacelo, è in questo che credo.
Luca Doninelli, insegnante e scrittore, Panorama 3 dicembre 2014

venerdì 3 ottobre 2014

CAMBIARE IL NOSTRO STILE DI VITA – Pietro Parolin


Signor Segretario Generale,
Alla base di ogni risposta politica complessa devono essere chiare le motivazioni etiche che la orientano. Si tratta, adesso, di consolidare una profonda e lungimirante reimpostazione dei modelli di sviluppo e degli stili di vita, per correggerne le numerose disfunzioni e distorsioni (Caritas in veritate , no. 32); ciò è richiesto anche dalle numerose crisi che l’attuale società sta vivendo in ambito economico, finanziario, sociale, culturale ed etico.
In tale direzione, è necessaria un’autentica svolta culturale che fortifichi i nostri sforzi formativi ed educativi, soprattutto a favore dei giovani, verso l’assunzione del senso di responsabilità nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale per tutti i popoli, presenti e futuri.
Lo Stato della Città del Vaticano, per quanto piccolo, sta compiendo sforzi significativi per ridurre il suo consumo di combustibili fossili, realizzando progetti di diversificazione e di efficienza energetica. Tuttavia, come indicato dalla Delegazione della Santa Sede nella COP-19 di Varsavia, «parlare della riduzione delle emissioni è inutile se non siamo pronti a cambiare il nostro stile di vita e gli attuali modelli dominanti di consumo e di produzione». La Santa Sede attribuisce grande importanza alla necessità di diffondere un’educazione alla responsabilità ambientale che cerchi anche di tutelare le condizioni morali per un’autentica ecologia umana. Sono molte le istituzioni educative cattoliche, così come le Conferenze episcopali, le diocesi, le parrocchie e le ONG di ispirazione cattolica impegnate in tale campo, nella convinzione che il degrado della natura è direttamente legato alla cultura che plasma la coesistenza umana. Il rispetto dell’ecologia ambientale è condizione di ed è condizionata dal rispetto dell’ecologia umana nella società.
Affrontare seriamente il problema del riscaldamento globale richiede non solo di rafforzare, approfondire e consolidare il processo politico a livello globale, ma anche di intensificare l’impegno di tutti noi verso un profondo rinnovamento culturale e una riscoperta dei valori fondamentali su cui edificare un migliore futuro dell’intera famiglia umana. La Santa Sede si impegna in tale direzione, affinché in questo ambito la comunità internazionale venga guidata dall’imperativo etico di agire, ispirato dai principi di solidarietà e di promozione del bene comune, nella consapevolezza che «la dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica» (Papa Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium , 203ss).

Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, Palazzo di Vetro all’Onu, intervento a margine della 69^ Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 24 settembre 2014.

giovedì 2 ottobre 2014

LA RESPONSABILITA’ DI PROTEGGERE IL CREATO – Pietro Parolin


Signor Segretario Generale,
Il lungo dibattito sui cambiamenti climatici, che ha dato vita nel 1992 alla Convenzione quadro dell’ONU sul cambiamento climatico e al suo processo di attuazione, mostra come si tratti di una materia estremamente complessa. Da allora, molte cose sono cambiate: le dinamiche dei rapporti internazionali hanno dato vita a contesti geopolitici mutati, mentre gli strumenti scientifici ed informativi si sono straordinariamente
raffinati.
Uno dei principali elementi emersi in questi trenta e più anni di studi sul fenomeno del riscaldamento globale è la sempre più forte consapevolezza che l’intera comunità internazionale faccia parte di un’unica interdipendente famiglia umana. Le decisioni e i comportamenti di uno dei membri di questa famiglia hanno profonde conseguenze su altri componenti della medesima; non vi sono frontiere, barriere, mura politiche, entro le quali potersi nascondere per proteggere un membro rispetto all’altro dagli effetti del riscaldamento globale. Non vi è spazio per quella globalizzazione dell’indifferenza, per quell’economia dell’esclusione, per quella cultura dello scarto così spesso denunciate da Papa Francesco (Evangelii gaudium , no. 52, 53 e 59).
Nel processo finalizzato a contrastare il riscaldamento climatico, troppo spesso abbiamo visto la prevalenza di interessi particolari o di comportamenti cosiddetti "free-riders" sul bene comune; troppo spesso abbiamo registrato una certa diffidenza o mancanza di fiducia da parte degli Stati, così come degli altri attori partecipanti. Tuttavia, se vogliamo realmente essere efficaci, è necessario attuare una risposta collettiva basata su quella cultura della solidarietà, dell’incontro e del dialogo, che dovrebbe essere alla base delle normali interazioni all’interno di ogni famiglia e che richiede la piena, responsabile e impegnata collaborazione da parte di tutti, secondo le proprie possibilità e circostanze.
In questa direzione, sembra opportuno richiamare un concetto che è stato sviluppato anche all’interno del foro delle Nazioni Unite, quello della responsabilità di proteggere. Gli Stati hanno una responsabilità comune di proteggere il clima mondiale attraverso azioni di mitigazione, di adattamento e di condivisione delle tecnologie e del "know-how". Ma hanno soprattutto una responsabilità condivisa di proteggere il nostro pianeta e la famiglia umana, assicurando alla generazione presente e a quelle future la possibilità di vivere in un ambiente sicuro e degno. Le basi tecnologiche e operative per favorire questa responsabilità condivisa sono già disponibili o alla nostra portata. Abbiamo la capacità di avviare e rafforzare un vero e proprio processo virtuoso che, in un certo senso, irrighi attraverso attività di adattamento e di mitigazione un terreno di innovazione economica e tecnologica dove è possibile coltivare due obiettivi tra di loro concatenati: combattere la povertà e attenuare gli effetti del cambiamento climatico.
Le sole forze di mercato, specie se prive di un adeguato orientamento etico, non possono però risolvere le crisi interdipendenti concernenti il riscaldamento globale, la povertà e l’esclusione. La sfida più grande risiede nella sfera dei valori umani e della dignità umana; questioni che riguardano la dignità umana degli individui e dei popoli non possono essere ridotte a meri problemi tecnici. In questo senso, il cambiamento climatico diventa una questione di giustizia, di rispetto e di equità; una questione che deve sollecitare le coscienze di ognuno di noi.

Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, Palazzo di Vetro all’Onu, intervento a margine della 69^ Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 24 settembre 2014.

mercoledì 1 ottobre 2014

IL CREATO NON E’ UNA PROPRIETA’ – Pietro Parolin


Signor Segretario Generale,
Sono lieto di portare il cordiale saluto di Sua Santità Papa Francesco a questo importante Vertice che vede alti esponenti del mondo governativo, del settore privato e della società civile qui riuniti al fine di individuare e proporre iniziative rilevanti volte ad affrontare il preoccupante fenomeno del cambiamento climatico. E’ ben noto come quest’ultimo chiami in causa aspetti non solo scientifico-ambientali o socio-economici, ma anche e soprattutto etico-morali, visto che incide su tutti, in particolare sui più poveri, che sono più esposti ai suoi effetti.
Al cospetto di siffatta consapevolezza, la Santa Sede ha spesso ribadito quell’imperativo morale ad agire che interpella ognuno di noi circa la nostra responsabilità a custodire e valorizzare il creato per il bene della presente generazione, così come di quelle future. Papa Francesco, fin dall’inizio del Suo Pontificato, ha sottolineato l’importanza di «custodire questo nostro ambiente, che troppo spesso non usiamo per il bene, ma sfruttiamo avidamente a danno l’uno dell’altro» (Udienza al Corpo Diplomatico della Santa Sede, 22 marzo 2013).
Vi è ormai un consenso scientifico piuttosto consistente sul fatto che il riscaldamento del sistema climatico a partire dalla seconda metà del secolo scorso sia inequivocabile. Si tratta di un problema molto serio che, come detto, ha gravi conseguenze per i settori più vulnerabili della società e, ovviamente, per le generazioni future.
Numerosi studi scientifici hanno, inoltre, sottolineato i grandi rischi e i costi socioeconomici dell’inerzia dell’azione umana di fronte a tale problema, sulla base del fatto che la sua principale causa sembra essere l’aumento nell’atmosfera delle concentrazioni di gas ad effetto serra provocate da attività antropiche. Di fronte a detti rischi e costi, deve prevalere la virtù della prudenza, che richiede di ben deliberare in funzione di un’accurata analisi degli impatti futuri che comportano le nostre azioni. Ciò richiede un grande impegno politico-economico da parte della comunità internazionale, al quale anche la Santa Sede vuole dare il proprio contributo, nella consapevolezza che «il dono della scienza ci aiuta a non cadere in alcuni atteggiamenti eccessivi o sbagliati. Il primo è costituito dal rischio di considerarci padroni del creato. Il creato non è una proprietà, di cui possiamo spadroneggiare a nostro piacimento; né, tanto meno, è una proprietà solo di alcuni, di pochi: il creato è un dono, è un dono meraviglioso che Dio ci ha dato, perché ne abbiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con grande rispetto e gratitudine» (Papa Francesco, Udienza del 21 maggio 2014).
Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, Palazzo di Vetro all’Onu, intervento a margine della 69^ Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 24 settembre 2014.


sabato 17 maggio 2014

AMO LA SCUOLA … CHE E’ LUOGO DI INCONTRO – Papa Francesco


Un altro motivo è che la scuola è un luogo di incontro. Perché tutti noi siamo in cammino, avviando un processo, avviando una strada. E ho sentito che la scuola, l'abbiamo sentito tutti oggi, non è un parcheggio. E un luogo di incontro nel cammino. Si incontrano i compagni; si incontrano gli insegnanti; si incontra il personale assistente. I genitori incontrano i professori; il preside incontra le famiglie, eccetera. E un luogo di incontro. E noi oggi abbiamo bisogno di questa cultura dell'incontro per conoscerci, per amarci, per camminare insieme. E questo è fondamentale proprio nell'età della crescita, come un complemento alla famiglia. La famiglia è il primo nucleo dí relazioni: la relazione con il padre e la madre e i fratelli è la base, e ci accompagna sempre nella vita. 
Ma a scuola noi "socializziamo": incontriamo persone diverse da noi, diverse per età, per cultura, per origine, per capacità. La scuola è la prima società che integra la famiglia. La famiglia e la scuola non vanno mai contrapposte! Sono complementari, e dunque è importante che collaborino, nel rispetto reciproco. E le famiglie dei ragazzi di una classe possono fare tanto collaborando insieme tra di loro e con gli insegnanti. 
Questo fa pensare a un proverbio africano tanto bello: "Per educare un figlio ci vuole un villaggio". Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti! 
Papa Francesco, Giornata della scuola, Roma, 10 maggio 2014


giovedì 27 marzo 2014

SEI UNA GABBIANA – Luis Sepùlveda


Quella sera i gatti si stupirono che la gabbianella non venisse a mangiare il suo piatto preferito: i calamari che Segretario trafugava nella cucina del ristorante.
Molto preoccupati la cercarono, e fu Zorba a trovarla, triste e avvilita, fra gli animali imbalsamati.
«Non hai fame, Fortunata? Ci sono i calamari» spiegò Zorba.
La gabbianella non aprì becco.
«Ti senti male?» insisté preoccupato Zorba. «Sei malata?»
«Vuoi che mangi per farmi ingrassare?» domandò lei senza guardarlo.
«Perché tu cresca sana e forte» rispose Zorba.
«E quando sarò grassa, inviterai i topi a mangiarmi?» stridette con i lucciconi agli occhi.
«Da dove tiri fuori queste sciocchezze?» miagolò deciso Zorba.
Lì lì per scoppiare a piangere, Fortunata gli riferì tutto quello che Mattia le aveva strillato. Zorba le leccò le lacrime e all'improvviso si sentì miagolare come non aveva mai fatto prima.
«Sei una gabbiana. Su questo lo scimpanzé ha ragione, ma solo su questo. Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall'uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l'affetto tra esseri completamente diversi».
«Volare mi fa paura» stridette Fortunata alzandosi.
«Quando succederà, io sarò accanto a te» miagolò Zorba leccandole la testa. «L'ho promesso a tua madre».
La gabbianella e il gatto nero grande e grosso iniziarono a camminare. Lui le leccava teneramente la testa, e lei gli copriva il dorso con una delle sue ali tese.
Luis Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, 1996


mercoledì 22 gennaio 2014

IL VOLO DELLE OCHE SELVATICHE – Anthony De Mello


Un giorno, mi trovavo sulle coste irlandesi e vidi arrivare uno stormo di oche selvatiche di ritorno dall’Islanda. Mentre le stavo osservando, mi si avvicinò un uomo che mi raccontò di come si svolge il loro viaggio.
Mi spiegò che lo stormo poteva giungere a destinazione solo se i suoi componenti si fossero aiutati a vicenda.
Mi disse che le oche volano sempre in una caratteristica formazione a V, e che se ogni uccello mantiene la corretta posizione, l’aria crea un sostegno di cui gode tutto lo stormo.
E se un elemento esce dalla fila, gli altri sentono subito aggravarsi il peso e la fatica del volo.
Mi disse inoltre che davanti a tutti si mette l’uccello più forte e questo detiene il comando per tutto il tempo che gli è possibile, spostandosi poi nella posizione più arretrata, quando non riesce più a mantenere un’adeguata velocità. Ma dal fondo continua a lanciare un grido di incitamento, per incoraggiare quelli davanti a tenere una velocità elevata.
Quando poi un uccello comincia a indebolirsi, si distacca dal gruppo, affinché gli altri non abbiano a soffrire per causa sua, ma a quel punto altri due uccelli stanno dietro, assieme a lui per offrirgli protezione e speranza. E quando il compagno debole ha ripreso le forze, i tre proseguono insieme e cercano di riunirsi alla formazione.
Tutti i componenti sanno che il forte starà vicino al debole nei momenti difficili come in quelli tranquilli, nei momenti di debolezza come in quelli di vigore.

Anthony De Mello, Brevetto di volo per aquile e polli, p. 181-182

lunedì 16 dicembre 2013

10. LA GIORNATA IN UNA SCUOLA DELL’ALTRO MONDO – Anna Chiara Fontana


A scuola le giornate hanno preso il loro ritmo. Quando arriviamo ci salutiamo con un abbraccio tra colleghi e anche con alcuni genitori. La prima mezz'ora è sempre dedicata ad un momento comunitario.
Dopo i primi 25 minuti della giornata i bambini si dividono in tre commissioni che hanno scelto loro: orto, riciclaggio e reporters e lavoreranno in questi gruppi per tre mesi, poi ruoteranno. Anche quest'attività dura 25 minuti circa, dopodiché ognuno va nel suo salone.
Nel mio gruppo, tempo fa, abbiamo presentato ai bambini una scheda con gli obiettivi dell'anno e l'abbiamo letta passo passo, vedendo cosa già sapevano fare (occasione per far un ripasso), quello che non sapevano fare e se avevano voglia di impararlo.
La scorsa settimana abbiamo iniziato un'indagine che riguardava il nome del gruppo ossia le stelle, le lune e i diamanti. In una discussione ognuno ha detto ciò che sapeva sul tema e si è fatto una domanda su ognuno dei tre oggetti di discussione a cui ha cercato di rispondere a casa. Poi, domande e risposte sono state copiate in un foglio bianco, corredate da un disegno; queste ricerche sono state esposte al gruppo e infine sono state fotocopiate per tutti, di modo che ogni bambino possa leggerle e rispondere al test che faremo lunedì. Questa verifica, però, non ha valutazione, serve solo per far capire ai bambini quanto hanno imparato e anzi verrà corretta scambiandola tra compagni.
Parallelamente abbiamo iniziato un racconto sul tema e ogni giorno un bambino se lo porta a casa per continuarlo. Così funziona qui, si scrive su ciò che interessa al gruppo. Per correggere gli errori di ortografia si usano dei simboli che mettiamo sotto la parola e che indicano il tipo di errore, così il bambino è stimolato nell'autocorrezione.

In matematica è tutto molto concreto, tutta la scuola va matta per la matematica! Per quanto riguarda lo studio, i più grandi hanno scelto una disciplina che li interessava e per un mese l'approfondiremo. Abbiamo iniziato con la chimica: il lunedì approfondiamo la teoria e il giovedì la pratica col laboratorio di esperimenti che propongo io. 

giovedì 10 ottobre 2013

LA SCOPERTA DI UNA VITA FELICE


Chiara si sentiva del tutto parte della comunità francescana e visse con grande semplicità rapporti informali con i frati. Anche fra le sue compagne non c’era alcuna struttura gerarchica; chi assumeva le responsabilità le considerava un servizio per il bene di tutte.
Quei primi anni ebbero l’incanto della scoperta di una vita felice nella fede.

Chiara Frugoni, Storia di Chiara e Francesco, p. 105-106

giovedì 19 settembre 2013

NESSUN UOMO E' UN'ISOLA - Paulo Coelho


Il guerriero sa che nessun uomo è un'isola. Non può lottare da solo. Quale che sia il suo piano, dipende da altri uomini. Ha bisogno di discutere la sua strategia, di chiedere aiuto e, nei momenti di riposo, di avere qualcuno a cui raccontare le storie di battaglia intorno al fuoco.
Ma egli non permette che gli altri confondano il suo cameratismo con insicurezza. E' trasparente nelle sue azioni, e segreto nei suoi piani.
Un guerriero della luce danza con i compagni, ma non attribuisce a nessuno la responsabilità dei propri passi.
Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce, p. 71


lunedì 26 agosto 2013

E DISSE - Erri De Luca


La forza profonda della scrittura di Erri De Luca esplode terragna anche in questo libro:
"La terra è la nostra altezza calpestabile. Dal bordo del mare alla cima più alta è tutto quello che ci spetta. Tu sei andato molte volte lassù a cercarti il confine dove la terra smette e io sono venuto con te. Abbiamo la stessa esperienza, la cima è un vicolo cieco dal quale si deve semplicemente ritornare indietro. Lassù la terra non ha altro da aggiungere. Si deve sempre scendere, dare le dimissioni dall'altezza raggiunta" (p. 21-22).
E la sfida lanciata dalla "Parola" diventa agire quotidiano consapevole e responsabile:
"E' grandiosa, sì, la spinta a scalare montagne, cavalcare altezze, ma l'impresa maggiore sta nell'essere all'altezza della terra, del compito assegnato di abitarla" (p. 22).
Un libro piccolo, ma robusto, fatto di parole battute sulla pietra.

F.C.

mercoledì 28 novembre 2012

LA PROPRIETA' PRIVATA - Tommaso Moro (1478-1535)


Io son pienamente convinto che non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata! Finché dura questa, durerà sempre, presso una parte dell’umanità, che è di gran lunga la migliore e la più numerosa, la preoccupazione dell’indigenza, col peso inevitabile delle sue tribolazioni.
E’ sicuro che far sparire del tutto la miseria non è possibile; ma ben la si potrebbe alleviare un pochino, bisogna ammetterlo. Evidentemente si potrebbe stabilire che nessuno possegga al di là di una determinata quantità di terra, e fissare per legge la ricchezza in danaro di ognuno; come si potrebbe per legge evitare che un principe sia troppo potente o un popolo troppo insolente, poi che non si aspiri alle cariche pubbliche per mezzo di brogli o di danaro, né che si rendano necessarie grandi spese a chi le occupa, giacché gli si porge occasione a rifarsi economicamente per mezzo di frodi e rapine, e si sente poi il bisogno di dar quelle cariche a ricchi, mentre dovrebbero esser rivestite dai saggi.
Tommaso Moro, L’Utopia, [1516], Bari-Roma 1993, p. 51-52



lunedì 5 novembre 2012

LA CRESCITA NEL RIGORE - Luigi Berlinguer



La grande forza dell’autonomia scolastica sta nell’orientare il corpo docente e dirigente a misurarsi continuativamente con la ricerca didattica e l’innovazione nelle pratiche educative, e non con la pura trasmissione del sapere.
Valutare, verificare il risultato educativo significa non limitarsi al voto, alla promozione o alla bocciatura. Significa affermare la cultura del risultato, e con essa rafforzare la motivazione studentesca, e la disciplina. Il binomio rigore/crescita è un principio universale della società dei liberi e della democrazia partecipativa. Lo studente non è solo chi studia, ma – come diceva la Montessori – chi impara a fare da solo. Questa è l’autonomia.
Le regole di comportamento sono indispensabili. Ma è la partecipazione educativa che le rende più condivise e quindi più accette. La disciplina è innanzitutto responsabilizzazione e corresponsabilizzazione. Ciò non esclude la sanzione, ma la reinserisce in un contesto che le assicura maggiore efficacia, oltre che prevenzione. E la responsabilizzazione diviene effetto di una nuova concezione e pratica gestione della comunità educante, che dà fiducia e sa pretendere.
Luigi Berlinguer, L’autonomia incompiuta, “Dirigere la scuola”, XXI (2012), n. 4-5-6 
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