Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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lunedì 21 dicembre 2015

44. LO SPAZIO DELL'ARIA - Francesco Callegari


Nei disegni dei bambini, il cielo è spesso rappresentato da una sottile striscia azzurra, tirata lungo il margine superiore del foglio; la base è invece occupata dalla linea, altrettanto sottile, della terra o dell’erba.
E in mezzo, tra la terra e il cielo, cosa c’è, niente? A questa domanda, i bambini vi guardano dapprima stupiti, poi con indulgenza: in effetti, i grandi non sono mai stati molto svegli. C’è l’aria! Cosa vuoi che ci sia tra la terra e il cielo?
L’aria, e per lasciare il maggior spazio possibile all’aria, i bambini segnano appena i confini, tanto che la terra e il cielo diventano solo una cornice, un contenitore che serve all’aria per non scappare via. Perché è l’aria il posto dove avvengono le cose, il luogo degli alberi e delle persone, degli animali e delle case. Il cielo è troppo lontano, ci vanno al massimo gli uccelli; la terra è troppo dura, è fatta per i lombrichi.
Tutto avviene nello spazio dell’aria: sotto il foglio la terra continua, e sopra il foglio continua il cielo; per quanto avanti non si sa, ma nemmeno è importante saperlo, perché ciò che conta è tutto qui all’interno del foglio, l’unico posto dove è possibile disegnare il mondo.
I bambini ci invitano a usare bene lo spazio dell’aria e anzi ci spingono a estenderlo rendendo sempre più sottile quello delle cose che non possiamo raggiungere e quello delle cose che non possiamo cambiare. Lo spazio dell’aria rappresenta il luogo della vita e degli incontri, ma può diventare per noi anche lo spazio del sogno e dell’impegno per realizzarlo. L’unico posto dove la nostra ghianda potrà diventare quercia.
Lo auguro di cuore a tutti voi e a me stesso.

Buon Natale
Francesco Callegari


lunedì 12 ottobre 2015

ESPERIENZE DI CONFINE - Irvin D. Yalom


Ma come passare dal modo di tutti i giorni al modo ontologico? I filosofi parlano spesso di «esperienze di confine» – episodi urgenti che ci scuotono via dalla «quotidianità» e inchiodano la nostra attenzione sull’«essere» in sé. L’esperienza di confine più potente è il confronto con la propria morte.
Irvin D. Yalom, Il dono della terapia, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 131.


giovedì 4 dicembre 2014

SCUOLA E PERIFERIE – Luca Doninelli


Finora le periferie avevano retto molto meglio da noi che in altri paesi. Se la situazione è precipitata, è necessario ricordare che per tanto tempo le nostre periferie hanno permesso alla maggior parte dei loro abitanti di condurre una vita dignitosa e tranquilla.
La mia prima osservazione è che la crisi ha minacciato la stabilità delle famiglie. I motivi di tensione, ovviamente già presenti, hanno incontrato resistenze sempre più deboli. I fattori di tenuta dell'istituto familiare hanno avuto minor presa sulle persone (pensiamo solo all'importanza delle parrocchie, anche solo 20 anni fa, in molte situazioni a rischio), e tante famiglie si sfasciano quando i figli sono ancora piccoli.
In aree sempre più popolate (non dimentichiamo che al mondo siamo in 7 miliardi, in un assetto urbano pensato quando non eravamo in 2 miliardi) i fattori educativi e temo il valore stesso della persona si sono indeboliti: spesso la scuola, per troppo tempo vituperata, ha costituito e continua a costituire l'avamposto solitario e insufficiente in difesa di una serie di valori umani e civili che non i poveracci, ma gli intellettuali e i giornalisti, gli editorialisti e i maitres-à-penser hanno attaccato e messo in ridicolo per decenni. Ora la scuola non ha quasi più il sostegno delle famiglie, della cui devastazione rimane spesso solo l'isterica difesa dei figli (non come persone, ma come membri del clan) senza più nessun richiamo a quella «comunità educante», fondata sulla collaborazione tra scuola e famiglia, che era il cemento della trasmissione del sapere e dei valori da una generazione all'altra.
Se un giovane non conosce la differenza tra un conducente di autobus e, poniamo, un distributore di bibite, e prende a calci l'uno e l'altro allo stesso modo se non fanno quello che lui vuole, la ragione è ahimè semplice: nessuno gliel'ha mai spiegata. Ed è proprio così. Ho conosciuto tanti ragazzi migliori di me cadere nella deriva della violenza non per cattiveria ma per solitudine e ignoranza. Sono molti i sociologi che sanno cosa piace a un giovane oggi, ma spesso un giovane non sa quello che gli piace, e conduce una vita senza vero piacere, povera di bellezza.
C'è infine un altro tema di cui tener conto: la tendenza ad avere la casa di proprietà ha caratterizzato per decenni il costume degli italiani. Questo, oltre a permettere una base finanziaria, ha determinato i comportamenti sociali anche di moltissimi extracomunitari, i quali hanno fatto proprio, dove possibile, questo costume. Chiunque può comprendere che il possesso della casa porta ad atteggiamenti diversi nei confronti del quartiere dove si vive, e che il sentirsi sul collo il fiato della precarietà, dell'instabilità e dell'abbandono genera nuove tensioni, nuova sofferenza.
lo non credo però che qualche provvedimento avveduto da parte di politici o pubblici amministratori possa cambiare le cose. Abbiamo visto ciò che questa gente sa fare, e ho anzi il sospetto che nessuno di questi abbia la possibilità di fare altrimenti: un amministratore onesto e preoccupato del bene comune è ormai una persona sospetta. Dobbiamo contare molto di più su noi stessi. Il mio, il tuo atteggiamento possono cambiare la vita del pianerottolo, del palazzo, del quartiere. Ciascuno di noi dovrebbe dire: si ricomincia da me. L'io è il solo fattore di cambiamento nella difficoltà di oggi. Spesso basta un prete, una piccola associazione, o qualche privato che si dà da fare. La prima volta ti bucheranno le gomme, la seconda idem, alla terza cominceranno ad ascoltarti.
Di fronte a tanto sfacelo, è in questo che credo.
Luca Doninelli, insegnante e scrittore, Panorama 3 dicembre 2014

lunedì 7 ottobre 2013

SONO LORO IL NOSTRO PROSSIMO – Adriano Sofri


Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto.

lunedì 26 agosto 2013

E DISSE - Erri De Luca


La forza profonda della scrittura di Erri De Luca esplode terragna anche in questo libro:
"La terra è la nostra altezza calpestabile. Dal bordo del mare alla cima più alta è tutto quello che ci spetta. Tu sei andato molte volte lassù a cercarti il confine dove la terra smette e io sono venuto con te. Abbiamo la stessa esperienza, la cima è un vicolo cieco dal quale si deve semplicemente ritornare indietro. Lassù la terra non ha altro da aggiungere. Si deve sempre scendere, dare le dimissioni dall'altezza raggiunta" (p. 21-22).
E la sfida lanciata dalla "Parola" diventa agire quotidiano consapevole e responsabile:
"E' grandiosa, sì, la spinta a scalare montagne, cavalcare altezze, ma l'impresa maggiore sta nell'essere all'altezza della terra, del compito assegnato di abitarla" (p. 22).
Un libro piccolo, ma robusto, fatto di parole battute sulla pietra.

F.C.

sabato 19 gennaio 2013

PENTESILEA - Italo Calvino


Per parlarti di Pentesilea dovrei cominciare a descriverti l'ingresso nella città. Tu certo immagini di vedere levarsi dalla pianura polverosa una cinta di mura, d'avvicinarti passo passo alla porta, sorvegliata dai gabellieri che già guatano storto ai tuoi fagotti. Fino a che non l'hai raggiunta ne sei fuori; passi sotto un archivolto e ti ritrovi dentro la città; il suo spessore compatto ti circonda; intagliato nella sua pietra c'è un disegno che ti si rivelerà se ne segui il tracciato tutto spigoli.
Se credi questo, sbagli: a Pentesilea è diverso. Sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o ancora fuori. Come un lago dalle rive basse che si perde in acquitrini, così Pentesilea si spande per miglia intorno in una zuppa di città diluita nella pianura: casamenti pallidi che si dànno le spalle in prati ispidi, tra steccati di tavole e tettoie di lamiera. Ogni tanto ai margini della strada un infittirsi di costruzioni dalle magre facciate, alte alte o basse basse come in un pettine sdentato, sembra indicare che di là in poi le maglie della città si restringono. Invece tu prosegui e ritrovi altri terreni vaghi, poi un sobborgo arrugginito d'officine e depositi, un cimitero, una fiera con le giostre, un mattatoio, ti inoltri per una via di botteghe macilente che si perde tra chiazze di campagna spelacchiata.
La gente che s'incontra, se gli chiedi: - Per Pentesilea? - fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire: "Qui", oppure: "Più in là", o: "Tutt'in giro", o ancora: "Dalla parte opposta".
- La città, - insisti a chiedere.
- Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine, - ti rispondono alcuni, e altri: - Noi torniamo qui a dormire.
- Ma la città dove si vive? - chiedi.
- Dev'essere, - dicono, - per lí, - e alcuni levano il braccio obliquamente verso una concrezione di poliedri opachi, all'orizzonte, mentre altri indicano alle tue spalle lo spettro d'altre cuspidi.
- Allora l'ho oltrepassata senza accorgermene?
- No, prova a andare ancora avanti.
Così prosegui, passando da una periferia all'altra, e viene l'ora di partire da Pentesilea. Chiedi la strada per uscire dalla città; ripercorri la sfilza dei sobborghi sparpagliati come un pigmento lattiginoso; viene notte; s'illuminano le finestre ora più rade ora più dense.
Se nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbrato circondario esista una Pentesilea riconoscibile e ricordabile da chi c'è stato, oppure se Pentesilea è solo periferia di se stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hai rinunciato a capirlo. La domanda che adesso comincia a rodere nella tua testa è più angosciosa: fuori da Pentesilea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all'altro e non arrivi a uscirne?
Italo Calvino, Le città invisibili, p. 162-163 
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