Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber
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sabato 5 maggio 2018

LA GENTE NON SA CHE COSA E’ L’UOMO - Piotr Demianovich Ouspensky



La gente non sa che cosa è l'uomo. Si trova alle prese con una macchina molto complicata, molto più complicata di una locomotiva, di un'auto o di un aereo, ma non sa nulla o quasi nulla della struttura, della marcia e delle possibilità di questa macchina; non capisce neppure le sue più semplici funzioni perché non conosce lo scopo di queste funzioni. Immagina vagamente che un uomo dovrebbe imparare a guidare la sua macchina, come deve imparare a guidare una locomotiva, un'auto o un aereo, e che una manovra incompetente della macchina umana, è altrettanto pericolosa di una manovra incompetente di qualsiasi altra macchina. Tutti se ne rendono conto quando si tratta di un aereo, di un'auto o di una locomotiva. Ma è molto raro che si prenda la cosa in considerazione quando si tratta dell'uomo in generale o di se stessi in particolare. Si crede giusto e legittimo pensare che la natura abbia dato all'uomo la conoscenza necessaria della propria macchina; tuttavia si converrà che una conoscenza istintiva di questa macchina è lungi dall'essere sufficiente. Perché gli uomini studiano la medicina e ricorrono ai suoi servizi? Evidentemente perché si rendono conto di non conoscere la propria macchina. Ma non sospettano che potrebbero conoscerla molto meglio di quanto fa la scienza e che potrebbero allora ottenerne un lavoro completamente differente.
P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Roma 1976, p. 68


giovedì 3 maggio 2018

LA FATICA DELLA CONOSCENZA - Piotr Demianovich Ouspensky



L'acquisizione o la trasmissione della vera conoscenza esige grande fatica e grandi sforzi, sia da parte di chi riceve che da parte di chi dà.
Coloro che possiedono questa conoscenza fanno tutto ciò che possono per trasmetterla e comunicarla al più gran numero possibile di uomini, per aiutarli ad avvicinarsi ad essa e renderli capaci di prepararsi a ricevere la verità. Ma la conoscenza non può essere data con la forza a coloro che non la vogliono. […] La conoscenza non può venire agli uomini senza che essi facciano degli sforzi.
P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Roma 1976, p. 47


martedì 1 maggio 2018

TUTTE LE COSE SONO COLLEGATE - Piotr Demianovich Ouspensky



Cercate di, capire quel che dico: tutto dipende da tutto, tutte le cose sono collegate, non vi è niente di separato. Tutti gli avvenimenti seguono dunque il solo cammino che possono prendere. Se le persone potessero cambiare, tutto potrebbe cambiare. Ma esse sono quelle che sono, e di conseguenza le cose, anche esse sono quelle che sono.
P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Roma 1976, p. 28


sabato 28 aprile 2018

TUTTO ACCADE – Piotr Demianovich Ouspensky




La suprema illusione dell'uomo è la sua convinzione di poter fare. Tutti pensano di poter fare, vogliono fare, e la loro prima domanda riguarda sempre ciò che dovranno fare. Ma a dire il vero, nessuno fa qualcosa e nessuno può fare qualcosa. Questa è la prima cosa che bisogna capire. Tutto accade. Tutto ciò che sopravviene nella vita di un uomo, tutto ciò che si fa attraverso di lui, tutto ciò che viene da lui — tutto questo accade. E questo capita allo stesso modo come la pioggia cade perché la temperatura si è modificata nelle regioni superiori dell'atmosfera, come la neve fonde sotto i raggi del sole, come la polvere si solleva con il vento.

P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Roma 1976, p. 27


sabato 26 dicembre 2015

CANTO DI NATALE – Mariapia Veladiano


È la vigilia di Natale, c’è la nebbia, è buio, fa freddo nel negozio, fa freddo nella strada ma il vero freddo è «il freddo che aveva dentro». «Gli gelava il viso, gli affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, ne induriva l’andatura, gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra, si rivelava nella voce gracchiante. Una brina ghiacciata gli copriva il capo, sopracciglia e mento legnoso; ed egli portava sempre in giro con sé quella sua bassa temperatura, che gelava il suo ufficio anche nei giorni di canicola, e non saliva, sia pure di un grado, neanche al tempo di Natale».
Ebenezer Scrooge è il protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens e trascorre i giorni della sua vita scalpellato in un suo egoismo così compatto che il freddo dell’inverno nemmeno lo sente perché lo emana in proprio lungo tutto l’arco dei mesi e insieme ostinatamente s’impegna a credere che scelta non ci sia, a credere che la vita sia così, questo furioso difendere il proprio tangibile bene, fatto di cose che non si usano per risparmiarle a se stesse, di case che non si riscaldano per accumulare in banca titoli che non si godono perché hanno la missione di aumentare, sempre di più, sempre di più.
Difendere le cose e insieme difendersi dai sentimenti, sia mai che costino un regalo o anche solo una gratitudine, spiffero di vita che ci invade. Per cui l’affetto del nipote ostinatamente cordiale è solo molesto. Ma bisogna difendersi soprattutto dai sensi, «perché un nonnulla basta a turbarli. Un piccolo imbarazzo di stomaco può renderli ingannevoli». Benevolenza da buona digestione, sia mai che dopo ci si debba pentire. E in questo generale totale assoluto viaggiare solo e diffidente, la visita del socio Marley, peraltro del tutto defunto da sette anni, cade inizialmente sotto l’accetta del sospetto, come tutte le relazioni della sua vita circoscritta, serrata, inchiavistellata.
Triste lui, rattristati quelli che gli stanno intorno, come si fa a non vedere? Come facciamo tutti a non vedere la nostra infelicità?
Il socio Jacob Marley che arriva dall’oltretomba carico di una catena da lui stesso costruita in vita, fatta di «chiavi, lucchetti e libri mastri», spiega a Scrooge come a un bambino che non vuol capire. È la vita circoscritta la colpa e la condanna insieme, il non essersi mai allontanato dall’ufficio, mai «oltre gli stretti limiti del nostro minuscolo banco di cambio», gli occhi incollati a terra e ai beni e mai mai alla «stella benedetta che condusse i magi a una capanna».
Al di là del vortice di buoni sentimenti, di un mondo povero ma felice in cui Scrooge viene trasportato dallo spirito del Natale passato e dallo spirito del Natale presente, e anche al di là dell’orrore ormai scontato in cui lo precipita la visione del Natale futuro, che lo immerge nella realtà della sua morte e dello sciacallaggio da cui è circondata, il viaggio natalizio di Scrooge è sostanzialmente un vedere. «Vieni e vedi». Non sono le parole a trasformarlo ma il lineare vedere come ciò che si è scelto ha avuto conseguenze su di noi e sul mondo e come quel che faremo da ora in poi è ancora tutto nelle nostre mani, non è scritto.
Ciò che Scrooge impara è qualcosa che in fondo sappiamo ma dimentichiamo, e cioè che è la solitudine a disseccare la nostra umanità. Non è bene che l’uomo sia solo. Ed è la cecità lo strumento che ci permette di vivere così. Di non vivere così. Caino dov’è tuo fratello? Scrooge che esce dalla notte di Natale vivo dopo aver attraversato il suo funerale è un uomo che vede, improvvisamente vede: il tacchino da regalare, i gentiluomini che aveva cacciato senza fissarli negli occhi il giorno prima, e sente improvvisamente il freddo del negozio e la gioia della festa e la felicità di rendere felici, felice della felicità degli altri.
Chissà se il terribile peccato contro lo Spirito non è semplicemente questo negarsi alla vita, alla ricerca della propria piccola arruffata sgangherata felicità. Movimento rischioso, si può amare e perdere, partire e cadere. «Sono solo un mortale, potrei anche cadere», dice Scrooge al fantasma dei natali passati. La condizione di tutti è questo poter cadere ma permettere alla paura di inchiodarci a un destino che vogliamo credere scolpito è negarsi il bene che la vita disperde lungo gli anni che ci sono consegnati.
Questo movimento può sembrare forse sul principio e anche dopo, a tratti, più difficile e molesto del quieto restare al banco del cambio, che diventa poi faticoso difendere una posizione, arginare la forza del mondo di affetti e relazioni che naturalmente e senza pretese arriva, entra dalla porta nella forma del suono di mani che sbattono l’una contro l’altra per vincere il freddo, o piedi che scivolano sul ghiaccio mescolati alla voce di un bambino che canta canzoni di Natale.
Aprire gli occhi alla vita è realtà prima che metafora e se non cambierà il mondo intero cambierà il nostro mondo e quello di un bel po’ di persone che ci stanno intorno. Non è poco, proprio no.
Mariapia Veladiano, “Il Regno”, 10 (2015)


martedì 8 dicembre 2015

IL SOGNO DI MARIA - Fabrizio De André



Il sogno di Maria cantato da Guido Maria Grillo
Immagini tratte da "Il vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini

IL SOGNO DI MARIA

Nel grembo umido, scuro del tempio
l'ombra era fredda, gonfia d'incenso;
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali ,
quando mi chiese "conosci l’estate"
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.

Volammo davvero sopra le case
oltre i cancelli, gli orti le strade:
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.

Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi, da solo nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.

(... e l'angelo disse "Non temere, Maria, infatti hai trovato grazia presso
il Signore e per opera Sua concepirai un figlio…")

Le ombre lunghe dei sacerdoti
costrinsero il sogno in un cerchio di voci.
Con le ali di prima pensai di scappare
ma il braccio era nudo e non seppe volare:
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa
e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d'un'altra vita
foglie le mani, spine le dita.

Voci di strada, rumori di gente,
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente.
Sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera
dove forse era sogno ma sonno non era

"lo chiameranno figlio di Dio"
parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno , ma impresse nel ventre.

E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra 
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.

E tu, piano, posasti le dita
all'orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte.

Fabrizio De André, La buona novella, 1970



lunedì 16 novembre 2015

NON NEL MIO NOME – Oriana D’Anna


Caro direttore,
come insegnante di una scuola primaria di Milano, formata da 22 alunni di cui solo cinque di nazionalità italiana, e di cui 12 di religione musulmana, mi interrogo su quello che vedrò riflesso sui volti dei bambini dopo i fatti di Parigi.
Gli episodi di terrorismo ci interrogano sia come cittadini sia come uomini e donne di buona volontà, ma soprattutto come membri di una società multietnica. Chiedo pertanto e mi auguro che si alzino tutti i musulmani che risiedono in Occidente al grido «non nel mio nome». Vorrei che la loro voce si alzasse così da sentirla chiaramente e nitidamente.
Spero che in Italia si alzino tutti i genitori musulmani degli alunni che dividono i banchi con i nostri figli, si alzino i papà e le mamme per dire ai loro bimbi cos'è davvero l'Islam così da spiegarlo anche a noi, affinché possano aiutarci a capire e a sentire la condanna di ciò che è male per perseguire, insieme a chi non è musulmano, ciò che è bene. Mi auguro un confronto alla luce della verità. Auspico che i popoli musulmani possano interrogarsi sulla loro identità, chiarirsela e chiarirla a noi che li accogliamo nelle scuole, nelle case. Mi auguro, entrando in classe, di poter scorgere nei volti dei miei alunni musulmani un riflesso, una traccia del fatto che nelle loro famiglie si condivida il desiderio di pace e si lavori perché ciò che abbiamo visto non accada più nel loro nome.
Mi chiedo allora se non sia opportuno cambiare qualcosa nella scuola e nelle politiche di accoglienza. Perché non introdurre l'insegnamento della lingua araba nelle scuole europee? Non certo per diventare arabi ma per aumentare gli strumenti di dialogo. Mi chiedo perché non la smettiamo di pensare di abbattere le differenze annullandole, ma accogliendole. Oggi nelle scuole si evita di parlare di alcuni soggetti d'arte perché troppo cristiani, si evita di parlare di alcune feste religiose per non urtare chi non è di fede cristiana, si festeggia Halloween ma non si specifica che la festa è quella di Ognissanti. Una ricorrenza che costringerebbe a parlare della morte, di affrontarla e inquadrarla nella cornice della verità. Ebbene la morte entra però nelle nostre case con gli attentati, le guerre e gli attacchi terroristici. Molti militanti dell'Isis sono giovani che hanno studiato in Europa. E' giusto chiedersi cosa non ha funzionato nel processo scolastico, nel processo di socializzazione e di accoglienza.
Non è negando le differenze culturali e religiose che si affronta il problema della convivenza, ma crescendo nella competenza. Conoscere le nostre tradizioni e accoglierne di nuove senza negare la nostra identità e quella altra da noi. Per questo si auspica che i musulmani residenti nel nostro territorio si alzino a far conoscere la loro cultura nel dialogo.
Oriana D'Anna, insegnante su La Stampa, 16 novembre 2015.


lunedì 7 settembre 2015

41. LA DOMANDA DELLE ONDE - Francesco Callegari


E’ dunque questo che chiamano vocazione:
la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo?
Josephine Baker
Capita, scendendo un fiume in canoa, che per imperizia o troppa corrente l’imbarcazione d’improvviso si capovolga. Non succede spesso, ma quando succede l’unica certezza è che niente intorno a noi si trovi dove dovrebbe essere.
Negli ultimi tempi, la mia canoa si è rovesciata più di una volta. Io non sono un canoista provetto, tutt'altro, ma sfido chiunque a rimanere a galla dopo essere stato sbattuto da onde come quelle che hanno colpito la mia imbarcazione.
L’ultima ondata, per esempio. Nel corso di un incontro tenuto pochi giorni fa, Francisco (Paco) Bermudez Hernandez, fondatore di una scuola libertaria nello Chiapas messicano, di fronte a una platea di insegnanti ha detto chiaro e tondo che ognuno di noi ha una missione da compiere nella vita (e già questo mette i brividi), e che la scuola ha il compito stimolante, ma impegnativo, di accompagnare ciascun ragazzo e ciascuna ragazza a scoprire la propria vocazione. Se non fa questo, la scuola ha fallito, perché solo trovando il posto che è il suo, la persona potrà realizzarsi, e quindi essere felice, all’interno del progetto che guida tutto l’Universo. Per senso della misura, ma anche per la profonda consapevolezza della propria funzione, in quella scuola gli insegnanti sono chiamati “accompagnatori”. Ciascun allievo percorrerà la propria strada con la velocità e i mezzi che ha a disposizione, ma l'obiettivo per tutti sarà quello di dare il proprio contributo al fine di realizzare l'armonia dell'Universo attraverso l'amore e il rispetto. Questo è ciò che si vive nella scuola di Paco, la scuola YirTrak, che significa “girare per trascendere”[1]. Un po’ come succede alla nostra canoa.
La domanda della prima onda è “Verso dove stai camminando?

L’altra onda è venuta da un libro dell’analista americano James Hillman (1926-2011), dove si propone la “teoria della ghianda”, vale a dire l’idea che ciascuna persona è portatrice di una unicità che chiede di essere vissuta e che già è presente prima di poter essere vissuta, come una ghianda contiene in sé la quercia che sarà. Verrebbe semplicisticamente da pensare a una passiva predestinazione, ma ciò che Hillman vuole mettere in risalto è invece l’aspetto attivo della “vocazione”, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana. Ciascuno di noi è unico, ha un talento: scoprirlo e nutrirlo ogni giorno è ciò che dà un senso al nostro essere nel mondo e ciò da cui dipendono il nostro equilibrio e la nostra felicità. Hillman non cerca tanto la ragione per cui vivere, quanto piuttosto il motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo[2].
La domanda della seconda onda è: “A cosa sei destinato?

La capovolta più sconcertante è stata però causata da un pensatore francese, René Guénon (1886-1951): difficile da cavalcare l’onda generata da idee che si discostano molto dal tranquillo pensare comune, e insidiosa la corrente sospinta dal vento che proviene dalle altezze di quello che è chiamato pensiero Tradizionale. Guénon ci ricorda come secondo l’attuale concezione occidentale, un uomo possa dedicarsi a una professione qualsiasi, e anche cambiarla a suo piacimento, come se questa professione fosse qualcosa di puramente esteriore a lui, senza alcun reale legame con ciò che egli veramente è, cioè con ciò che lo fa essere se stesso e non un altro. “Nella concezione Tradizionale, al contrario, ciascuno deve normalmente svolgere la funzione cui è destinato dalla sua stessa natura, con le attitudini che questa essenzialmente implica; e non può svolgerne un’altra, senza che ciò rappresenti un grave disordine che avrà una ripercussione su tutta l’organizzazione sociale di cui egli fa parte”. E ancora “Secondo la concezione Tradizionale, sono le qualità essenziali degli esseri a determinare la loro attività; nella concezione profana, invece, queste qualità non contano, e gli individui non sono considerati altro che come «unità» intercambiabili e puramente numeriche”[3].
La domanda della terza onda è “Sei al tuo posto?

Tre onde diverse, ma strettamente legate, pronte a confondere e destabilizzare. Tre domande, che partono da lontano e che ancor oggi interrogano l’essere nel senso più radicale, quello dell’esistenza stessa.
Lo scivolare sulle acque del fiume è messo a dura prova: molte sono le domande che queste e altre onde ci pongono. Quando per esempio affermiamo che è l’allievo a essere posto al centro dell’azione educativa, intendiamo operare per accompagnarlo a scoprire e valorizzare la sua vocazione profonda oppure intendiamo fornirgli gli strumenti per integrarsi efficacemente nella società attuale? Non è la stessa cosa. Se riteniamo prioritaria l’integrazione all’interno di questa società in veloce cambiamento, daremo grande valore alle competenze che gli allievi dovranno dimostrare di avere acquisito al termine dei cicli scolastici. Ma se per centralità della persona intendiamo ciò che le onde ci hanno suggerito, allora ci assale lo sgomento, perché tutto lo sforzo che abbiamo fatto per abituarci a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze[4], si annulla nella nuova consapevolezza che la salvezza sta nella capacità del singolo di ritrovare quei perduti parametri esistenziali basati su valori che poco hanno a che vedere con tutto ciò che noi chiamiamo “progresso”.  
A questo punto, la domanda delle onde è “Quale educazione?

Buon anno scolastico.
16 settembre 2015                   
Francesco Callegari
dirigente scolastico




[1] Francisco (Paco) Bermudez Hernandez, fondatore del progetto educativo Yirtrak in Chiapas Messico.
[2] James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997.
[3] René GuénonIl Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Parigi 1945, ed. it. Adelphi, Milano 1982, p. 61.
[4] Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, 2001.

mercoledì 4 marzo 2015

IDOLATRIA – Enzo Bianchi


L’idolo – inteso come «simulacro», «feticcio» – non è la personificazione del dio, e in questo non inganna l’adoratore che è perfettamente consapevole di trovarsi di fronte non al dio in persona bensì a un’opera delle proprie mani, un «manufatto» che egli stesso offre al dio come «immagine visibile» affinché questi acconsenta ad assumerne il volto. Così, chi adora una statua sa benissimo che il dio non coincide con quell’idolo: in essa trova il volto accettato dal divino che sta prima di ogni immagine. In questo senso si può dire che l’esperienza umana del divino precede il volto che quel divino assume in essa, l’elaborazione umana del divino anticipa il volto idolatrico e così l’idolo restituisce all’uomo, sotto la forma del volto di un dio, la sua stessa esperienza del divino. Così quello che emerge a livello di «simulacro», di oggetto, si rivela autentico anche al livello più profondo (o più alto) dell’immagine: l’idolo, che sia esso statua o realtà immateriale o ideologia, non inganna ma fornisce certezze riguardo al divino. Anche quando appare nel suo aspetto terribile, l’idolo è rassicurante perché identifica il divino nel volto di un Dio.


Enzo Bianchi, Lessico della vita interiore, Milano 2004

venerdì 27 febbraio 2015

COLORO CHE SANNO - Platone


I migliori degli scritti non sono altro che mezzi per un richiamo alla memoria di coloro che già sanno.

Platone, Fedro, 275 D

giovedì 26 febbraio 2015

COLORO CHE SANNO - Eschilo


Io, volentieri, a coloro che sanno parlo,
a coloro che non sanno mi nascondo.

Eschilo, Agamennone, 38 s.

lunedì 1 dicembre 2014

ENTRARE NELLA PROPRIA DIMORA – Pierre Durrande

La nostra azione non può essere autenticamente educativa se l’antropologia che la sottende non è corretta. Che cosa significa essere uomini? Oggi sembra quasi impossibile fornire una definizione dell’uomo.
Il mistero dell’uomo deriva dal fatto che non può essere se stesso senza essere presente a se stesso. La propria definizione l’uomo la trova in sé. E’ entrando nella propria dimora che può accogliere l’interrogativo che l’umanità gli pone.
La nostra azione diverrà veramente educativa se invitiamo coloro che ci vengono affidati a osare assumersi la responsabilità di entrare nella propria dimora personale per stabilire a partire da essa una relazione positiva con il mondo, una relazione che porti l’impronta delle loro persone.
C’è un serio lavoro da fare per accordare l’uomo, a partire dalla sua persona, a ciò che è.


Pierre Durrande, L’arte di educare alla vita, p. 41-43 passim

venerdì 24 ottobre 2014

IL PESCE SULL'ALBERO - Albert Einstein


"Per una selezione equa tutti devono fare lo stesso esame: si prega di salire su quell’albero".

Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi su un albero, vivrà tutta la sua vita credendo di essere stupido.
Albert Einstein

martedì 21 ottobre 2014

GLI SI ILLUMINANO GLI OCCHI – Daniel Pennac


Ogni giorno in una classe c'è un docente che ha vinto il terrore dei suoi alunni e ci sono bambini ai quali si illuminano gli occhi perché hanno finalmente capito qualcosa che fino a dieci minuti prima era per loro del tutto incomprensibile.
Daniel Pennac, Palermo, Teatro Massimo, 19 ottobre 2014


lunedì 22 settembre 2014

SE NON ACCOGLI NON CONOSCI - Pierre Durrande


La conoscenza è accoglienza, è l’antitesi dello stupro.
L’accordo misterioso che in essa si stabilisce dipende dalla qualità del legame tra colui che conosce e ciò che egli cerca di conoscere, e questo accordo è il frutto di un amore.

Pierre Durrande, L’arte di educare alla vita, p. 37

venerdì 8 agosto 2014

LE DUE GOCCE D’OLIO – Paulo Coehlo


Un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.
Invece di trovare un sant'uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un'attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c'era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.
Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.
“Nel frattempo, voglio chiederti un favore,” concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d'olio. “Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l'olio.”
Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.
“Allora,” gli domandò questi, “hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?”
Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d'olio che il Saggio gli aveva affidato.
“Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo,” disse il Saggio. “Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.”
Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d'arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d'arte era disposta al proprio posto. Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.
“Ma dove sono le due gocce d'olio che ti ho affidato?” domandò il Saggio.
Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.
“Ebbene, questo è l'unico consiglio che ho da darti,” concluse il più Saggio dei saggi. “Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza mai dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino.”
Paulo Coelho, L’alchimista, 1988, ed. it. Bompiani, Milano 1995, P. 45-47.


martedì 5 agosto 2014

L’ALCHIMISTA – Paulo Coelho


Impara ad ascoltare il tuo cuore: è l’insegnamento che scaturisce da questa favola spirituale e magica. Alle frontiere tra il racconto da mille e una notte e l’apologo sapienziale, L’Alchimista è la storia di una iniziazione.
Ne è protagonista Santiago, un giovane pastorello andaluso il quale, alla ricerca di un tesoro sognato, intraprende quel viaggio avventuroso, insieme reale e simbolico, che al di là dello Stretto di Gibilterra e attraverso tutto il deserto nordafricano lo porterà fino all’Egitto delle Piramidi.
E sarà proprio durante il viaggio che il giovane, grazie all’incontro con il vecchio Alchimista, salirà tutti i gradini della scala sapienziale: nella sua progressione sulla sabbia del deserto e, insieme, nella conoscenza di sé, scoprirà l’Anima del Mondo, l’Amore e il Linguaggio Universale, imparerà a parlare al sole e al vento e infine compirà la sua Leggenda Personale.
Il miraggio, qui, non è più solo la mitica Pietra Filosofale dell’Alchimia, ma il raggiungimento di una concordanza totale con il mondo, grazie alla comprensione di quei "segni", di quei segreti che è possibile captare solo riscoprendo un Linguaggio Universale fatto di coraggio, di fiducia e di saggezza che da tempo gli uomini hanno dimenticato.

Paulo Coelho, L’alchimista, 1988, ed. it. Bompiani, Milano 1995.
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