“L’azione pedagogica
diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli approcci profondi e sa indicare
vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò don Milani diceva: «Verrà un
giorno in cui coloro che vogliono guarire le scuole malate dovranno salire a
Barbiana».
È ora di ripartire da
una scuola a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben
organizzata sul mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la
meraviglia del sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e
costante di un luogo accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato.”
Eravamo nel pieno del
boom economico e tutto sembrava finalmente andare per il meglio. Quando, nel
1967, uscì Lettera a una professoressa
e arrivò in ogni angolo d’Italia il monito, severo e profetico, di don Milani:
«la scuola ha un solo problema: i ragazzi che perde».
In quel libro c’erano
i dati che mostravano che la classe sociale dei genitori determinava il
successo o l’insuccesso scolastico, in larghissima misura. Quel monito ci sta
ancora addosso. Perché è ancora oggi così. Sono i figli dei poveri a fallire a
scuola. E sono tanti: il 20% del totale. Che tende a diventare il 30% e più nel
Sud come nelle periferie del Centro e del Nord. Lo dicono i dati del ministero
dell’Istruzione, quelli Istat, la Banca d’Italia, la relazione della
Commissione indagine sulla povertà. Lo mostra, pezzo per pezzo, il bellissimo Atlante dell’infanzia a rischio , curato
da Save the children ricordandoci che mentre nella maggior parte d’Europa il
figlio di un genitore di medio reddito e istruito ha 2 o 3 volte più
probabilità di completare l’intero ciclo di studi, da noi ha 7,7 più
probabilità! Il più grande scandalo d’Italia.
Così, è passato quasi
mezzo secolo. Ma resta questo il principale problema non solo della scuola ma
dell’intera società italiana. Dobbiamo riuscire a dare di più a chi parte con meno
nella vita e la scuola va ancora ben sostenuta perché non vi è altro luogo che
possa essere leva precoce di emancipazione e riequilibrio sociale.
Per questo l’Unione
Europea dal 2000 - la famosa agenda di Lisbona ci chiede di scendere sotto il
10% di fallimento formativo. E la questione è che noi non ci siamo ancora
riusciti. Benché siamo ben consapevoli che il non riuscirci, oltre a essere una
minaccia alla coesione sociale, ci priva di enormi risorse umane capaci di
azioni positive, un fatto che condiziona la stessa crescita economica. Perciò:
l’agenda politica, le scelte nella revisione delle spese e degli investimenti
pubblici deve tenere conto innanzitutto di questa questione.
Ma più che i dati,
come spesso accade, le vie da imboccare per riparare alle ingiustizie generali
le descrivono bene i libri che parlano di gesti, di giorni, di vicende umane.
Nelle bellissime
pagine di Insegnare al principe di
Danimarca (Sellerio) la molto compianta Carla Melazzini racconta del lungo
nostro lavoro con i ragazzi che avevano abbandonato la scuola a S. Giovanni a
Teduccio, Barra, Quartieri Spagnoli, Soccavo, Ponticelli. È una scrittura
sorvegliata, severa - come Carla era - che mostra, con fatica e poesia, il
lavoro della scuola che sa andare verso chi ne è stato escluso. Lavoro di
grande complessità artigianale, fatto a Napoli eppure simile a quello svolto da
altri insegnanti e educatori a Torino, a Verona, a Palermo, a Reggio Emilia, a
Milano. Il creare un luogo salvo, una zona franca, una chance. Dove curare -
nel bel mezzo delle devastazioni - le ferite sociali ed emotive. Per restituire
la guida adulta, la via dell’apprendimento, della motivazione, della cura di
sé. Per ridare «la capacità di aspirare», come viene definita in un importante
saggio di Arjun Appadurai (Le aspirazioni
nutrono la democrazia , Et al. Edizioni).
Sono pagine difficili
quelle di Carla Melazzini. Perché chiedono di ritornare a pensare alle persone
che crescono. Perché chiamano l’intero sistema d’istruzione e formazione a
rimettere insieme i pezzi, a coniugare meglio il sapere e il saper fare. E a
misurarsi molto di più con l’essere quotidiano di ciascun ragazzo. Com’era a
Barbiana, dove nell’aula di sopra c’erano i libri, le figure geometriche e le
mappe, nell’aula di sotto gli arnesi per costruire e manutenere oggetti e il
laboratorio di esplorazione scientifica e in ogni momento la possibilità di
fermarsi e «parlare di noi», di quel che sta succedendo e di come va, senza mai
dimenticare che si sta lì per imparare.
Quattro anni prima
dell’uscita di Lettera a una
professoressa, Adele Corradi salì a Barbiana. Ora finalmente lo racconta
nel libro Non so se don Lorenzo
(Feltrinelli). Era il 29 settembre 1963. Oggi decide di lasciare indietro la
sua riservatezza e ci riporta proprio lì. Con un avvertimento: «Non si racconta
in questo libro la storia di don Milani…. Si parla di lui, ma non se ne
racconta la storia. Chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove…. Qui
sono messi a fuoco frammenti di vita, frammenti sparsi, affiorati alla memoria
col disordine dei ricordi». Adele ricorda il giorno dell’inizio, domenica, S.
Michele. Ma non ricorda che lezione avesse tenuto. Rammenta, però, che don
Lorenzo, in modo per lui inconsueto, le disse: «Ritorni». E lei si è da allora
sempre chiesta perché: «.. o gliel’ha suggerito lo Spirito Santo o io con la
telepatia». Così, dopo qualche giorno ritornò. E partecipò alla prima vera
lezione, un esercizio di scrittura collettiva. E di lì si va avanti nel
racconto, scena dopo scena, con i gesti e il parlato riportati entro un
interrogarsi profondo e semplice. Perché questo libro rimette ogni lettore nel
ritmo e nella parola di quel luogo, nel suo senso quotidiano. E così Adele ci
fa un regalo immenso: toglie il peso del mito a Barbiana. E finalmente
restituisce quella scena alla magica imperfezione delle persone al lavoro, che
tentano, che riparano, che si chiedono, che litigano, che non sanno e che
comunque riescono.
Ritrovare l’occasione
e il modo di fare bene scuola provando a capire il proprio tempo e il mondo è
sempre possibile. E rimettersi in gioco è la chiave dell’educare. Come ci dice
ancora Adele, oggi quasi novantenne: «Sono stata insegnante di lettere alle
medie fino alla pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un’insegnante
identica alla destinataria di Lettera a
una professoressa … L’incontro con la scuola di Barbiana ha scavato un
solco nella mia vita. Mi sono vista come non mi ero mai vista. E non solo come
insegnante, ma come persona».
Dunque, la vicenda di
Barbiana e delle buone scuole delle nostre troppe periferie non è solo
un’azione a sostegno dell’equità e a vantaggio di una società democratica. Ma
permette trasformazioni. E ci dice la direzione da prendere per tutta la
scuola. Perché l’azione pedagogica diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli
approcci profondi e sa indicare vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò
don Milani diceva: «Verrà un giorno in cui coloro che vogliono guarire le
scuole malate dovranno salire a Barbiana».
È ora di ripartire da
una scuola a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben
organizzata sul mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la
meraviglia del sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e
costante di un luogo accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato.