Parlare
dei tre giorni di Londra come di una esperienza non mi riesce, e sono
giorni che ci provo. Forse è perché le mie relazioni nascono sempre in costanza
dell’evento, sorta di commentari che raccolgono note a mano a mano che le cose
avvengono, e poi qualche volta vengono cuciti insieme. Qui non ho avuto il
tempo di farlo, perché non sono mai stata abbastanza sola, se non il tempo,
sempre insufficiente, per dormire.
Sola,
lo sono stata soltanto nel lungo viaggio di andata, iniziato alle 5.30 del
mattino e concluso intorno alle 14.00 del pomeriggio di giovedì, passando per
vari mezzi (treno, autobus, aereo, metro) col sonno che a tratti reclamava un
risarcimento e sempre - se si eccettua l’emozionante ricerca mestrina della
stazione del bus, in tutto forse cinque minuti - del tutto tranquilla.
Scrivere
da subito non si fa, occorre pur cominciare a raccogliere elementi della cosa.
Il mio racconto di Londra comincia dunque all’uscita dalla metro, stazione di
Paddington, l’aria frizzante sul viso e intorno un panorama di edifici
inconsueto. E, subito, non c’e più tempo per abbandonarsi alla stanchezza.
Siamo qui, abbiamo una manciata di ore. Bisogna prendere tutto quel che
riusciamo a afferrare, non ci sarà un’altra volta a recupero di questa. (Non c’è
mai, neanche nella vita quotidiana, dove però ci illudiamo di sperimentare di
continuo la ripetizione).
Westminster
Abbey, dimora delle glorie della monarchia - anche delle glorie civili, ma
soprattutto delle teste coronate e dei loro satelliti. Costruita nel tempo,
ampliata nei secoli e perciò contraddittoria, enorme, scura, orribili papaveri
finti per il milite ignoto, lo splendido coro a scavalco dei secoli. Mi danno l’audioguida
in italiano, la prendo perché, dove c’è spessore di storia e le conoscenze e la
memoria cedono, lo sguardo non basta a suggerirci dove siamo. Ci fu anche un
tempo in cui pensavo che fosse necessario sapere di cosa realmente si
trattava nelle cose. Qualcuno dice che è un luogo di tombe, ma io non ne ho
avvertita nemmeno una. L’ho vissuta come raccolta di omaggi - riconoscenza,
devozione, sfarzo - nel monumento in cui si riconosce la nazione: noi siamo
questi, noi siamo grazie a costoro. Noi siamo il Paese che ha espresso questo
contributo alla civiltà (Isaac Newton, il Poet’s corner,…) di cui andiamo
orgogliosi. Se sono corpi, sono conservati nella gloria.
Ha
un che di artificiale da sempre, nella mia vita, l’esperienza estetica. Ci fu
un tempo in cui mi pareva di assorbire: mi impegnavo con attenzione a guardare,
cercando di imprimere da qualche parte, dentro di me, le immagini che ritenevo
preziose. Adesso cammino e quello che vedo mi fluisce intorno e lo lascio
andare, mi sfiora appena eppure mi accorgo che c’è: e qualcosa rimane.
Di
Westminster mi è mancato il colpo d’occhio, la visione d’insieme, un po’ perché
gli altari interrompono la navata e un po’ perché l’audioguida conduce di
particolare in particolare. Dalla neutralità della descrizione emergono i
costoloni del gotico avvolti verso l’alto come tende annodate, le trine del soffitto
- pietra resa leggera e morbida come fosse tessuto - il raffinato pavimento
italiano dell’incoronazione, le memori tombe di Elisabetta e Maria Stuarda.
All’uscita
è freddissimo - ho lasciato sciarpa, guanti e berretto in hotel, ingannata da
un sole che non ci mancherà mai, ma al tramonto riposa… -, doccia bollente,
scendiamo per cena, arrivano tutti. Non c’è il tempo di costruire un gruppo
affiatato, forse non siamo qui per questo, per cosa, invece?
A
cena col pollo, gente nuova, storie soprattutto vecchie di scuola, entusiasmi
nuovi di proposta. Come mi sento? Ascolto: dov’è che stiamo andando e cosa
stiamo facendo? Che ci faccio qui, io che in vita mia mi sono occupata
veramente poco di didattica, un po’ per disprezzo della pedagogia che tratta il
bambino come un animale, un po’ perché a lungo dominata dall’idea che il sapere
fosse cosa diversa e più importante del fare?
La
scuola italiana è una grande macchina elefantiaca, come un popolo in marcia
disorganizzata verso un dove che ognuno immagina a modo suo e a cui si reca
nella condizione che gli è propria, perché si è unito alla marcia così come
stava, quando gli è passata accanto - e chi aveva le scarpe giuste e chi no, e
chi era ben provvisto di scorte sufficienti e chi, dopo un po’, si trova che
gli manca questo e quello e ha perso i compagni o ne ha trovati di nuovi. Chi
si ritira, chi protesta, chi pensa che sia l’occasione della sua vita, chi,
altrimenti, non avrebbe saputo che fare.
Dopo
cena, il grosso del gruppo va a dormire. Anch’io penso che sono in piedi da
tanto e mi attende una giornata intera di seminario. Sarebbe saggio riposare,
magari mi risparmio un mal di testa da sonno rubato.
Il
gruppo piccolo resta fuori. Se si va a bere da qualche parte, non mi interessa.
Facciamo invece due passi, ancora un’ora! Domani, se ci sarà il mal di
testa, prenderò una pastiglia: ne prendo da settimane, per i postumi di una
sciocca caduta in casa. Posso dedicarne una a una passeggiata nel buio dell’avventura
in questa città.
Tower
of London, Tower Bridge color celeste giocattolo, le imbarcazioni nella
darsena. C’è qualcuno che, nella sua vita, si compra una barca e la ormeggia
nel Tamigi. Come si fa parlare di “umanità”? Il bene dell’umanità, l’interesse,
il progresso dell’umanità… Nome collettivo che assembla individui così tanto
diversi e lontani che forse esige di chiarirsi ogni volta, all’uso, quale sia
il sottoinsieme di riferimento.
Ho
dormito benissimo e profondamente. L’avrei fatto, credo, ovunque non fosse
troppo freddo. Il freddo mi atterra. Le grandi tragedie in cui ha avuto una
parte decisiva- le ritirate di Russia, i lager polacchi - mi avrebbero fatto
poco danno, perché la lotta sarebbe stata breve.
Venerdì,
giornata Apple. Non avrebbe avuto senso arrivare fin qui per l’infilata di
dimostrazioni in inglese - che in Italia si seguono comodamente in italiano.
Tanto meno per il pistolotto finale del prestigioso motivatore. Ce l’ha invece
perché la bellezza ha merito: e qui, dal luogo (che, all’indomani di
Westminster, mi evoca un tempio laico), al ritmo degli incontri, alla
moderazione dello slancio negli interventi (sempre trattenuto da una regola che
al tempo stesso sembra sostenerlo), fino alla distribuzione del buffet, ovunque
rimbalzano ordine eleganza sobrietà. Ma più ancora merita, perché la regia
impeccabile lascia filtrare un appello inquieto, che corre per lo più sottotono
ma, a tratti, emerge con prepotenza: il movimento (la ricerca, la scoperta, l’avvenire)
non è mai scontato. Gli lotta contro l’inerzia, travestita da ogni sapere
negativo sul limite delle risorse, proprie e altrui: mancanza di capacità, di
mezzi, di tempo. Sarebbe una buona idea, se non fosse che…
Fuori,
verso il tramonto, un’altra darsena, intanto che mi si costruisce a poco a poco
una percezione di mondo che cambia e di cui io non mi ero accorta ancora.
Serata
pub, volume di voci altissime che doppia la dimostrazione di scienze, in cui
quattro erano scattati a parlare insieme e per un attimo mi ero chiesta se
fosse un effetto voluto. Serata di pensieri avvolti dal rumore, ma dove stiamo
veramente andando e da dove veniamo? Quando è cominciato? Dal pc. Ah, sì, è vero,
il pc. Una potenza di calcolo spaventosa sulla scrivania di casa. Non ci faccio
quasi nulla di ciò che ci potrei fare. Ma io conto poco. Conta quello che è realmente
diventato possibile, che non lo era. Come lo è stato solcare i cieli in volo,
come spostare un guardaroba pesante perché adesso le valigie hanno le ruote.
Rivoluzioni, a cui non è facile applicare l’appropriato ordine di grandezza,
perché varia a seconda di chi colpiscono e qualcuno non ne è toccato affatto e
qualcuno ne ha la vita del tutto sconvolta.
Prima
della notte, poche gocce di pioggia intorno al Big Ben. Stavolta resto al
coperto, il ponte l’ho percorso ieri, resto a tentare un ritratto della House
of Parliament che rassomigli a un maniero nella nebbia. Andate pure, io resto
qui, che volete che mi succeda? La tranquillità senza la paura che, a sera
tarda, avrei nel centro di Padova quasi a ogni angolo di strada.
Terzo
giorno, lo choc al momento della colazione, tutt’a un tratto mi accorgo che ho
al tavolo persone che lavorano tutte nella scuola primaria e nel primo grado… e
tentano, e applicano! la didattica con le nuove tecnologie, intanto che noi ci
attardiamo pigramente a considerare se fare una classe Ipad, se farne due… che
in capo a quarant’anni copriremo tutta la scuola. Lo choc che il tempo stringe
tantissimo e io lo capisco soltanto adesso e a scuola da me non lo sa nessuno… Arriveranno
ragazzi che hanno imparato a usare altri strumenti, e noi cosa diremo loro? Di
attendere quando saranno in terza che, se saranno fortunati, finiranno nella
sezione sperimentale? Spiegando che troppo wifi nell’età della crescita fa
male, che gli strumenti non servono se non si impara a ragionare e per quello
intanto vanno bene carta e penna, che non abbiamo finanziamenti per dotazione e
manutenzione e una formazione come si deve, la quale comunque non potrebbe
essere obbligatoria se non con l’esonero dall’insegnamento o a fronte di una
remunerazione, perché lavoriamo già così tanto?
Dopo
colazione, il British Museum. Ho cercato di nuovo la sorpresa dei bassorilievi
assiro-babilonesi, che mi aveva toccato così tanto la volta precedente. Gli
assiro-babilonesi, nella scuola del sistema delle conoscenze, me li ero persi,
o, per la verità, non c’erano mai entrati. Il libro parlava di figure rigide -
i dignitari del re. Non raccontava la crudeltà della caccia in cui si
scontravano il re degli uomini e quello delle belve, la ferocia del leone
ruggente e colpito, vinto, infine, nei vari modi dell’uccisione e sempre col
suggello della freccia in corpo, perché nemmeno il leone può essere, mai,
superiore al re. Racconto che si squaderna in punta di cesello, finissimo nel
tratto e drammatico nella narrazione - e i dignitari immobili stiano pure
altrove, nei libri di storia.
Il
Partenone. Dopo molti anni, smetto per sempre l’abito ortodosso. Oggi riconosco
in me tutta romantica, ideale l’emozione di fronte a torsi mutili, splendida
bellezza di cui sopravvive il ricordo, molto più che la traccia. Se penso allo
sforzo che ho fatto a convincere Stefania di quanto fossero preziosi… Cos’era,
poi? Seminagione del rispetto preconcetto per la reliquia… Che in tanto ha
valore, in quanto fu parte…
Passaggio
al Covent Garden con l’equivoco sull'Apple Market, perché le parole cambiano
senso e il contesto si prestava a fraintendere e perciò nessuna traccia di Ipad
fra bancarelle e artisti di strada. Però, neanche più le mele abbiamo trovato,
solo l’insegna che mantiene il nome…
Passaggio
in altro pub, quasi già consuetudine. Lasciamo la città su un autobus che
sfiora l’Islamic Bank of Britain e mi percorre un brivido di scandalo,
qualche risentimento dai fatti di Parigi ancora attivo, teocrazia è anche
questo, un istituto laico sottoposto a un principio divino. Ma in tempo breve
la memoria mi riconsegna l’immagine della banca affacciata sulla piazza della
città natale, quando ero bambina Banca Cattolica del Veneto. Memoria
labile.
Il
luogo in cui ho sentito più vicino l’abbraccio della città è stato Piccadilly
Circus. Piccadilly, dove le strade convergono su una piccola piazza e le
insegne pubblicitarie incombono e tutto si concentra intorno alla fontana e si
mette sotto la protezione dell’angelo, cuore di un posto pieno di gente: quanta
gente ho visto in questi giorni che si muoveva andando ognuno per i fatti
propri, e riempiva in su e e in giù le scale della metropolitana e innumeri
negozi in Oxford Street, gente e soldi che vanno dappertutto, e per lo più credono
di sapere dove…
Abbiamo
preso l’aereo al volo (metafora appropriata). I prossimi giorni, settimane,
mesi, a cominciare da subito, annoteranno la scrittura dell’evento nella vita e nel lavoro.
Il
ritorno, sappiamo, non esiste.
Nadia Vidale