Nel linguaggio della
scuola l’“aula” non è lo spazio fisico, il contenitore materiale che ogni
mattina si riempie di studenti, fatto di banchi, di armadi, di cattedra e di
lavagna – multimediale o tradizionale che sia; l’“aula” è un cosa viva, che ti
scruta, che rumoreggia, che presta attenzione, che disturba, che ha una propria
anima, talvolta è una fiera da domare, talvolta un pubblico da affascinare, o
un cantiere di lavoro…
L’“aula” è fatta di
tanti volti che ti osservano, che aspettano le tue mosse, è un bosco da
esplorare, un insieme di diversità che pretende, ciascuna, di essere vista, di
non essere confusa con nessun’altra.
Ogni nuovo anno
scolastico riporta l’insegnante in questa arena, senza rete, con sulle spalle
un compito insostenibile, quello di parlare a tutti in modo per ciascuno
significativo, con un programma da svolgere – certamente –, ma, soprattutto,
con un messaggio da comunicare.
Il principale
problema, infatti, non è quello di trasmettere qualche nozione o di fornire
qualche abilità, non è, nemmeno, garantire una buona qualità professionale; più
importante di tutto è la prospettiva che l’insegnante sa offrire a chi gli sta
davanti e che ha bisogno di capire perché è lì.
La vera sfida
didattica si gioca sul terreno della motivazione. Motivazione e apprendimento
significativo sono due parole che si richiamano e che chiamano in causa
l’insegnante, che dovrà rendere possibile questo miracolo.
Bruno Bettelheim ci
fornisce un’indicazione preziosa, quando ricorda agli educatori (genitori,
insegnanti...) che la più grande richiesta che i bambini e i ragazzi fanno loro
è di aiutarli a trovare un significato alla propria vita.
Italo Fiorin,
“Scuola e Formazione”, n. 9/10 (2012)