L’essere alle nostre
spalle pareva un monaco, anche se la tonaca sudicia e lacera lo faceva
assomigliare piuttosto a un vagabondo, e il suo volto non era dissimile da
quello dei mostri che avevo appena visto sui capitelli. Non mi è mai accaduto
in vita, come invece accadde a molti miei confratelli, di essere visitato dal
diavolo, ma credo che se esso dovesse apparirmi un giorno, incapace per decreto
divino di celare appieno la sua natura anche quando volesse farsi simile
all’uomo, esso non avrebbe altre fattezze di quelle che mi presentava in
quell’istante il nostro interlocutore. La testa rasata, ma non per penitenza,
bensì per l’azione remota di qualche viscido eczema, la fronte bassa, ché se
egli avesse avuto capelli sul capo essi si sarebbero confusi con le
sopracciglia (che aveva dense e incolte), gli occhi erano rotondi, con le
pupille piccole e mobilissime, e lo sguardo non so se innocente o maligno, e
forse entrambe le cose, a tratti e in momenti diversi. Il naso non poteva dirsi
tale se non perché un osso si dipartiva dalla metà degli occhi ma come si
staccava dal volto subito ne rientrava, trasformandosi in null’altro che due
oscure caverne, narici amplissime e folte di peli. La bocca, unita alle narici
da una cicatrice, era ampia e sgraziata, più estesa a destra che a sinistra, e
tra il labbro superiore, inesistente, e l’inferiore, prominente e carnoso,
emergevano con ritmo irregolare denti neri e aguzzi come quelli di un cane.
Umberto
Eco,
Il nome della rosa, p. 53-54