Ai piedi della
Vergine, in preghiera, quasi prostrato, stava un uomo, vestito con gli abiti
dell’ordine cluniacense.
Ci appressammo.
L’uomo, udendo il rumore dei nostri passi, alzò il volto. Era un vegliardo, col
volto glabro, il cranio senza capelli, i grandi occhi celesti, una bocca
sottile e rossa, la pelle candida, il teschio ossuto a cui la pelle aderiva
come fosse una mummia conservata nel latte. Le mani erano bianche, dalle dita
lunghe e sottili. Sembrava una fanciulla avvizzita da una morte precoce. Posò
su di noi uno sguardo dapprima smarrito, come lo avessimo disturbato in una
visione estatica, poi il volto gli si illuminò di gioia.
« Guglielmo! »
esclamò. « Fratello mio carissimo! » Si alzò a fatica e si fece incontro al mio
maestro, abbracciandolo e baciandolo sulla bocca. « Guglielmo! » ripeté, e gli
occhi gli si inumidirono di pianto. « Quanto tempo! Ma ti riconosco ancora!
Quanto tempo, quante vicende! Quante prove che il Signore ci ha imposto! »
Pianse. Guglielmo gli rese l’abbraccio, evidentemente commosso. Ci trovavamo
davanti a Ubertino da Casale.
Umberto
Eco,
Il nome della rosa, p. 56