Io non sapevo allora cosa
frate Guglielmo cercasse, e a dire il vero non lo so ancor oggi, e presumo non
lo sapesse neppure lui, mosso com’era dall’unico desiderio della verità, e dal
sospetto — che sempre gli vidi nutrire — che la verità non fosse
quella che gli appariva nel momento presente.
Era dunque l’apparenza
fisica di frate Guglielmo tale da attirare l’attenzione dell’osservatore più
distratto. La sua statura superava quella di un uomo normale ed era tanto magro
che sembrava più alto. Aveva gli occhi acuti e penetranti; il naso affilato e
un po’ adunco conferiva al suo volto l’espressione di uno che vigili, salvo nei
momenti di torpore di cui dirò. Anche il mento denunciava in lui una salda
volontà, pur se il viso allungato e coperto di efelidi — come sovente vidi
di coloro nati tra Hibernia e Northumbria — poteva talora esprimere incertezza
e perplessità. Mi accorsi col tempo che quella che pareva insicurezza era
invece e solo curiosità, ma all’inizio poco sapevo di questa virtù che credevo
piuttosto una passione dell’animo concupiscibile, ritenendo che l’animo
razionale non se ne dovesse nutrire, pascendosi solo del vero, di cui (pensavo)
si sa già sin dall’inizio.
Fanciullo com’ero, la cosa che di lui subito mi
aveva colpito, erano certi ciuffi di peli giallastri che gli uscivano dalle
orecchie, e le sopracciglia folte e bionde. Poteva egli avere cinquanta
primavere ed era dunque già molto vecchio, ma muoveva il suo corpo instancabile
con una agilità che a me sovente faceva difetto. La sua energia pareva
inesauribile, quando lo coglieva un eccesso di attività. Ma di tanto in tanto,
quasi il suo spirito vitale partecipasse del gambero, recedeva in momenti di
inerzia e lo vidi per ore stare sui suo giaciglio in cella, pronunciando a
malapena qualche monosillabo, senza contrarre un solo muscolo del viso. In
quelle occasioni appariva nei suoi occhi un’espressione vacua e assente, e
avrei sospettato che fosse sotto l’impero di qualche sostanza vegetale capace
di dar visioni, se la palese temperanza che regolava la sua vita non mi avesse
indotto a respingere questo pensiero. Non nascondo tuttavia che, nel corso del
viaggio, si era fermato talora sul ciglio di un prato, ai bordi di una foresta,
a raccogliere qualche erba (credo sempre la stessa): e si poneva a masticarla
con volto assorto. Parte ne teneva con sé, e la mangiava nei momenti di maggior
tensione (e sovente ne avemmo all’abbazia!). Quando una volta gli chiesi di che
si trattasse, disse sorridendo che un buon cristiano può imparare talora anche
dagli infedeli; e quando gli domandai di assaggiarne, mi rispose che, come per
i discorsi, anche per i semplici ve ne sono di «paidikoi», di «ephebikoi»
e di «gynaikeioi» e via dicendo, così
che le erbe che sono buone per un vecchio francescano non son buone per un
giovane benedettino.
Umberto Eco, Il nome della
rosa, p. 22, 23-24