Finora le periferie avevano retto molto meglio da noi
che in altri paesi. Se la situazione è precipitata, è necessario
ricordare che per tanto tempo le nostre periferie hanno permesso
alla maggior parte dei loro abitanti di condurre una vita dignitosa e
tranquilla.
La mia prima osservazione è che la crisi ha minacciato
la stabilità delle famiglie. I motivi di tensione, ovviamente già
presenti, hanno incontrato resistenze sempre più deboli. I fattori di
tenuta dell'istituto familiare hanno avuto minor presa sulle persone
(pensiamo solo all'importanza delle parrocchie, anche solo 20 anni fa,
in molte situazioni a rischio), e tante famiglie si sfasciano quando i
figli sono ancora piccoli.
In aree sempre più popolate (non dimentichiamo che al mondo
siamo in 7 miliardi, in un assetto urbano pensato quando non eravamo in
2 miliardi) i fattori educativi e temo il valore stesso della persona si
sono indeboliti: spesso la scuola, per troppo tempo vituperata, ha
costituito e continua a costituire l'avamposto solitario e insufficiente
in difesa di una serie di valori umani e civili che non i poveracci, ma
gli intellettuali e i giornalisti, gli editorialisti e i maitres-à-penser hanno attaccato e messo
in ridicolo per decenni. Ora la scuola non ha quasi più il sostegno
delle famiglie, della cui devastazione rimane spesso solo l'isterica
difesa dei figli (non come persone, ma come membri del clan) senza più
nessun richiamo a quella «comunità educante», fondata sulla collaborazione
tra scuola e famiglia, che era il cemento della trasmissione del sapere
e dei valori da una generazione all'altra.
Se un giovane non conosce la differenza tra un conducente di
autobus e, poniamo, un distributore di bibite, e prende a calci l'uno e
l'altro allo stesso modo se non fanno quello che lui vuole, la ragione è
ahimè semplice: nessuno gliel'ha mai spiegata. Ed è proprio così. Ho
conosciuto tanti ragazzi migliori di me cadere nella deriva della
violenza non per cattiveria ma per solitudine e ignoranza. Sono molti i
sociologi che sanno cosa piace a un giovane oggi, ma spesso un giovane
non sa quello che gli piace, e conduce una vita senza vero piacere,
povera di bellezza.
C'è infine un altro tema di cui tener conto: la tendenza ad
avere la casa di proprietà ha caratterizzato per decenni il costume
degli italiani. Questo, oltre a permettere una base finanziaria, ha
determinato i comportamenti sociali anche di moltissimi extracomunitari,
i quali hanno fatto proprio, dove possibile, questo costume. Chiunque
può comprendere che il possesso della casa porta ad atteggiamenti
diversi nei confronti del quartiere dove si vive, e che il sentirsi sul
collo il fiato della precarietà, dell'instabilità e dell'abbandono
genera nuove tensioni, nuova sofferenza.
lo non credo però che qualche provvedimento avveduto da parte
di politici o pubblici amministratori possa cambiare le cose. Abbiamo
visto ciò che questa gente sa fare, e ho anzi il sospetto che nessuno di
questi abbia la possibilità di fare altrimenti: un amministratore onesto
e preoccupato del bene comune è ormai una persona sospetta. Dobbiamo
contare molto di più su noi stessi. Il mio, il tuo atteggiamento possono
cambiare la vita del pianerottolo, del palazzo, del quartiere. Ciascuno
di noi dovrebbe dire: si ricomincia da me. L'io è il solo fattore di
cambiamento nella difficoltà di oggi. Spesso basta un prete, una piccola
associazione, o qualche privato che si dà da fare. La prima volta ti
bucheranno le gomme, la seconda idem, alla terza cominceranno ad
ascoltarti.
Di fronte a tanto sfacelo, è in questo che credo.
Luca Doninelli, insegnante e scrittore, Panorama 3 dicembre 2014