Quindici
anni fa Tullia, una studentessa di seconda liceo, ragazza vivacissima, molto inquieta
e intelligente, arriva in presidenza trafelata e chiede di parlarmi
urgentemente: «Preside (ora è ortopedico e mi chiama ancora così!), ho fatto un
conto: ogni anno dedichiamo circa 1.500 ore alla scuola, 1.000 vanno per le
lezioni e circa 500 per lo studio. Sono ore della mia vita. Se fossero ore di
vita perse, ore di "non vita", sarebbe una vera e propria tragedia. Ma
perché dobbiamo studiare? Che senso ha quel che studiamo per la nostra vita? La
prego, mi risponda».
La
radice della parola scuola, le ho detto, è un termine greco (skolè), che significa "tempo
libero". Chi poteva, un tempo, permettersi il lusso di studiare senza
essere costretto a lavorare per vivere, fin da piccolo? È un privilegio poter
studiare, ma è solo il gusto della scoperta che può dare senso a quelle ore
contate in modo così minuzioso da Tullia. Moltiplicatele per 8 milioni e mezzo
di studenti e per 800.000 insegnanti e arriveremo a cifre astronomiche: un
capitale enorme che non può essere sprecato.
Lo
scopo della scuola non è studiare dei libri, ma rispondere al desiderio di
scoprire il segreto di sé e delle cose. La scuola è un mondo dove si incrociano
tanti mondi: la storia, la filosofia, la matematica, la fisica sono strade
attraverso cui entrare nella realtà, mettendo a frutto il bagaglio di
conoscenza e di esperienza che ci viene dal passato, perché possa essere
re-inventato. Per questo può diventare interessante andare a scuola. Ce lo ha ricordato
papa Francesco il 10 maggio scorso, davanti a centinaia di migliaia di persone:
"amiamo" la scuola per quel che può accadere dentro la scuola, dentro
quelle 1.000 ore all'anno di vita che condividiamo con i nostri studenti.
Se
il 20% di loro l'abbandona senza neppure aver conseguito una qualifica
professionale, se per il 37% di loro la scuola "è un luogo dove non voglio
andare", è perché in quelle ore, spesso, invece, non accade nulla di
significativo per sé. I ragazzi non hanno paura di far fatica per le cose che
desiderano. Odiano la mancanza di senso, la percezione di essere
"sommersi" di risposte a domande che non hanno.
Non
è vero che i ragazzi amano solo quello di cui vedono un'immediata utilità. In
ogni ragazzo esiste quel desiderio di imparare per cui si può essere disposti anche
a far la fatica di studiare la grammatica delle cose. Abbiamo uno strumento
importantissimo su cui contare: quelle esigenze di vero, di bello e di buono
che, seppur nascoste da mille detriti, rimangono indelebili nel cuore di ogni studente
e di ogni docente.
È
su questo che dobbiamo puntare, è questa la rivoluzione di cui ha bisogno la
scuola. Una rivoluzione che nessuna legge potrà mai obbligare a fare, e che può
cominciare da subito. È un'impresa che ha bisogno di tutti: genitori,
imprenditori, ricercatori, giornalisti, artigiani, poeti, scienziati.
Elena Ugolini,
“Avvenire”, 3 dicembre 2014.