Non amava la terra,
non più di quanto l'amasse la banca; ma non amava nemmeno la trattrice. Si
contentava di ammirarne le superfici lucenti, la potenza, il rombo dei suoi
cilindri detonanti. A rimorchio rotavano i lucidi dischi che vivisezionavano la terra: non più col faticoso lavoro dell'aratro, ma
con la fredda opera d'un chirurgo la terra smossa s'ammucchiava da un lato
mentre il secondo ordine di dischi la incideva e l'ammucchiava dall'altro;
rilucevano le lame taglienti per il costante lustramento della terra. E dietro
ai dischi gli erpici rastrellavano le zolle con denti di ferro. E dietro agli
erpici le lunghe seminatrici - dodici ferrei membri eretti - violentavano la
terra, stuprando meccanicamente, senza passione, sputando il seme. Il
conducente sul suo sgabello di ferro s'inorgogliva dell'impeccabile dirittura
dei solchi che non tracciava lui, della trattrice che non era sua e ch'egli non
amava, della potenza di cui si sapeva schiavo. E s'arrivava alla maturazione e
alla mietitura senza che nessun essere umano avesse sbriciolato con le mani le
tiepide zolle o setacciato la terra tra le dita, senza che nessuno avesse
toccato il seme o ne avesse spiato con ansia la crescita. Gli uomini mangiavano
ciò che essi non avevano coltivato, più nessun vincolo li legava al proprio
cibo. La terra s'apriva sotto il ferro e sotto il ferro gradatamente inaridiva:
nessuno c'era più ad amarla o a odiarla, nessuno più la supplicava o
malediceva.
John Steinbeck,
Furore, Bompiani, Milano 1940, p. 27
Titolo originale: The grapes of wrath, Copyright 1939 John
Steinbeck