Sul suo sedile in
ferro il conducente non aveva aspetto umano. Inguantato, occhialuto, mascherati
il naso e la bocca contro la polvere, era parte integrante del mostro, era un
fantoccio meccanico. Lo strepito dei cilindri echeggiava su tutta la contrada,
divenne un elemento come l'aria o la terra, e l'aria e la terra e lo strepito
sussultavano all'unisono sotto le identiche vibrazioni. Il conducente non
poteva impedire al mostro di avanzare e retrocedere in linea retta per la
campagna e di travolgere nella sua marcia dozzine di fattorie. Azionando leve e
comandi si sarebbe potuto deviarlo, ma il conducente non poteva perché un altro
mostro, il mostro che aveva costruito la trattrice, che l'aveva inviato sul
posto s'era immesso nelle mani, nel cervello, nei muscoli del conducente, lo
teneva imbrigliato e imbavagliato... imbrigliata la mente, imbavagliata la
bocca, imbrigliate le sue facoltà di percezione, soffocata ogni sua voce di
protesta. Non poteva vedere la campagna così com'era, né assaporare l'odore
genuino della terra, né calpestarne le zolle, né sentirne il calore e la forza.
Sedeva su uno sgabello di ferro e premeva pedali di ferro. Non poteva
apprezzare né comprimere, o maledire o incoraggiare il proprio potere nel
confronti della terra e di conseguenza era incapace di provare gioia o
tormento, furore o sollievo. Non conosceva la terra, non era sua, non aveva
fede in lei, non la supplicava. Se un granello di seme non germinava, egli non
se ne dava pensiero. Se i teneri virgulti appassivano nella siccità o
affogavano sotto la pioggia, egli rimaneva indifferente, come la trattrice.
John Steinbeck,
Furore, Bompiani, Milano 1940, p.
26-27
Titolo originale: The grapes of wrath, Copyright 1939 John
Steinbeck