Sono una
professoressa e molti mi disprezzano. Forse anche tu mi disprezzavi, don
Milani, non certo per il mio mestiere, che hai scelto anche tu di fare:
insegnare. Mi disprezzavi perché insegnavo solo ai Pierini, i figli dei ricchi,
mi concentravo su di loro e lasciavo indietro i tuoi Gianni, poveri e
malandati. Mi dimenticavo che la Costituzione recita: «La scuola è aperta a
tutti»,
e: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi». Ti ho ascoltato eccome e oggi
insegno in una scuola dove sono tanti i «privi di mezzi», i Gianni. Accade
esattamente la stessa cosa: i miei Gianni sono nuovamente distinti dai Pierini.
Si è però
verificato uno scambio curioso. Siamo solo noi da dentro quelle aule sporche e
fredde a difendere il diritto a un futuro migliore per i Gianni di oggi. Noi
professoresse. E lo facciamo perché stanno mettendo in pericolo quella
possibilità. Ci accusano anzi di bocciare meno, pensa un po’, ci vorrebbero
arcigne, «rigorose» e pronte a cacciare via quanti non se lo meritano. Ma come
fai a distinguere quando un alunno è meritevole per le sue capacità, o meglio
per i suoi «risultati» e quando lo è perché la fortuna non lo ha mai sfiorato?
Un ragazzo
di periferia, che frequenta una scuola di periferia, quando diventa meritevole
di considerazione? Quando ha tutti otto, o nove virgola 51 nelle prove
nazionali? O quando devo mettermi lì, con pazienza, professionalità, tempo,
strutture, per fargli raggiungere le «uguali» condizioni affinché la sua
«scuola aperta a tutti» sia egualmente efficace della «scuola aperta a tutti»
di altri contesti italiani, o della sua stessa città?
Mila Spicola, La scuola s’è rotta, p. 12-13