Ma
non è tutto qui. C’è il silenzio dell’essere umano che parla; c’è il silenzio
dell’infante che non parla; e c’è il silenzio dell’animale che, direi, né parla
né non parla: un silenzio difficile da considerare, anche perché siamo noi a
parlarne (lui non se lo sogna nemmeno, né lo farebbe mai).
L’adulto,
per esempio, sale le scale di corsa. Non sta a contare i gradini. Lo sa
fare e basta: un sapere che non ha bisogno di rompere il silenzio per porsi in
atto e che, anzi, del non farlo se ne giova.
Il
lattante succhia il seno con evidente beatitudine. Non è in grado di dirselo e
di saperlo, ma lo sa fare benissimo. Prende fiato e respira, strabuzzando gli
occhi dal piacere. Oppure si succhia il dito, con metodo e soddisfatta
applicazione. In perfetto silenzio.
Anche
il cane, infine, sa scavare metodicamente la sua buca per nascondervi l’osso.
Va da sé che lo faccia in silenzio, cioè senza dirsi alcunché, semplicemente
impegnato nel suo progetto di scavo.
Si
tratta dunque di azioni e competenze che non richiedono il linguaggio. È
curioso che in fondo dobbiamo dire il medesimo anche di quella competenza che è
il linguaggio. Lo so che so parlare senza bisogno di dirmelo; lo so in silenzio
come quel signore che sa dell’obelisco senza esserselo mai detto espressamente;
però sa dire dove sia. E così io: se qualcuno mi parla, rispondo subito a tono.
Non ho bisogno di dirmi: ora userò il linguaggio e risponderò a tono.
Carlo Sini, Il
gioco del silenzio, Milano 2013