Sgombriamo il campo
dalla prima questione, assai d’attualità: l’islam non c’entra nulla. Le
richieste di non fare recita o presepe non vengono dai musulmani, tanto meno
dalle loro organizzazioni: ma da docenti che non sanno come gestire la
pluralità culturale, da laici che con la scusa delle minoranze religiose non
vedono l’ora di dare un colpo alla confessione maggioritaria cattolica
(dimenticando che il Natale è festa anche delle minoranze protestanti e
ortodosse, oltre che civile), o da insegnanti di ampie e democratiche idee, ma
di troppo astratte vedute. Non è cioè un conflitto tra noi e loro, ma tra di
noi a proposito di loro, che ne sono le pedine e le vittime, non gli attori. La
colpa infatti finisce per ricadere sui musulmani, che pagano il prezzo dell’astio
popolare, adeguatamente montato da legioni di ciarlatani di partito o di
giornale.
Seconda questione:
festeggiare il Natale non offende nessuno. E rinunciare al presepe o alla
recita natalizia, sostituire ‘Gesù’ con ‘virtù’ nella canzoncina di Natale, non
fare l’albero, non mettere decorazioni, sottrarsi persino agli auguri (magari
introducendo i pessimi “season’s
greetings” britannici), non ha nessun senso. Così come nessuno di noi si
stupirebbe, viaggiando in Israele, di vedere festeggiata Chanukkah, nei paesi
musulmani l’Aid al-Fitr, e in India il Navaratri hindu o il Vaisakhi sikh, così
non ha nessun senso che in Italia non si celebri il Natale. E così come non ci
sentiamo a disagio noi quando ci troviamo in paesi in cui si celebrano altre festività,
così non si sentono a disagio gli immigrati in Italia: per loro è un’ovvietà,
normale, e dunque anche norma (festività anche legale). E i bambini musulmani
farebbero volentieri anche la parte di Gesù (peraltro un venerato profeta
dell’islam, di cui il Corano riconosce la nascita verginale da Maria e il
compimento di miracoli) pur di partecipare alla recita natalizia da cui magari
vengono incautamente esclusi senza neanche chiedere la loro opinione.
Il multiculturalismo
– o meglio la gestione della pluralità religiosa, il rispetto per l’altro e
l’invenzione di modalità di convivenza tra culture diverse – si può costruire
in molti modi. Per addizione: aggiungendo conoscenze, simboli, momenti e luoghi
di incontro. Per interpenetrazione: facendo lo sforzo di pensare modalità
diverse di confronto e di comparazione. Quello che non ha nessun senso fare è
procedere per sottrazione: negando la propria cultura, o nascondendone i
simboli.
Il mondo della
scuola, con la sua forte presenza di immigrati (ma anche di autoctoni) di
culture e religioni diverse, è in questo ambito un laboratorio d’eccezione. Ma
proprio per questo, dato che si procede per tentativi ed errori, è anche il
luogo dove più spesso si fanno passi falsi grossolani, magari con ottime
intenzioni: che, come noto, lastricano le vie della perdizione, o semplicemente
del perdersi. Diventando così anche il luogo di battaglie ideologiche sostenute
da improvvisati sostenitori di una civiltà cristiana di cui ignorano i
fondamenti, che usano statuette del presepe e crocifissi non per il loro
significato, ma come arma impropria contro presunti nemici della civitas cristiana, strumentalizzando la
religione per le proprie misere battaglie politico-ideologiche: il che suona
assai stridente proprio con lo spirito del Natale, e l’esempio di quella
famigliola di Nazareth il cui figlio è nato in viaggio, lontano da casa, a
Betlemme, e fu riconosciuto tra i primi proprio da dei saggi di altra cultura e
religione, i Magi, venuti da oriente seguendo una stella.
Il buon senso forse
aiuterebbe. Quello che ci fa dire che questo paese ha una storia di cui fa
parte l’identità religiosa cristiana, e un presente e un futuro di cui fanno
parte anche altre tradizioni, che non debbono (né, del resto, vogliono)
cancellare il passato, ma chiedono solo una progressiva presa in considerazione
della loro esistenza. Ciò che si può fare senza traumi o proclami belligeranti:
né per cancellare né per imporre alcunché.
Stefano
Allievi,
Natività e buon senso, in “Corriere
della sera – Corriere del Veneto”, 29 novembre 2015, editoriale, p.1.