Ora dirò della città di Zenobia che ha
questo di mirabile: benché posta su terreno asciutto essa sorge su altissime
palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi,
poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l'un l'altro, collegate
da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da
tettoie a cono, barili di serbatoi d'acqua, girandole marcavento, e ne sporgono
carrucole, lenze e gru.
Quale bisogno o comandamento o desiderio
abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si
ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città
quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal
primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita a
Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è
sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue
scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di
nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello.
Detto questo, è inutile stabilire se
Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in
queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che
continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri
e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono
cancellati.
Italo Calvino,
Le città invisibili, p. 41-42