La fine dei riti l'ho
vista realizzarsi nel corso della mia vita e, ora che guardo indietro, mi pesa
aver dato, allora entusiasticamente, il mio contributo a questa grande perdita.
Quand'ero ragazzo, i neonati - anche quelli dei comunisti come me - venivano
ancora battezzati, ai morti si faceva ancora la veglia e un vero funerale, e i
matrimoni erano una festa corale officiata non solo dinanzi al divino, ma anche
dinanzi a decine di parenti e amici che diventavano così implicitamente garanti
di quell'unione.
Ma io ero ribelle.
Non volli sposarmi e quando lo feci, soprattutto per ragioni di assicurazione
malattia, fu in fretta, quasi di nascosto, alla sola presenza dei testimoni
indispensabili e davanti a un sindaco che, non volendolo democristiano, dovetti
andare a cercare lontano da Firenze, nel comune di Vinci, dove di buono c'era
che vi era nato Leonardo. I figli, poi, non li feci battezzare e non fui
presente né alla morte di mio padre, né a quella di mia madre.
Eppure, da piccolo i
riti mi piacevano e ancora oggi ricordo come una delle grandi gioie della vita
la vera e propria cerimonia con cui a quattordici anni, per marcare il mio «diventare
uomo», i miei genitori mi consegnarono il primo paio di pantaloni lunghi che,
poveri com'erano, avevano dovuto comprare a rate. Ma il vento dei tempi tirava
in un'altra direzione e io semplicemente volai con quello, dando una mano a distruggere
qualcosa che non è stato sostituito con nulla, lasciando un miserabile vuoto.
Tiziano Terzani, Un altro
giro di giostra, p. 368-369