In India non ci si
sente mai soli, mai completamente separati dal resto. E qui sta il suo fascino.
Alcuni millenni fa i
suoi saggi, i rishi, «coloro che
vedono», ebbero l'intuizione che la vita è una, e questa esperienza, rinnovata
religiosamente di generazione in generazione, è il nocciolo del grande
contributo dell'India all'incivilimento dell'uomo e allo sviluppo della sua
coscienza. Ogni vita, la mia e quella di un albero, è parte di un tutto dalle
mille forme che è la vita.
In India questo
pensiero non ha più bisogno d'essere pensato. È ormai nel comune sentire della
gente. È nell'aria che si respira. Il solo esserci induce una inconscia assonanza
con quella ormai antica visione. Senza difficoltà si entra in sintonia con
nuovi suoni, nuove dimensioni. In India si è diversi che altrove. Si provano
altre emozioni. In India si pensano altri pensieri.
Forse perché in India
il tempo non è sentito come una linea retta, ma circolare, passato, presente e
futuro non hanno qui il valore che hanno da noi; qui il progresso non è il fine
delle azioni umane, visto che tutto si ripete e che l'avanzare è considerato
una pura illusione.
Forse perché qui la realtà
percepita dai sensi non è generalmente presa per vera - non è la «Realtà
Ultima» -, l'India infonde, anche in chi non crede in tutto questo, uno stato
d'animo di distacco che rende il paese così particolare e la sua realtà, a
volte proprio orribile, in fondo accettabile. Accettabile perché così è la
vita: è tutto e il contrario di tutto, è stupenda e crudele. Perché la vita è
anche la morte, e perché non c'è piacere senza dolore, non c'è felicità senza
sofferenza.
In nessun altro posto
al mondo la contrapposizione degli opposti - bellezza e mostruosità, ricchezza
e povertà - è così drammatica, così sfacciata come in India. Ma è stata proprio
questa visione dell'inevitabile dualità dell'esistenza che spinse i rishi a cercarne il significato
recondito, che ancora oggi sembra agire come un catalizzatore spirituale in chi
ci si avventura.
Basta metterci piede,
in India, per provare questo mutamento.
Tiziano
Terzani,
Un altro giro di giostra, p. 153-154