Come è allora
possibile in un contesto del genere pensare ad un apprendimento stabile, al
conseguimento effettivo di competenze, ad una formazione e ad una maturazione
consistente e duratura?
Un cambiamento è
però possibile. Si può cominciare da
qualsiasi cosa, basta avere occhi per vedere, orecchie per sentire, mani per
toccare… Noi abbiamo guardato anche gli
oggetti. Gli oggetti che nella nostra
cultura riteniamo essere inanimati, senza voce, neutri. Eppure per le culture orientali, come per
quelle andine dell’America Latina non è così:
l’oggetto, la materia, parla, lancia un messaggio. Basta dargli voce, basta avere la forza di
osservare i particolari per far sì che la vita quotidiana esca dalla ferialità
e diventi straordinaria, dimensione non scontata, qualcosa che può anche
sconvolgere.
Noi siamo partiti
da un oggetto apparentemente banale, feriale, quotidiano: lo zaino che
utilizzano i nostri bambini e i nostri ragazzi per andare a scuola. Perché, ci siamo chiesti, viene impiegato
solo nelle scuole? Perché gli adulti per
andare al proprio lavoro tutt’al più portano con sé solo cartelle o borse
leggere?
C’è qualcosa dietro
a tutto questo che ci chiama ad un’interpretazione o si tratta solo di banalità
inutilmente rincorse?
Parrà strano ma
dando la parola a questo oggetto abbiamo capito molte cose sulla scuola, su
come funziona e sulle sue possibilità di cambiamento. Il solo fatto di paventare ad un certo punto
la sua eliminazione e il vedere resistenze, chiusure, innalzamento di “difese
organizzative”, ci ha convinto della portata che gli oggetti hanno nelle
organizzazioni e del fatto che le trasformazioni passano anche per la parte
hardware.
Con sempre più
chiarezza abbiamo colto che il cambiamento non può avvenire se non coinvolgendo
anche l’oggettualità, l’hardware dell’organizzazione – scuola, se non mettendo
mano all’aula, alla sua struttura strumentale fatta di banchi, sedie, cattedre
e lavagne.
Marco Orsi,
A scuola senza zaino, Erickson,
Trento 2006