La natura astratta
del lavoro, in quest’era tecnologica, lascia insoddisfatto chi lo svolge.
Ciascuno dovrebbe possedere il suo piccolo pezzo di terra, dove far tornare in
vita i propri istinti. Il possesso della terra ha una grande importanza
psicologica, che niente altro può sostituire. Continuiamo a dimenticarci che
siamo dei Primati e del fatto che dobbiamo tenere conto di questi strati
primitivi della nostra psiche. Il contadino è ancora in contatto con tali
strati: quando coltiva la terra, il suo raggio d’azione è molto limitato, ma lo
spazio in cui si muove gli appartiene. L’operaio invece è senza radici e il
risultato del suo lavoro non è reale, ma astratto: un po’ di soldi.
In passato,
l’artigiano traeva soddisfazione dal proprio lavoro perché ne vedeva i frutti
tangibili e trovava il modo di esprimersi nel suo mestiere, ma ora non è più
così. Innanzitutto, l’operaio è responsabile solo di un segmento del prodotto
finito, in secondo luogo, il prodotto viene venduto, scompare, e chi l’ha fatto
non ha più nulla a che vedere con esso. Poiché la ricompensa è inadeguata sul
piano psicologico, l’operaio si ribella contro il suo datore di lavoro e contro
il “capitalismo” in generale. Così l’operaio americano si considera un povero
diavolo perché possiede una sola automobile mentre il suo padrone ne ha due o
tre: questo è sintomatico dell’assurda ricerca di beni materiali.
Abbiamo tutti bisogno
di nutrire la nostra anima, ma è impossibile trovare tale nutrimento in questi
casermoni di città senza un filo di verde, senza un albero in fiore. Il
rapporto con la natura è indispensabile. Io stesso sono un manovale della
cultura, ma ricavo grande gioia dal coltivarmi le patate.
Io sottoscrivo
caldamente l’idea che la vita umana dovrebbe ancorarsi alla terra, dove sono le
sue radici.