Il post ”Il primo
giorno che vorrei” di Alessandro D'Avenia ha catturato la mia attenzione perché tratta di un argomento
su cui sto riflettendo da un po’ di tempo, non solo in ottica professionale: la
motivazione.
In estrema sintesi,
potremmo definire la motivazione come la “voglia di fare”, quella scintilla che
sempre meno frequentemente la scuola è in grado di accendere nelle menti e nei
cuori dei ragazzi che la frequentano.
Mi piace sostituire
il termine “motivazione” con un altro che in qualche modo lo contiene, ma che
non ne rappresenta necessariamente un sinonimo: mi riferisco alla parola
“desiderio”. Non si tratta di una sostituzione campata in aria, ma dettata dal
fascino che secondo me possiede la parola desiderio se considerata dal punto di
vista etimologico.
“De – siderare”
richiama infatti lo stare “sotto le stelle”, l’osservazione del cielo con un
atteggiamento di attesa e di ricerca del percorso da intraprendere. Trovo molto
significativo quel “de” privativo che precede “sidera” perché implica la
difficoltà a seguire la rotta segnalata dalle stelle, rimandando quindi a una
situazione di disorientamento e di perdita di riferimenti, ma anche e
soprattutto alla spinta positiva di ricerca personale e paziente della propria
stella, di un qualcosa che (ci) manca, ma che ha la forza straordinaria di
guidare il nostro cammino.
Ciò che risulta
davvero importante è la propensione interiore alla ricerca, all’individuazione
di un proprio percorso che abbia un significato concreto per se stessi, al
tentativo inesauribile di raggiungere ciò che non abbiamo. Come educatori (e
non solo) penso che in generale siamo diventati incapaci di orientare il
soggetto (noi stessi, ma anche chi ci circonda) verso la passione, verso il
proprio desiderio, verso la propria misura della felicità, necessariamente
particolare e mai universale.
Penso che le
difficoltà che frequentemente si incontrano a scuola con i ragazzi, definiti
spesso superficiali, svogliati, disinteressati a tutto e a tutti, risiedano
proprio nell’incapacità della generazione adulta di provocare e sostenere nei
giovani la ricerca personale della propria stella, del proprio orientamento
nella vita: purtroppo questo avviene quasi sempre a causa dell’assenza
nell’adulto stesso di un proprio desiderio. Come si può fungere da modello di
qualcosa che non si incarna? Com’è possibile pretendere di accendere una
scintilla laddove non si è mai vissuto il fuoco in prima persona? Come posso
aspettarmi che i miei ragazzi si interessino attivamente allo studio se io per
primo vivo l’aggiornamento e la formazione in servizio come un fastidioso e
inutile impegno in più in agenda?
Finché non
diventeremo “provocatori di desideri” incarnandone concretamente uno nostro,
l’esperienza dell’educazione sia come insegnanti che come genitori sarà
svuotata di senso in partenza e sarà quindi, conseguentemente e
inevitabilmente, del tutto inefficace.
Un’insegnante
alla ricerca della propria stella