Era
una delle prime “americane”. Me la ricordo ancora, azzurra, dal grosso telaio
metallizzato, con i larghi parafanghi cromati e il cavalletto, portapacchi
dappertutto e le manopole di gomma al manubrio.
Erano
i primi anni Sessanta e abitavamo da poco nel silenzioso villino di fine
Ottocento, con la facciata ricoperta d’edera. Da tanto tempo ormai quella casa
non udiva più risa e pianti di bambini, e ora quel luogo sembrava ritornato in
vita: gli schiamazzi risuonavano in tutto il palazzo mentre giocavamo a
rincorrerci e a perderci, su e giù per le scale in pietra, fra stanze altissime,
soffitte e cantine.
Al
piano terra, in un locale scuro che sembrava una specie di deposito, erano
custodite le biciclette. Lì entravamo per ammirare l’’”americana”, che torreggiava
splendida in mezzo alle altre, scialbe e nere, appoggiate al tavolo o lungo le pareti.
A occhi aperti, sognavamo viaggi sulle ali del vento, perché una bici così non
poteva che andare velocissima. Era la bici nuova della mamma. Mio padre
gliel’aveva comprata una volta perse tutte le speranze di farle prendere la
patente.
E
mamma volava veramente sulla sua bici, lasciando dietro di sé una scia d’azzurro
e d’argento. Volava con il suo sorriso di donna giovane, sicura della vita e
dell’amore. Volava con i pensieri leggeri volti al suo uomo e ai suoi bambini. Più
avanti, la vita le si sarebbe fatta dura e la ruggine avrebbe rovinato le
cromature. Più avanti. Ma, per il momento, la bici splendeva e la vita
prometteva solo aria fresca tra i capelli al vento.
Auguri
mamma