Parlavo con un ragazzino di nove anni. Aveva
appena finito una pagina di addizioni e mi accorsi che sommando nove e sei
aveva ottenuto quattordici. Così gli dissi: “Sono confuso su come hai ottenuto
questo risultato. A me ne viene uno diverso. Vorrei che mi mostrassi come hai
ottenuto quattordici”.
Quello che avevo detto era vero. Ero confuso su
come aveva potuto ottenere quattordici. Forse aveva inventato un nuovo tipo di
matematica, che magari mi sarebbe piaciuta di più di quella che conoscevo.
Comunque, ero confuso su come aveva ottenuto il suo risultato, e glielo dissi.
Il ragazzino cominciò a piangere.
Io chiesi: “Ehi, cosa c’è?”
Lui rispose: “Ho sbagliato”.
Agli in insegnanti bastò vedere questo. Il
ragazzino aveva già imparato, in terza elementare, che a scuola quello che
conta è soltanto il modo in cui sei valutato dagli altri. Aveva sentito la
parola “sbagliato” senza che io nemmeno la pronunciassi. Non solo aveva sentito
la parola “sbagliato”, ma la sua reazione comunicava che si vergognava di avere
“sbagliato”. Probabilmente, associava la parola “sbagliare ad altri giudizi
dolorosi, come “essere stupidi” e a conseguenze forti, come l’essere escluso da
un gruppo.
Vediamo che, in questo modo, gli studenti
imparano presto che la parte più importante della formazione non è sviluppare
capacità per arriche la vita, ma conseguire giudizi positivi ed evitare giudizi
negativi.
Marshall
B. Rosenberg, Educazione
che arricchisce la vita, Edizioni Esserci, Reggio Emilia 2005, p. 36-37