Caro Francesco,
buon anno di
fiducia e di amore. Nella vita e nel lavoro.
Ho letto con grande
attenzione e interesse la tua "campana di vetro" e subito mi sono
venute alla mente due immagini.
La prima, anno
scolastico 1991/92, la legge 626 ancora non ha fatto capolino nel nostro
ordinamento, ma già si organizzano i primi corsi di educazione alla salute e la
sicurezza viene concepita in termini di prevenzione di incidenti. Su invito e sensibilizzazione dell'allora
provveditorato agli studi, molte scuole iniziano le prime, ruspanti ma
appassionanti e per nulla tecniche rilevazioni dei rischi, all'interno delle
scuole. Ricordo che per quasi un mese, un gruppo di lavoro, nato all'interno
del Consiglio di istituto, formato da docenti e genitori, ha fatto il giro di
tutte le scuole, girando angolo per angolo, aula per aula, scala per scala,
cercando di rilevare eventuali luoghi "pericolosi". Il tutto era
finalizzato a creare una cultura della salute (sicurezza) e quindi di
prevenzione degli incidenti scolastici negli alunni, dopo aver individuato
eventuali rischi. Nessuno di noi pensava alla sicurezza in termini di
responsabilità, ma di sicurezza, cioè di evitare agli alunni di cadere dalla
scala scivolosa, di farsi male se sbattevano addosso ad uno "spigolo
vivo", se si impigliavano la tasca dei pantaloni sulla maniglia,
appuntita, della porta dell'aula...
Fu una bella
stagione, ognuno di noi si sentiva utile alla causa comune: avere una ambiente
scolastico, privo di pericoli, dove far vivere agli alunni la migliore
esperienza di crescita culturale e di promozione dello star bene in mezzo agli
altri.
Due anni dopo,
arrivò la 626 e i corsi di formazione cambiarono prospettiva. E i dirigenti,
allora presidi, cominciarono a cimentarsi con la burocrazia asfissiante degli
adempimenti.
La seconda
immagine, risale a 10 anni dopo, quando fui invitato, come relatore, in un
convegno sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, organizzato dallo SPISAL
dell'ULS 16 e dal Comune di Padova. Mi era stato affidato il tema: gioco e
sicurezza nelle scuole dell'infanzia. Iniziai la mia relazione - usavano
allora i lucidi e la lavagna luminosa - partendo dal concetto "rischio
educativo della crescita", ponendo in primo piano il diritto del bambino
di arrampicarsi sul castello di corda, posizionato nel salone della sua scuola,
senza essere ossessionato dalla paura di cadere o dal divieto dell'insegnante
che, per paura di complicazioni varie, vieta ai bambini di arrampicarsi sul
castello. La relatrice che aveva parlato prima di me, una pediatra di fama
nazionale, annuiva e sembrava condividere quanto stavo dicendo, ma mentre mi
addentravo, con alcuni esempi, tratti dalle osservazioni di parecchie scuole
dell'infanzia, e, un po', mi compiacevo, nel sostenere la necessità di favorire
nei bambini il gioco spontaneo, senza eccessivi limiti e divieti, salì sul
palco il direttore dello SPISAL, interrompendo la mia relazione, perché troppo pedagogica, rispetto al tema del
convegno. Qualche giorno dopo, il direttore venne a trovarmi in Ufficio e
ricordando il mio intervento al convegno, mi apostrofò come "una serpe in
seno".
Non ho mai pensato
di avere doti da grande relatore, forse qualche volta avrò anche annoiato il
pubblico che mi ascoltava, ma nessuno mai mi aveva definito "serpe in
seno", per aver detto che i bambini hanno bisogno di sperimentare luoghi e
situazioni, con un pizzico di rischio e
che lo stesso è utile per la crescita.
Caro Francesco,
tutte le domeniche i miei due nipotini di 8 e 5 anni vengono a trovarmi e dopo
aver suonato il campanello, provano gusto a nascondersi, per farmi uno scherzo.
Io sto al gioco, ma mentre fingo di preoccuparmi come mai non vedo nessuno pur
avendo sentito suonare il campanello, il più grande scavalca il cancello, si
nasconde tra le fronde dell'ulivo che si trova nel mio giardino e, con aria soddisfatta,
mi chiama e mi chiede: nonno, mi vedi? La mia prima reazione è fingere la sorpresa, la seconda è
raccomandargli che non metta i piedi nei
rami troppo fini che potrebbero spezzarsi e farlo cadere! Da qualche tempo, ne
aggiungo una terza: stai attendo a non pestare i piedi a tuo fratello, che
compiuti i 5 anni si sente pronto a emulare il fratello di 8.
Non possiamo
pretendere che gli insegnanti si comportino come il nonno compiaciuto che
rifiuta di dare divieti ai nipotini (ci pensano già i genitori) ma vorrei
suggerire agli insegnanti di provare a fidarsi un po' di più dei loro alunni,
di valutare la situazione ambientale e di accettare l'idea che il rischio zero
non esiste. Allora, con la nostra saggezza, di educatori, possiamo anche
tollerare che qualcuno possa sbucciarsi un ginocchio a scuola. Non sarà la fine
del mondo, al contrario sarà l'inizio di un percorso identitario, che aiuterà
l'alunno ad acquisire maggiore consapevolezza dei suoi limiti e della sua
personalità.
Andrea
Bergamo, dirigente
dell’Ufficio scolastico provinciale di Padova e Rovigo