È la vigilia di
Natale, c’è la nebbia, è buio, fa freddo nel negozio, fa freddo nella strada ma
il vero freddo è «il freddo che aveva dentro». «Gli gelava il viso, gli
affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, ne induriva l’andatura,
gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra, si rivelava nella voce
gracchiante. Una brina ghiacciata gli copriva il capo, sopracciglia e mento
legnoso; ed egli portava sempre in giro con sé quella sua bassa temperatura,
che gelava il suo ufficio anche nei giorni di canicola, e non saliva, sia pure
di un grado, neanche al tempo di Natale».
Ebenezer Scrooge è il
protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens e trascorre i giorni della
sua vita scalpellato in un suo egoismo così compatto che il freddo dell’inverno
nemmeno lo sente perché lo emana in proprio lungo tutto l’arco dei mesi e
insieme ostinatamente s’impegna a credere che scelta non ci sia, a credere che
la vita sia così, questo furioso difendere il proprio tangibile bene, fatto di
cose che non si usano per risparmiarle a se stesse, di case che non si
riscaldano per accumulare in banca titoli che non si godono perché hanno la
missione di aumentare, sempre di più, sempre di più.
Difendere le cose e
insieme difendersi dai sentimenti, sia mai che costino un regalo o anche solo
una gratitudine, spiffero di vita che ci invade. Per cui l’affetto del nipote
ostinatamente cordiale è solo molesto. Ma bisogna difendersi soprattutto dai
sensi, «perché un nonnulla basta a turbarli. Un piccolo imbarazzo di stomaco
può renderli ingannevoli». Benevolenza da buona digestione, sia mai che dopo ci
si debba pentire. E in questo generale totale assoluto viaggiare solo e
diffidente, la visita del socio Marley, peraltro del tutto defunto da sette
anni, cade inizialmente sotto l’accetta del sospetto, come tutte le relazioni
della sua vita circoscritta, serrata, inchiavistellata.
Triste lui,
rattristati quelli che gli stanno intorno, come si fa a non vedere? Come
facciamo tutti a non vedere la nostra infelicità?
Il socio Jacob Marley
che arriva dall’oltretomba carico di una catena da lui stesso costruita in
vita, fatta di «chiavi, lucchetti e libri mastri», spiega a Scrooge come a un
bambino che non vuol capire. È la vita circoscritta la colpa e la condanna
insieme, il non essersi mai allontanato dall’ufficio, mai «oltre gli stretti
limiti del nostro minuscolo banco di cambio», gli occhi incollati a terra e ai
beni e mai mai alla «stella benedetta che condusse i magi a una capanna».
Al di là del vortice
di buoni sentimenti, di un mondo povero ma felice in cui Scrooge viene
trasportato dallo spirito del Natale passato e dallo spirito del Natale
presente, e anche al di là dell’orrore ormai scontato in cui lo precipita la
visione del Natale futuro, che lo immerge nella realtà della sua morte e dello
sciacallaggio da cui è circondata, il viaggio natalizio di Scrooge è
sostanzialmente un vedere. «Vieni e vedi». Non sono le parole a trasformarlo ma
il lineare vedere come ciò che si è scelto ha avuto conseguenze su di noi e sul
mondo e come quel che faremo da ora in poi è ancora tutto nelle nostre mani,
non è scritto.
Ciò che Scrooge
impara è qualcosa che in fondo sappiamo ma dimentichiamo, e cioè che è la
solitudine a disseccare la nostra umanità. Non è bene che l’uomo sia solo. Ed è
la cecità lo strumento che ci permette di vivere così. Di non vivere così.
Caino dov’è tuo fratello? Scrooge che esce dalla notte di Natale vivo dopo aver
attraversato il suo funerale è un uomo che vede, improvvisamente vede: il
tacchino da regalare, i gentiluomini che aveva cacciato senza fissarli negli
occhi il giorno prima, e sente improvvisamente il freddo del negozio e la gioia
della festa e la felicità di rendere felici, felice della felicità degli altri.
Chissà se il
terribile peccato contro lo Spirito non è semplicemente questo negarsi alla
vita, alla ricerca della propria piccola arruffata sgangherata felicità.
Movimento rischioso, si può amare e perdere, partire e cadere. «Sono solo un
mortale, potrei anche cadere», dice Scrooge al fantasma dei natali passati. La
condizione di tutti è questo poter cadere ma permettere alla paura di
inchiodarci a un destino che vogliamo credere scolpito è negarsi il bene che la
vita disperde lungo gli anni che ci sono consegnati.
Questo movimento può
sembrare forse sul principio e anche dopo, a tratti, più difficile e molesto
del quieto restare al banco del cambio, che diventa poi faticoso difendere una
posizione, arginare la forza del mondo di affetti e relazioni che naturalmente
e senza pretese arriva, entra dalla porta nella forma del suono di mani che
sbattono l’una contro l’altra per vincere il freddo, o piedi che scivolano sul
ghiaccio mescolati alla voce di un bambino che canta canzoni di Natale.
Aprire gli occhi alla
vita è realtà prima che metafora e se non cambierà il mondo intero cambierà il
nostro mondo e quello di un bel po’ di persone che ci stanno intorno. Non è
poco, proprio no.
Mariapia
Veladiano, “Il Regno”, 10 (2015)