Di
parole si può morire. Non solo di maleparole che strangolano insieme l'anima e
il cuore. E tante sono le parole del giudizio: da qui non vien niente di buono,
ma come si fa? neanche le bestie. Al quadrato ignoranti, di uomini e di
animali.
Ci
sono anche le parole in eccesso. Affogare di altrui dilagare. Di chi non sa la
potenza del proprio parlare e non sa il suo svanire in questo fiume che va,
senza ombra di solennità. E tutto è uguale a tutto il resto, sconti, morti,
calure e sventure.
Altre
parole volteggiano come poiane sui tavolieri, alte e indifferenti, un partir da
lontano, insidia che pare indolente e non si sta sull'attenti, poi calano,
uncinate, e non c'è trincea all'esser afferrati.
Poi
ci sono le parole al contrario. Specchiate bugie. Limpide imposture in cui si
crede per arrivare al giorno dopo, e poi a quello dopo, e poi ancora e ancora.
Che
la libertà è un consegnarsi all'ombra
del potente, in cambio di niente, un'occhiuta sicurezza, più crudele di
un'imboscata.
Che
la bellezza è la mascherata di
un'eterna deforme giovinezza, vita sacrificata a sognare un tempo che non
ritorna.
Che
la vita è questo normale affanno di
coincidenza stavolta presa, di incrociarsi senza incontrarsi, di vita già
finita.
«Sulla
bocca degli stolti è il loro cuore,
i
saggi invece hanno la bocca nel cuore»
(Sir
21,26).
Mariapia Veladiano, Ma come tu
resisti, vita, p. 121-122.