Il mio articolo su
docenti, in-docenti, in-decenti ha suscitato
un acceso dibattito, che voglio proseguire, cercando di sollevare non inutili «sensi
di colpa» ma fecondi «amorosi sensi».
Spesso i docenti
perdono l'amore originario per il loro mestiere a causa delle condizioni del
sistema. Burocrazia. Famiglie assenti o aggressive. Ragazzi più o meno sdraiati.
Stipendio. Questi sono i demoni che infestano la nostra professione e sembrano trasformare
un docente in un in-docente
(neologismo, ci tengo a ribadirlo, da prendere alla lettera: colui che non
riesce più a trasmettere). L'in-docente,
pur rimanendo competente nella materia, perde gradualmente le sue «abilità
relazionali». Capita a tutti (anche solo a tratti) in questo mestiere, ma siamo
sicuri che le cause ultime siano quelle segnalate? O quelle segnalate sono solo
conseguenze di cui si traveste la vera causa?
La risposta è nella
lettera di una docente di istituiti professionali che mi ha scritto a proposito
del primo articolo: In un professionale mi sono trovata benissimo, perché lì
c'era un nucleo stabile di insegnanti e un vice-preside che avevano a cuore la
scuola e quei ragazzi. Mi sono sempre confrontata con i colleghi di scienze e
di fisica sui contenuti e su come proporli, su come gestire alcune situazioni
in classe; questo è stato molto importante e mi ha dato la possibilità di
raccogliere qualche frutto. Il collega di scienze mi ripeteva sempre che per
quei ragazzi era importante avere di fronte degli adulti che credono in quello
che fanno; lì, pure in modi diversi, ci credevano (quasi) tutti. Di conseguenza
i ragazzi avevano comunque il senso della scuola, di come fosse giusto
comportarsi. Spesso si comportavano male lo stesso, ma c'era la consapevolezza
di questo «male». Ho avuto sì delle sconfitte (insegnare a un professionale è
come per un medico lavorare in oncologia: sai in partenza che il più delle
volte non vinci tu), ma anche delle soddisfazioni. Ben diversa è stata
l'esperienza in un altro professionale. Il problema maggiore è stata la
mancanza di coesione fra gli insegnanti: la maggior parte dei miei colleghi aveva
letteralmente alzato «bandiera bianca», si era arresa e puntava alla
sopravvivenza personale. I pochi che provavano ad affrontare i problemi si
trovavano perciò di fronte a un muro. È stato un anno duro, perché non mi sono
mai sentita appoggiata. Docenti e dirigente si perdevano in una burocrazia
puntigliosa, mentre alcuni problemi enormi venivano ignorati perché «la scuola
non ha gli strumenti». Venivano approvati progetti che prevedevano gli
interventi (purtroppo inutili) di alcuni pedagogisti ed educatori. Sicuramente,
in condizioni diverse (con insegnanti che vogliono insegnare e mantenere vivo
il «senso della scuola»), molti problemi sarebbero rimasti irrisolti, perché enormi,
ma almeno la scuola si sarebbe offerta per quello che è, una scuola appunto, e
non un contenitore, in cui i ragazzi bivaccano allo scopo di conseguire (immeritatamente)
un titolo di qualifica professionale, senza la minima intenzione di alzarsi dalla
sedia a sdraio.
Che cosa è ciò che la
docente chiama il «senso della scuola»? Mettendo a confronto le due situazioni risulta
chiaro: le relazioni tra docenti. Posso essere il più esperto della materia, ma
se non amo più comunicarla, non amo più le persone a cui devo comunicarla, non
amo più le persone con cui devo comunicarla, non passa niente di quello che
conosco.
Il sistema scuola è
costituito da relazioni: con gli altri docenti, con i ragazzi, con i genitori.
In un mondo ormai basato sulla rete di persone e di saperi, la scuola è ancora
fondata sul «broadcasting»: la «cattedra»
emette messaggi indifferenziati ad un pubblico passivo. Per un cervello del
2013-14, che ha un modo di ascoltare e apprendere reticolare e partecipativo, e
sempre meno analogico e frontale, è come essere sintonizzati su frequenze
diverse. La scuola deve passare dall'età della radio-tv a quella della rete. La
rete costringe a tornare all'elemento umano della macchina. La lettera
evidenzia che la differenza tra le due scuole non sono le mura, ma le relazioni
tra docenti. Una scuola è a immagine delle relazioni dei docenti fra loro:
funziona se funzionano queste relazioni.
E quando funziona una
relazione? Quando è reale. E quando è tale? Quando produce effetti, perché
reale, insegna la scienza, è ciò che produce un effetto. La relazione
docente-studente che effetti produce se reale? La curiosità, il metodo, l'amore
per la materia e quindi la conoscenza, la crescita reciproca. Se non ci sono
questi effetti è perché non c'è la relazione. Perché non carichiamo le lezioni
su youtube dove i ragazzi potrebbero
comodamente guardarle quando vogliono e noi evitare ogni fatica? Perché prepariamo
«quella» lezione per «quella» classe per «quel» giorno? Perché è nella
relazione curata in modo unico che si comunica. La relazione docente-docente
che effetti produce se reale? Il sostegno reciproco, l'approfondimento di passioni
comuni, l'arricchimento di porzioni di sapere che ci sfuggono, in alcuni casi
l'amicizia. I docenti però spesso si fanno la guerra per invidia, per paura,
per stupidità, o semplicemente si lasciano succhiare la vita da quei demoni di
cui parlavo all'inizio. Il docente si spegne per solitudine preceduta dal
velenoso «silenzio degli in-docenti».
Solo l'umano rinnova i sistemi, non la tecnologia, e l'umano nella scuola è un
intreccio di relazioni, ciascuna con beni specifici in gioco. Sparita la relazione
sparisce il senso della scuola, statale o non, vecchia o nuova, di periferia o
di centro che sia.
Senza relazione
emergono solo mura e funzionari (la fase terminale dell'in-docente è il funzionario). C'è scuola dove c'è relazione e
costruzione di beni relazionali che senza quella relazione sarebbero
irraggiungibili, come pretendere dall'acqua di fare a meno dell'idrogeno o
dell'ossigeno: il senso della scuola è questo, il bene relazionale che solo la
reciprocità educativa può produrre.
Non sono un donchisciotte
a caccia di docenti ideali, ma di docenti nascosti dentro il loro silenzio, che
possano ritrovare luce attraverso pratiche virtuose, come accade in tante
scuole che ho visitato (professionali, tecnici, alberghieri, licei...) e che
sarebbero da imitare: docenti che lavorano in équipe con attenzione rivolta non
solo alla loro materia, ma ai colleghi e agli alunni come persone. Docenti che
continueranno a fallire come ci capita tutti i giorni nonostante gli sforzi,
perché fallire è proprio dell'umano e delle relazioni. Ma docenti che,
singolarmente e insieme, oltre a fallire, porteranno i ragazzi a scegliere: stare
al gioco relazionale e creare insieme qualcosa di buono o lasciarsi andare? La
responsabilità dei ragazzi è una risposta non un presupposto.
Propongo per l'ultimo
giorno di scuola di dicembre un'occupazione fatta dagli insegnanti. Tutti i
docenti di una classe la occuperanno e terranno una lezione di mezz'ora
sull'argomento che amano di più. Dovranno solo raccontarlo a studenti e
colleghi seduti nella stessa classe, insieme. Si magnificherà il sapere e la
propria passione di comunicarlo a colleghi e alunni, riuniti per quel che sono:
una comunità di ricerca di ciò che ha valore. Assisteremo all'assenza degli in-decenti, al fiorire degli in-docenti, alla gioia dei docenti.
Sognare una scuola
per tutti in cui sarà possibile scegliere chi è capace di dare senso alla
scuola è forse prematuro, ma sognare un giorno di scuola veramente libera nella
scuola dell'obbligo è solo questione di scelte.
Alessandro D’Avenia,
Le relazioni che salvano la scuola,
La Stampa, 12.12.2013