L’anello più debole è anche il più forte: spezza la catena
Stanislaw J. Lec
Due uomini di chiesa discutevano se fosse lecito pregare e fumare allo stesso tempo. L’uno credeva di sì, l’altro era di parere contrario. Così ambedue decisero di scrivere al Papa per ottenere una risposta definitiva. Fatto questo, si incontrarono nuovamente per comunicarsi a vicenda i risultati. E si stupirono nello scoprire che il Papa era d’accordo con tutti e due. “Come hai formulato il quesito?” domandò il primo. L’altro rispose: “Gli ho chiesto se fosse lecito fumare mentre si prega. Sua Santità ha detto di no, perché la preghiera è una cosa molto seria. E tu come hai formulato il quesito?” Il primo replicò: “Ho chiesto se fosse lecito pregare mentre si fuma. E Sua Santità mi ha risposto di sì, perché la preghiera si accompagna bene con qualsiasi cosa” [1].
La morale di questo aneddoto è, naturalmente, che il modo in cui vengono formulate le domande determina le risposte che si ricevono. Ma dimostra anche che le parole hanno una loro forza rispetto al contesto in cui vengono pronunciate.
Come ogni organizzazione, anche la scuola ha le proprie liturgie e i propri riti: uno di questi è il consiglio di classe con i genitori. Partecipando negli anni, anche come genitore, ai consigli di classe mi sono reso conto che le frasi pronunciate in quella occasione ricalcano quasi sempre e dappertutto gli stessi schemi. I docenti sanno di doverle recitare, i genitori sanno di doverle ascoltare. Pur avendo sempre a che fare con classi diverse, le parole di rito sono pressappoco le stesse: “la classe non si impegna abbastanza”, “la disciplina lascia ancora a desiderare”, “i ragazzi non stanno attenti”, “si dimostrano poco interessati”, “non sono autonomi”, “non hanno ancora acquisito un efficace metodo di studio” …
Quasi un mantra depotenziato, una carica disinnescata che lascia insoddisfatti sia chi parla e sia chi ascolta. Perché lo sappiamo tutti benissimo che l’impegno o l’autonomia dei ragazzi non migliorano miracolosamente solo per il fatto di averlo richiesto a due o tre rappresentanti dei genitori. All’altare della partecipazione bruciamo parole il cui fumo non raggiunge alcuna divinità: una preghiera persa. Ma le parole hanno una loro forza e pronunciate in quella occasione si possono rivelare un boomerang nei confronti di chi l’interesse ha il compito di suscitarlo, il metodo di studio deve insegnarlo, l’attenzione deve catturarla.
Parole come impegno, autonomia, interesse sono campi da arare per avere frutti da raccogliere. Non possiamo presentarli ai genitori come campi incolti, perché non è vero che lo siano. Ci lavoriamo con fatica ogni giorno e ogni giorno ne raccogliamo i frutti. Altrimenti avremmo già cambiato mestiere. E allora facciamolo capire ai genitori: diciamo ad alta voce che i loro figli sono cresciuti anche grazie al nostro lavoro, che hanno appreso cose che prima non conoscevano, che ora sanno fare cose che prima non sapevano fare. Perché questa è la verità. Se diciamo che i ragazzi non hanno ancora imparato un metodo di studio, i genitori giustamente vi chiederanno: “ma chi glielo deve insegnare questo metodo di studio se non il professore?”, “chi li deve interessare questi ragazzi se non il docente che spiega?”.
Come possiamo allora comunicare in maniera efficace, senza apparire autocelebrativi e offrendo nel contempo ai genitori lo stimolo per partecipare attivamente a questa grande avventura che è la formazione dei loro figli?
Dopo aver parlato di queste cose con alcuni di voi, una docente mi si è avvicinata e mi ha detto: “Un ragazzo interrogato non ha saputo rispondere a nessuna delle domande su un argomento che il pomeriggio precedente lo aveva visto studiare a casa per due ore. Allora io ho preso lo stesso argomento e mi sono messa a studiarlo ad alta voce, mentre la classe mi ascoltava. Dopo dieci minuti di questa dimostrazione ho interrogato lo stesso ragazzo che ha saputo rispondere benissimo a tutto”. Questo è il lavoro che voi fate in classe ogni giorno, e questo è ciò che dobbiamo dire ai genitori, magari perché lo facciano anche loro a casa. Certo, ci sarà qualche allievo refrattario, ma questo è normale e il vostro lavoro non ne viene complessivamente inficiato.
La parola non è solo strumento di comunicazione, ma può diventare strumento di modificazione della realtà: introdurre un nuovo linguaggio può aiutare a sviluppare una nuova lettura di un fenomeno, di una situazione, di un problema. Qualche giorno fa, ho partecipato a un seminario di formazione organizzato dal ministero della Giustizia in collaborazione con il nostro ministero. La giornata di studio era rivolta alla polizia penitenziaria e ai docenti che operano negli istituti di pena del Veneto. La relatrice era una formatrice molto preparata: con la sua società tiene corsi per varie amministrazioni dello Stato e anche per i funzionari della Rai. Il suo intervento a Padova era centrato su come lavorare nel gruppo in maniera efficace. (Mi permetto di allegarvi la sintesi della relazione, perché ritengo molto interessanti gli suoi stimoli proposti anche in vista della costruzione del nuovo istituto comprensivo). In particolare sono stato colpito dal modo in cui la dr.ssa Devanna usava certe parole. Vi faccio solo un esempio che ci potrebbe servire con i genitori, ma non solo con loro. Noi di solito parliamo di punti di forza e di punti di debolezza o di criticità, lei invece parlava sempre di punti di forza e di aree di miglioramento, sottolineando in questo modo i traguardi già raggiunti e la prospettiva immediata verso cui tendere con il nostro lavoro. Mi sembra un suggerimento intelligente anche per la nostra comunicazione.
Sono certo che voi accoglierete le mie parole come dettate dalla stima e dal grande affetto che nutro per ciascuno di voi
Francesco Callegari
Dirigente Scolastico