Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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sabato 9 febbraio 2013

BERSABEA - Italo Calvino



Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa. L’immagine che la tradizione ne divulga è quella d’una città d’oro massiccio, con chiavarde d’argento e porte di diamante, una città–gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo di studio laborioso può produrre applicandosi a materie di massimo pregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste: accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di composita compostezza.
Credono pure, questi abitanti, che un’altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d’ingegno, ed è costante loro cura cancellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa. Al posto dei tetti ci si immagina che la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cui franano croste di formaggio, carte unte, resche, risciacquatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende. O che addirittura la sua sostanza sia quella oscura e duttile e densa come pece che cala giù per le cloache prolungando il percorso delle viscere umane, di nero buco in nero buco, fino a spiaccicarsi sull’ultimo fondo sotterraneo, e che proprio dai pigri boli acciambellati laggiù si elevino giro sopra giro gli edifici d’una città fecale, dalle guglie tortili.
Nelle credenze di Bersabea c’è una parte di vero e una d’errore. Vero è che due proiezioni di se stessa accompagnino la città, una celeste e una infernale; ma sulla loro consistenza ci si sbaglia. L’inferno che cova nel più profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegnata dai più autorevoli architetti, costruita coi materiali più cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno e orologeria e ingranaggio, pavesata di nappe e frange e falpalà appesi a tutti i tubi e le bielle.
Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Bersabea crede virtù ciò che è ormai un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi soli momenti d’abbandono generoso sono quelli dello staccare da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit di Bersabea gravita un corpo celeste che risplende di tutto il bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttate via: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del tram, ritagli d’unghie e di calli, gusci d’uovo. La città celeste è questa e nel suo cielo scorrono comete dalla lunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto libero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea, città che solo quando caca non è avara calcolatrice interessata.
Italo Calvino, Le città invisibili, p. 117-118
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