In Colorado c’è un
uomo che, come è facile immaginare, è molto infastidito dal rumore degli aerei
che arrivano e partono dall’aeroporto di Denver, a una cinquantina di
chilometri da casa sua. Fino a che punto lo irritano, esattamente? Secondo un
recente studio, nel 2015, ha mandato 3.555 dei 4.870 reclami ricevuti dall’aeroporto.
E non è un caso unico. Cinque persone hanno mandato il 61 per cento dei reclami
all’aeroporto di Portland, e a Washington, “due persone che abitano nella
stessa casa”, in un anno hanno inviato 6.852 lettere di protesta all’aeroporto
nazionale Ronald Reagan (a proposito del rumore, intendo. Lo studio non fa
parola di quanti si sono lamentati perché è stato dedicato a Reagan).
Essendo io stesso
un habitué dei reclami ufficiali, confesso di provare una certa ammirazione per
queste persone. Sì, lo so che una delle caratteristiche fondamentali della
follia è ripetere sempre la stessa cosa aspettandosi un risultato diverso. Ma
rispetto la loro sfida cosmica. Il mondo è assurdo e irritante, ma almeno
qualcuno ha abbastanza rispetto per se stesso per continuare a protestare
contro questa realtà.
Non che questo lo
renda più felice. I risultati della ricerca dimostrano che l’irritazione e le
lamentele si autoalimentano. Obiettare a qualcosa che non possiamo controllare
provoca una momentanea sensazione di catarsi, ma in genere peggiora le cose,
aumentando l’attenzione che dedichiamo a quel problema, il che lo rende ancora
più invadente. Finiamo per avere una percezione più acuta del rumore successivo
e per irritarci ancora di più quando arriva.
Siamo stressati
anche quando il rumore non c’è, perché rimaniamo in tensione, aspettando che il
silenzio sia interrotto. A quel punto è comprensibile che i reclami diventino
centinaia: lamentarsi alimenta l’irritazione. È più facile rendercene conto se
pensiamo a questi piccoli fastidi come difficoltà che incontriamo in un
rapporto, in questo caso si tratta del nostro rapporto con l’ambiente. Inveire
contro queste cose è come disamorarsi del proprio partner e continuare a
litigare senza scopo. È mai servito a qualcosa?
Come al solito, i
buddisti l’hanno capito prima di noi. La “prima nobile verità” del buddismo
spesso è resa con l’espressione “la vita è sofferenza”, ma questa traduzione è
un po’ troppo melodrammatica, fa pensare a una continua agonia, mentre in
realtà per la maggior parte di noi, grazie al cielo, non è sempre così. La
parola usata nella lingua originale, dukka,
significa qualcosa che si avvicina di più a “non appagamento”. La vita può
essere meravigliosa, orribile o una via di mezzo, ma in sottofondo c’è sempre
qualcosa che non va: o quello che sta succedendo è spiacevole oppure è
piacevole ma sappiamo che prima o poi finirà. Quelli che si lamentano del
rumore degli aerei sono immersi fino al collo nel dukka, sono infelici quando passa un aereo e infelici quando non
passa, perché sanno che quel silenzio non durerà.
Una delle grandi
intuizioni del buddismo è che l’insoddisfazione non deriva dalle situazioni
stesse, ma dal modo in cui pensiamo di raggiungere la felicità: cercando le
situazioni giuste e sperando che durino per sempre. È una ricerca destinata a
fallire, perché niente dura per sempre. Gli aerei vanno e vengono, e si può
essere felici solo non facendoci caso. Anche se penso che Budda deve aver fatto
eccezione per “l’allegro cinguettio” della suoneria del Samsung. Quello è
veramente insopportabile.
Tratto da Internazionale del 15 novembre 2016 (Traduzione di
Bruna Tortorella).
Questo articolo è
uscito sul quotidiano britannico The
Guardian.