“Se si perde loro (i
ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i
sani e respinge i malati”.
Così diceva Don
Milani nelle “Lettere ad una Professoressa”, e mai come in questo momento queste parole mi sembrano così
attuali e così potenti. Cosa dovrebbe fare
una scuola, un gruppo d’insegnanti di fronte ai ragazzi difficili,
quelli che formeranno l’esercito dei dispersi e di cui noi, anche se per un
breve tratto della loro vita, siamo stati chiamati a educarli, a dar loro una
riva su cui appoggiarsi per prendere fiato, marchiati da persone che forse non
hanno volto il loro sguardo sul loro viso, all’interezza del loro essere.
Prima di scrivere
“Promosso” o “Bocciato”, siamo sicuri di aver dato loro tutte le opportunità di
esser stati protagonisti della loro vita, oppure abbiamo scelto la via più
facile; quella retorica lezione che si ripete da secoli in cui spieghiamo,
facciamo fare esercizi, interroghiamo e poi giudichiamo?
Abbiamo mai provato a
mettere al primo posto l’amore, il prendersi cura, (non l’assistenzialismo), ma
l’osservazione quotidiana, i gesti interrotti, i punti di forza dei nostri
allievi e non sempre la mancanza, i loro deficit, il loro abbandono che nasce
ancor prima di loro?
Abbiamo mai provato a
capovolgere la solita frase:” Vedi va bene in Musica, in Arte e in Fisica,
tutte materie che non hanno bisogno di studio, è proprio limitato!”
Quanta pochezza in
queste parole mal riposte da insegnanti che insegnano a ripetere a memoria e
non hanno mai provato a vedere gli stessi ragazzi interpretare, creare, rompere
le barriere che hanno costruito intorno a loro, e ascoltarli mentre cantano una
canzone che li rappresenta, che parla di
una solitudine di cui sono prigionieri e di cui non riescono a trovare la
chiave per uscirne?
Vedere questi
ragazzi, quelli difficili come dicono loro, emergere, sentire la loro emozione
della prima volta, gli occhi lucidi mentre dicono: “I matti sono punti di
domanda senza frase migliaia di astronavi che non tornano alla base sono dei
pupazzi stesi ad asciugare al sole i matti sono apostoli di un Dio che non li
vuole mi fabbrico la neve col polistirolo la mia patologia è che son rimasto
solo. Ora prendete un telescopio misurate le distanze e guardate tra me e voi chi è più pericoloso?” (Ti regalerò una rosa di Simone
Cristicchi).
Chi è più pericoloso?
Loro a cui non abbiamo dato l’amore che cercavano da noi, o loro che già vivono
della disistima di tutti, della loro giovane vita inefficace, del loro dolore
che abbiamo già catalogato come patologia?
Non nascondiamoci
dietro a una sindrome; non esistono più sindromi, perché siamo diventati tutti
portatori di mal-essere, di a-normalità, prefissi da mettere davanti alla
nostra incapacità di ascoltare, di interagire, di assolvere per mancanza di
prove. L’empatia, quel sentimento passato di moda perché così difficile da
mettere in pratica in un mondo dove non ci si saluta neanche tra coinquilini,
quel sentimento che dovrebbe farci capire, recepire il loro mondo, è finito tra
squallidi voti, in squallidi registri elettronici, dove non usiamo neppure la
nostra mano, ma un mouse, per respingere un ragazzo a cui la vita
disonestamente gli ha rubato un’infanzia tradita.
Noi non siamo un
Ospedale, ma una Scuola che ha il dovere di aiutare gli ultimi, per farli credere
che ai loro punti di domanda noi diventiamo le loro frasi e la neve non è solo
per chi può toccarla.
La neve è di tutti e
soprattutto ai ragazzi difficili piace sentirla sulla faccia. Per sentire una
carezza da quel Dio che li ha sempre amati e ci ha creati tutti uguali.
Come diceva Don
Milani: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra
disuguali”. Prima di farli ammalare
ancor più, cerchiamo tutte le cure che solo noi insegnanti possediamo. Tra la
testa e il cuore.
Claudia Pepe,
in Questione
di classe