L'Io, che inutile
peso! Mi ero davvero stancato del mio, di quella figura che dovevo sempre
portarmi dietro e ripresentare al pubblico. Quante volte in aereo, in treno, a
una cena in casa di un diplomatico o al ricevimento di un qualche ministro
avevo dovuto, con una obbligatorietà a cui non sapevo sottrarmi, raccontare per
l'ennesima volta i soliti, divertenti aneddoti della mia vita, spiegare perché
da italiano scrivevo per un settimanale tedesco come Der Spiegel, perché ero stato arrestato in Cina o che cosa pensavo
del paese in cui al momento vivevo! Il tutto per intrattenere qualcuno, per
essere simpatico.
Avevo tanto riso dei
giapponesi con il loro «io» legato a ciò che sta scritto sulle loro meshi, i biglietti da visita, in cui
sotto al nome, e più importante di quello, sono indicati il titolo e la
posizione che occupano nella loro azienda. Io mi ero comportato esattamente
allo stesso modo: per essere preso in considerazione, per non essere messo da
parte presentavo anch'io, recitato invece che stampato, il mio biglietto da
visita: quella identità di me da cui sembravo così tanto dipendere.
L'identità poi, come
fosse un congegno delicato, richiedeva manutenzione, doveva essere lucidata,
bisognava cambiarle l'olio. Dell'identità andava curato ogni aspetto: la
pettinatura, il vestito, il modo di presentarsi, di telefonare, di mantenere i
contatti, di rispondere agli inviti. Nel mio caso... anche il modo di
cominciare un articolo! «Vali quel che valeva il tuo ultimo pezzo», mi aveva
detto ancora ai tempi del Vietnam l'amico Martin Woollacott, collega del Guardian, e quel dover essere almeno
all'altezza dell'Io dell'articolo precedente era diventata sempre più una
ossessione. Il tutto per mantenere un nome. Il nome, sempre il nome. Quante
cose dipendono nella vita dal nome! Il nome nella lista degli ammessi, dei
promossi, dei vincitori, dei passeggeri; il nome in prima pagina. Sempre quel
nome, quella identità. Che fatica!
Via. Tutto questo,
via! Un altro po' di inutile zavorra buttata a mare per affrontare meglio
l'ultima traversata.
Tiziano
Terzani,
Un altro giro di giostra, p. 337-338