Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber

sabato 2 novembre 2013

LE PIRE DEL GANGE - Tiziano Terzani


Camminando dal Gange View Hotel verso Nord, lungo le scalinate che scendono al fiume, si incontrano due campi di cremazione dove il compito di disporre dei corpi, in pubblico, sotto gli occhi di tutti, non cessa mai. Passai ore a osservare l'andirivieni dei morti e dei vivi, il continuo affaccendarsi attorno ai fuochi degli addetti ai lavori e dei parenti. Mi colpì che nessuno, mai, piangeva. La morte era un fatto contro cui nessuno sembrava ribellarsi. E noi occidentali invece abbiamo tanta difficoltà ad accettarla! Per noi la morte è sempre una sconfitta, qualcosa contro cui dobbiamo combattere con ogni mezzo e anche in extremis sperare magari in un «miracolo» che induca la natura a cambiare, almeno per una volta, le sue immutabili leggi.
Una volta una donna si presentò all'Illuminato con in braccio il suo bambino appena morto e gli chiese un miracolo, di ridargli la vita. Buddha disse che lo avrebbe fatto, ma a una condizione: che la donna gli portasse un pugno di riso di una famiglia che non fosse mai stata visitata dalla morte. La donna corse via, andò di casa in casa, di villaggio in villaggio, ma dovunque si rivolse c'era stato un morto. La donna tornò da Buddha, rassegnata. Ma aveva capito ed egli la consolò. Ora erano tutti e due sulla stessa strada.
E il corpo? A guardare quelli che sbrigativamente venivano mandati in fumo sulle pire pensavo a quanto noi ci identifichiamo con il nostro corpo e a come ci è impossibile staccarcene. Persino le nostre speranze di immortalità e di resurrezione hanno a che fare col corpo. Noi non riusciamo, come gli indù o l’Illuminato a vedere nel corpo uno strumento che, una volta usato, è da buttare via senza rimpianti.
Per le strade di Benares si incontrano in continuazione le processioni dirette ai campi di cremazione. Il cadavere, avvolto in un lenzuolo, la faccia scoperta al sole, è disteso su una barella di bambù portata a spalla da quattro uomini. Il corteo non ha niente di funereo, di lento, di strascicato. Al contrario. Avanza a passo di marcia, quasi correndo, senza tanto riguardo per il morto che, precario nella barella, sobbalza e scuote la testa. E avanti, alla svelta verso la pira dove il primogenito del defunto che si è appena rasato la testa, appicca il fuoco, osserva le fiamme che divorano la legna e la carne e alla fine butta sulle ceneri una ciotola d’acqua sacra del Gange; poi, senza voltarsi, va a fare le abluzioni di purificazione e torna alla ruota del mondo.
Il funerale non è di suo padre, ma del suo corpo, una materia ormai inutile, senza alcun valore di cui è necessario e facile sbarazzarsi.
A noi occidentali invece è naturale vedere il defunto nel suo corpo e fare di quel corpo l’oggetto del nostro dolore. Quando poi si tratta del nostro proprio corpo l’identificazione è ancora più grande.

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, p. 203-204
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