Camminando dal Gange
View Hotel verso Nord, lungo le scalinate che scendono al fiume, si incontrano
due campi di cremazione dove il compito di disporre dei corpi, in pubblico,
sotto gli occhi di tutti, non cessa mai. Passai ore a osservare l'andirivieni dei
morti e dei vivi, il continuo affaccendarsi attorno ai fuochi degli addetti ai
lavori e dei parenti. Mi colpì che nessuno, mai, piangeva. La morte era un
fatto contro cui nessuno sembrava ribellarsi. E noi occidentali invece abbiamo
tanta difficoltà ad accettarla! Per noi la morte è sempre una sconfitta,
qualcosa contro cui dobbiamo combattere con ogni mezzo e anche in extremis sperare magari in un
«miracolo» che induca la natura a cambiare, almeno per una volta, le sue
immutabili leggi.
Una volta una donna
si presentò all'Illuminato con in braccio il suo bambino appena morto e gli
chiese un miracolo, di ridargli la vita. Buddha disse che lo avrebbe fatto, ma
a una condizione: che la donna gli portasse un pugno di riso di una famiglia
che non fosse mai stata visitata dalla morte. La donna corse via, andò di casa
in casa, di villaggio in villaggio, ma dovunque si rivolse c'era stato un
morto. La donna tornò da Buddha, rassegnata. Ma aveva capito ed egli la
consolò. Ora erano tutti e due sulla stessa strada.
E il corpo? A guardare
quelli che sbrigativamente venivano mandati in fumo sulle pire pensavo a quanto
noi ci identifichiamo con il nostro corpo e a come ci è impossibile
staccarcene. Persino le nostre speranze di immortalità e di resurrezione hanno
a che fare col corpo. Noi non riusciamo, come gli indù o l’Illuminato a vedere
nel corpo uno strumento che, una volta usato, è da buttare via senza rimpianti.
Per le strade di
Benares si incontrano in continuazione le processioni dirette ai campi di
cremazione. Il cadavere, avvolto in un lenzuolo, la faccia scoperta al sole, è
disteso su una barella di bambù portata a spalla da quattro uomini. Il corteo
non ha niente di funereo, di lento, di strascicato. Al contrario. Avanza a
passo di marcia, quasi correndo, senza tanto riguardo per il morto che,
precario nella barella, sobbalza e scuote la testa. E avanti, alla svelta verso
la pira dove il primogenito del defunto che si è appena rasato la testa,
appicca il fuoco, osserva le fiamme che divorano la legna e la carne e alla fine
butta sulle ceneri una ciotola d’acqua sacra del Gange; poi, senza voltarsi, va
a fare le abluzioni di purificazione e torna alla ruota del mondo.
Il funerale non è di
suo padre, ma del suo corpo, una materia ormai inutile, senza alcun valore di
cui è necessario e facile sbarazzarsi.
A noi occidentali
invece è naturale vedere il defunto nel suo corpo e fare di quel corpo l’oggetto
del nostro dolore. Quando poi si tratta del nostro proprio corpo l’identificazione
è ancora più grande.
Tiziano
Terzani,
Un altro giro di giostra, p. 203-204