Foto di Tiziano Terzani
I miei nonni, che venivano da famiglie contadine, avevano una grande familiarità con quello che nella natura serve alla salute. Avevi il mal di pancia, il raffreddore o la diarrea? Qualcuno andava nel campo e tornava con un'erba dicendo: «Bollila e bevila stasera». La natura era il primo medico a cui tutti ricorrevano. Bastava saper riconoscere le foglie, i fiori, i semi, la scorza di una pianta. Tutta quella sapienza l'ho vista scomparire sotto i miei occhi, nel corso della vita. Già mia madre rifiutava gli impiastri che mia nonna preparava da mettermi sul petto quando avevo la tosse. Lei preferiva andare in farmacia a farsi dare qualcosa di più moderno, di chimico. Costava di più, quindi doveva essere per forza migliore.
Tutte le antiche civiltà erano in un modo o in un altro convinte che, oltre a quello che la natura metteva alla portata di tutti, c'era poi qualcosa di speciale, di raro, di miracoloso nascosto nel mistero dei boschi o nelle gole delle montagne.
Per i cinesi il ginseng, prima che fosse coltivato artificialmente e diventasse un prodotto industriale, era l'essenza della terra in forma umana, una fata – e ne aveva tutte le sembianze - che cresceva solo a grandi altezze per diventare il toccasana contro mille mali; soprattutto contro l'invecchiamento.
Per gli indiani la soma, l'erba dell'immortalità di cui si parla persino nei Veda e che gli yogi dicono di usare per vivere fino a duecento anni, sarebbe un rampicante che cresce esclusivamente nell'Himalaya al di sopra dei quattromila metri. Oggi nessuno lo trova più, come se anche quella conoscenza, se mai è esistita, fosse scomparsa.
Ma oggi sappiamo forse perché il vischio è da secoli considerato una pianta di buon auspicio? Perché gli antichi druidi lo tagliavano solo con un falcetto d'oro? Perché è entrato nel folklore di tanti diversi popoli come un qualcosa carico di mistero, una pianta sacra e curativa di tanti disturbi, specie quelli dello spirito? Non lo sappiamo. Eppure continuiamo, specie a Natale, ad appendere sopra la porta di casa, come portafortuna, un ramicello di questo strano parassita che si attacca alla cima di piante come la quercia, il pino o la betulla, e resta verde mentre gli alberi di cui si nutre succhiandone la linfa perdono le foglie e vanno in letargo.
Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, p. 144-145